Notenstein: Matusalemme generò suo figlio Lamech all’età di 187 anni e visse poi altri 782 anni. Patriarca antidiluviano dell’Antico Testamento, egli raggiunse così la proverbiale età biblica di 969 anni. Se anziché in anni calcolassimo in mesi lunari giungeremmo comunque alla non trascurabile età di 78.5 anni, che corrispondono a una vita estremamente lunga per il passato, ma non certo per oggi, epoca in cui i Matusalemme si stanno gradualmente moltiplicando. Una buona notizia nell’ottica individuale, ma di fatto una situazione gravosa per i sistemi previdenziali del mondo occidentale. Al fine di assicurarne la finanziabilità, numerosi paesi hanno cominciato a innalzare l’età pensionabile, con il risultato che già dodici nazioni industrializzate l’hanno portata a 67 o 68 anni, con la realistica prospettiva di nuovi ritocchi verso l’alto. Signor Schwarz, dobbiamo davvero lavorare fino allo sfinimento?

Gerhard Schwarz: Questa domanda polemica avrebbe dovuto essere posta semmai al tempo in cui l’Assicurazione vecchiaia e superstiti (AVS) fu introdotta. E nel 1891, quando in Germania entrò in vigore la prima assicurazione pensionistica di ispirazione moderna, sotto l’egida di Otto von Bismarck, essa non sarebbe stata neppure polemica, poiché l’età pensionabile era fissata a 70 anni, un traguardo che davvero pochissimi lavoratori riuscivano a raggiungere. Nel 1948, quando in Svizzera nacque l’AVS con la sua età pensionabile di 65 anni per entrambi i sessi, dopo il pensionamento l’uomo aveva mediamente una speranza di vita di buoni 12 anni, mentre oggi essa è salita a circa 19 anni. Come evidenziato dal grafico, per le donne risulta essere di tre o quattro anni in più, per cui se non sono vittime di una grave malattia o di un infortunio vivono fino a 90 anni e oltre. A ciò si aggiunge che questi 20 anni e più possono essere vissuti sostanzialmente più a lungo in buone condizioni fisiche. Notoriamente, l’ultimo anno di vita è sempre il più costoso in termini di spese sanitarie, a prescindere che si raggiunga un’età molto avanzata o solo avanzata. Quindi, anche se si eleva di tre anni l’età pensionabile, all’inizio del pensionamento si sarebbe ancora 16 anni lontani dallo «sfinimento», mentre 50 o 60 anni or sono erano 12.
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Ma la sua domanda è fuorviante anche sotto due altri aspetti. Da un lato, l’espressione «fino allo sfinimento» suggerisce un lavoro durissimo sino alla fine, ma se in futuro lavoreremo più a lungo, ipotesi di cui sono convinto, sarà anche necessario trovare nella vecchiaia un altro ritmo, un altro mix tra professione e tempo libero, in modo da compiere una transizione fluida verso quella età in cui non svolgeremo più un lavoro retribuito. Ma a tale proposito devono entrare in gioco e fare la loro parte non solo il mondo politico e i lavoratori, ma anche i datori di lavoro. Questa partecipazione non è affatto scontata ovunque. D’altro lato lei afferma che «dobbiamo lavorare», ma sono certo che molte persone lavorano con piacere, anche le più mature e persino quelle che hanno esercitato professioni molto impegnative dal punto di vista fisico. Se non hanno compromesso la loro salute, aiutano amici o parenti oppure svolgono persino un lavoro retribuito e, se il legislatore glielo vieta, anche a nero se necessario. Il lavoro dona un senso all’individuo e conferisce una sensazione di utilità. E non stupisce che nelle tradizionali ripartizioni dei ruoli nelle famiglie le donne, che proseguono il loro lavoro domestico e familiare, convivano più facilmente con l’invecchiamento e riescano a battersi meglio degli uomini anche sul piano della salute quando cade la mannaia dell’età pensionabile legale.

La follia del nostro sistema risiede in una grottesca tripartizione della vita. Dapprima c’è il periodo della formazione, sempre più lungo e spesso fino ai 30 anni. Poi segue la carriera, in cui alle persone è richiesto l’impegno più assoluto, la disponibilità a lavorare così duramente da compromettere la salute e il matrimonio o addirittura da mandare in pezzi entrambi, e poi arriva il tempo in cui ci si dovrebbe godere la vita. Sarebbe molto più ragionevole riuscire a godersi un po’ la vita già prima, allungare ampiamente il periodo attivo, ma in contropartita lavorare meno intensamente – il che non sarebbe proprio «lavorare fino allo sfinimento».

Notenstein: Vivere più a lungo significa quindi lavorare più a lungo, anche se non fino allo sfinimento. Ma lei non promuove un innalzamento globale dell’età di pensionamento, bensì un passaggio fluido al pensionamento. Per consentirne l’attuazione occorre quindi una flessibilizzazione del lavoro e della previdenza, tenendo opportunamente conto delle esigenze e delle capacità squisitamente personali. Al riguardo è interessante il raffronto internazionale: esistono paesi che hanno flessibilizzato i loro sistemi previdenziali in un processo democratico conformandoli alle mutate circostanze? Oppure tutti e dodici i paesi menzionati in apertura non sono che vittime della crisi finanziaria ai quali non è rimasta altra risorsa che aumentare l’età pensionabile, senza tuttavia ottenere un ampio consenso da parte della popolazione?

Gerhard Schwarz: Lei ha ragione, non si può fare di ogni erba un fascio. Per questo non mi spingerei al punto di chiedere allo Stato il varo di incentivi per una vita lavorativa più lunga. In verità sarebbe più che sufficiente eliminare tutte le distorsioni e conferire alle rendite basi corrette in termini attuariali: chi lavora più a lungo può percepire poi una rendita più elevata e non deve essere certo punito per questo, ad esempio fiscalmente, e chi va in pensione prima deve accettare una riduzione proporzionale della rendita. Questo vale per la larga maggioranza della popolazione. Naturalmente, per le persone che per motivi di salute non sono più abili al lavoro occorre trovare una soluzione individuale. Ma in merito alla sua domanda, cioè se l’innalzamento dell’età pensionabile nei dodici paesi menzionati è stato accettato a grandi linee semplicemente perché era praticamente inevitabile a fronte delle casse vuote, il pensiero corre a paesi come la Germania, che a piccoli passi intende aumentare l’età di pensionamento a 67 anni entro il 2029. Mi sembra che in questo paese, visto che ci si è adoperati per trovare soluzioni molto accomodanti per la generazione di transizione, non siano messi troppo male con il consenso. In Danimarca hanno optato per un piano un poco più flessibile, «intelligente », e si stanno accingendo a innalzare a 67 anni l’età di pensionamento entro il 2027 per poi adeguarla regolarmente all’aspettativa di vita. In media tutte le generazioni di pensionati dovrebbero quindi godersi la pensione per un periodo di tempo uguale, ossia 14.5 anni. Trovo tuttavia molto più illuminante ciò che è stato realizzato in Svezia, dove la mannaia dell’età è stata abolita già nel 1999. Da allora si può percepire una piccola pensione al più presto a 61 anni di età (non è possibile evitare di definire una soglia inferiore). Ma la legge consente anche di continuare a lavorare praticamente senza limiti. La rendita aumenta a ogni anno di lavoro in più secondo un calcolo attuariale preciso. Ritengo altrettanto importante la possibilità di percepire una rendita parziale a partire da questa soglia di età, quindi ad esempio lavorare al 60 per cento e percepire una rendita per il 40 per cento. È molto importante per il passaggio morbido al pensionamento e solo una tale transizione risponde alle diverse situazioni di vita delle persone.

Forse in passato noi economisti, coerenti con la realtà dei fatti, abbiamo eccessivamente sottolineato che le riforme delle pensioni sono un imperativo della scarsità di risorse, che le promesse di rendite non sono semplicemente finanziabili. Ma nella fattispecie c’è qualcosa di più, si tratta dell’equità tra coloro che hanno grossomodo lo stesso reddito, ma che vogliono andare in pensione con diverso anticipo. E si tratta di riconoscere che nella politica del welfare una soluzione universale è altrettanto improponibile quanto una taglia unica nell’abbigliamento.

Notenstein: Focalizziamo per un momento l’attenzione sulla problematica del finanziamento. Il sistema svizzero prevede prestazioni in aspettativa che dovrebbero essere finanziate correttamente, ciò che oggi però non sempre accade. Da un lato si pongono i problemi demografici del primo pilastro a ripartizione: dalla sua introduzione i parametri fondamentali dell’AVS non sono mutati, sebbene il rapporto tra soggetti attivi e pensionati stia cambiando drasticamente. Nel 1948 circa sette attivi versavano contributi per un pensionato, oggi sono 3.5 e nel 2050 non saranno neppure due. Dall’altro, anche nel secondo pilastro finanziato con il sistema della capitalizzazione si annidano problemi di finanziamento, imputabili soprattutto a un’aliquota di conversione eccessivamente elevata che indica l’ammontare delle rendite annue in cui deve essere convertito il capitale di vecchiaia disponibile al momento del pensionamento. A fronte di un’aliquota di conversione del 6,8 per cento, un nuovo pensionato con un patrimonio previdenziale di un milione di franchi percepisce una rendita annua vitalizia di 68’000 franchi. Il problema? Il tasso non tiene sufficientemente conto dell’aspettativa di vita, che è cresciuta dall’introduzione della Legge federale sulla previdenza professionale per la vecchiaia, i superstiti e l’invalidità. Il denaro che i pensionati percepiscono dalla loro cassa pensione negli ultimi anni di vita non è quindi quello che hanno accantonato di persona, ma quello apportato dai membri più giovani della cassa pensione ancora inseriti nel processo lavorativo. Da varie votazioni popolari e parlamentari è emersa la presenza nel sistema previdenziale di un dilemma tra politica e matematica attuariale. Molto di quanto appare auspicabile nell’ottica politica non è finanziabile. Al tempo stesso le misure che conferirebbero una solida base finanziaria agli istituti di previdenza non sono politicamente attuabili. Come uscire da questo dilemma?

Gerhard Schwarz: Ciò che lei descrive è di fatto molto più drammatico. Da un lato la speranza di vita ci penalizza: l’aliquota di conversione del 6,8 per cento in vigore dal 2014 in modo ugualitario per uomini e donne riposa sull’aspettativa di vita antecedente al 1990, che nel frattempo è però salita di circa tre anni. Dall’altro, tuttavia, anche i mercati finanziari non contribuiscono, come illustrato dal grafico: mentre i calcoli delle rendite si fondano su un rendimento medio annuo del 4 per cento del capitale risparmiato, dal 2000 la performance si situa solo al 2,9 per cento. E per questo ridistribuiamo somme ingenti che, a seconda dell’aliquota di conversione ritenuta corretta, oscillano tra 600 milioni e 1.5 miliardi, e non dai ricchi ai bisognosi, bensì dalla popolazione attiva ai pensionati, a prescindere da come se la passano questi ultimi. Per ogni nuovo pensionato parliamo di importi fino a 50’000 franchi. Un autentico furto di rendite. Non bisogna neppure farsi illusioni: queste falle non si possono tappare né con la crescita demografica né con l’immigrazione. La difficoltà risiede nel fatto che una riforma dell’AVS è assolutamente imperativa sotto il profilo economico, ma sul piano politico le possibilità in tal senso sono ancora ridotte. Trovo particolarmente riuscito il modello svedese tratteggiato in precedenza. Ma sapendo quali difficoltà incontra la Svizzera persino per attuare riforme relativamente marginali, a breve termine questo modello appare del tutto irrealistico. Una prima via d’uscita si aprirebbe se le casse pensioni con prestazioni integrate – ovvero quelle conosciute come casse mantello, che accolgono oggi circa l’85 per cento degli assicurati e che erogano prestazioni sia obbligatorie (prestazione minima richiesta dalla LPP per salari annui fino a 84’240 franchi) che sovraobbligatorie (gli importi risparmiati oltre il regime obbligatorio) – abbassassero l’aliquota di conversione sull’intero avere di vecchiaia. È una prassi spesso già seguita, tanto che oggi in Svizzera l’aliquota di conversione effettiva si aggira in media attorno al 6,5 per cento. Inoltre va da sé che occorrono misure per evitare che in questa trasformazione la generazione di transizione venga eccessivamente penalizzata. In ultima analisi ci si dovrebbe muovere verso il decentramento delle decisioni, quindi non prescrivere alcuna aliquota di conversione minima, ma lasciar fare alle singole casse pensioni. Anche questo modello esiste già, e precisamente nel Liechtenstein, dove la legge sulla previdenza professionale è stata realizzata cinque anni dopo l’introduzione della LPP, identificando ed evitando un errore capitale della legge svizzera: nel Principato la definizione dell’aliquota di conversione è di esclusiva competenza del consiglio di fondazione del singolo istituto di previdenza, di modo che è possibile tenere in opportuna considerazione le situazioni assai diverse delle casse ascrivibili alla piramide dell’età e alle condizioni finanziarie.

Notenstein: Ridurre le aliquote di conversione sulla totalità degli averi di vecchiaia nelle casse mantello è una soluzione di ripiego nella migliore delle ipotesi, giacché un’aliquota di conversione eccessivamente elevata nella previdenza obbligatoria non significa altro che un’aliquota troppo bassa nel regime sovraobbligatorio. Ne consegue di nuovo una ridistribuzione, seppur più compatibile nella dimensione politico-sociale, dai redditi più alti a quelli più bassi, anziché dal giovane all’anziano. A questo scenario si contrappone il modello delle due casse pensioni, ossia una bipartizione della previdenza professionale in una soluzione di base nel regime obbligatorio e in una soluzione per i quadri nella parte sovraobbligatoria. Una simile soluzione è suggerita dal fatto che è esclusa una ridistribuzione sulla base di un’aliquota di conversione errata. A tale proposito la legge offre spazi di manovra che vanno sfruttati: a partire da un dato stipendio, oggi le casse pensioni possono proporre ai loro assicurati di definire personalmente entro determinati limiti la strategia d’investimento, cosicché ciascuno può scegliere la strategia che meglio risponde alle proprie condizioni di vita e preferenze personali. Chi dunque vuole invertire la rotta rispetto al forte peso delle obbligazioni nella previdenza di base può farlo con una strategia orientata ai valori reali nel regime sovraobbligatorio. Da due anni le casse pensioni hanno inoltre la possibilità di definire in modo flessibile l’età pensionabile: un pensionamento può essere rinviato fino al 70° anno di età, se il dipendente e il datore di lavoro lo desiderano. Una simile flessibilizzazione, anche se certamente utile e molto invitante per chi la può sfruttare, di fatto non risolve ancora il problema di fondo dell’intero sistema. In ultima analisi nessuna generazione deve potersi arricchire a spese dei suoi figli. Ed è appunto questo patto intergenerazionale che viene sempre più violato in Svizzera. Ciò che accade da noi, accade già da tempo nella maggior parte degli altri paesi industrializzati, dove spesse volte i sistemi pensionistici sono quasi esclusivamente a ripartizione e a seguito dello sviluppo demografico non sono più finanziabili, se non attraverso un ulteriore indebitamento su ampia scala. Se dunque non si fa più affidamento sul sistema previdenziale e non si intravedono segnali di correzione da parte del mondo politico, ognuno non dovrebbe forse agire in autonomia e prendere in mano il timone?

Gerhard Schwarz: Contare su stessi e programmare personalmente la previdenza non è fondamentalmente una cattiva strategia e corrisponde alla visione liberale dell’uomo. In questo, il terzo pilastro è senza ombra di dubbio la componente più liberale del sistema svizzero dei tre pilastri. Ancora più vicino alla concezione liberalista è naturalmente il risparmio integralmente libero, in nessun modo incentivato ( o ostacolato) fiscalmente. Un’ampia quota individuale di previdenza consente inoltre di rispecchiare molto meglio le esigenze personali. E infine la combinazione di sistema a ripartizione e sistema a capitalizzazione e di decisioni d’investimento da parte dello Stato, di casse pensioni e del singolo comporta un’eccellente diversificazione dei rischi. Per questo sarei incline a rafforzare il terzo pilastro e il risparmio privato e a ridimensionare il secondo e il primo pilastro. Prendere in mano le redini è un’idea che mi tenta e piace anche perché il patto intergenerazionale è decisamente una finzione. L’espressione è purtroppo parecchio abusata, giacché si finge che le due parti abbiano firmato un contratto. Un buon esempio del fatto che il più delle volte i concetti mutuati dalla famiglia non sono applicabili senza danni alla società. Friedrich August von Hayek, premio Nobel per l’economia nel 1974, vi ha accennato nel suo ultimo libro «Die verhängnisvolle Anmassung». Mentre all’interno della famiglia aiuto reciproco, amore, aspettative sociali e pressioni sociali fanno sì che i genitori provvedano ai loro figli e i nonni ai loro nipoti e viceversa, nell’anonimato della società di massa tutto questo si dissolve. Perché i giovani devono attingere sempre più al loro reddito per finanziare le crescenti esigenze della generazione più anziana dettate dalla maggiore longevità?

Nel vecchio patto generazionale intrafamiliare era di cruciale importanza anche l’eredità, utilizzata occasionalmente come strumento di pressione per ottenere coercitivamente un comportamento corretto e ubbidiente e il sostegno dei figli nonché dei figli dei figli. Ma il più delle volte si trattava semplicemente di ciò che la generazione più vecchia poteva dare, insieme all’educazione e alla formazione, a quella più giovane in cambio, in buona sostanza, delle cure, del sostegno e del finanziamento dell’esistenza quotidiana. A causa della speranza di vita, i discendenti ricevevano questa eredità perlopiù nella fase della vita attiva, quando potevano averne realmente bisogno. Viceversa, entro il 2020 due terzi degli eredi avranno più di 55 anni, quindi quando si stanno già avvicinando all’età di pensionamento, per cui godranno per così dire di una doppia previdenza: da un lato hanno pagato contributi LPP per una vita, che a questo punto danno i loro frutti, e dall’altro dispongono del patrimonio ereditato.

Notenstein: Ovviamente il tema dell’eredità ha un’importanza primaria per la scelta della strategia d’investimento. Nei nostri colloqui con i clienti constatiamo che gli investitori che desiderano tramandare il loro patrimonio ai propri discendenti dispongono di un orizzonte temporale molto più lungo e sono quindi in grado di esporsi a rischi più elevati con aspettative di rendimento proporzionalmente più gratificanti. Se la successione viene ostacolata, come dibattuto oggi, la generazione più anziana consumerà più rapidamente il suo patrimonio e lo investirà a scadenze decisamente più brevi. Ma torniamo all’affermazione secondo cui si può fare sempre meno affidamento sul sistema previdenziale e che sarebbe pertanto opportuno guardare maggiormente a se stessi. Questa tesi è confortata da altri motivi ancora: oggi le disposizioni d’investimento per le casse pensioni privilegiano da più parti una cospicua quota obbligazionaria. In tempi di sovrabbondanza di liquidità e di tassi zero gli strumenti a reddito fisso non sono però più al riparo dai rischi e fruttano rendimenti insufficienti. In linea generale si emanano sempre più disposizioni d’investimento che sfociano in una quota minima di titoli pubblici. Così facendo lo Stato – e gli esempi nel mondo sono numerosissimi – assicura una domanda costantemente sufficiente dei propri titoli di debito. In tempi di massiccio indebitamento pubblico il patrimonio vincolato in un sistema di capitalizzazione è vulnerabile a forme più o meno drastiche di esproprio. Su questo sfondo preoccupa anche la tendenza a privilegiare gli investimenti simmetrici agli indici, quantomeno nel comparto obbligazionario. Al riguardo, simmetria all’indice significa che le controparti più fortemente indebitate hanno la maggiore ponderazione e quindi – relativamente alle obbligazioni statali di qualità (presumibilmente) elevata – che i paesi altamente indebitati Giappone, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia rappresentano il 75 per cento dell’indice. In rapporto al grado di indebitamento e al disavanzo pubblico, paesi più sicuri come Norvegia, Corea del Sud, Svezia, Australia e Svizzera totalizzano invece solo il quattro per cento. Per contro, il rendimento reale delle obbligazioni di entrambe le categorie di paesi non differisce, per cui l’investitore non viene ripagato per il rischio a cui si espone investendo in paesi indebitati. Conoscendo il forte peso delle obbligazioni e la simmetria all’indice del patrimonio previdenziale, il singolo farebbe quindi bene a diversificare e a invertire la rotta del suo patrimonio privato. Qual è la sua opinione in merito?

Gerhard Schwarz: Se si aspetta qualche consiglio d’investimento sta chiedendo alla persona sbagliata. Ma posso portare qualche riflessione di fondo. La prima è che l’orizzonte temporale ricopre realmente un ruolo importante. Un orizzonte più lungo consente di assorbire più facilmente eventuali perdite o di attendere che gli investimenti siano di nuovo redditizi. Poiché allo stesso tempo rischio e performance sono quasi inseparabili, la capacità di rischio è un fondamento essenziale della previdenza per la vecchiaia. Per questo è consigliabile cominciare a programmarla quanto prima. Sarebbe utile e opportuno un inizio anticipato del regime obbligatorio LPP, ad esempio a 18 anni anziché solo a 25. L’orizzonte temporale si allunga ugualmente se in sede di investimento il pensiero va oltre la propria morte, giacché questo approccio consente una strategia d’investimento molto più aggressiva. Ma poiché il successo dell’investimento va a profitto anche delle generazioni future nella forma di un’eredità più consistente, si dovrebbe pensare a una ripartizione del rischio. I giovani devono dare una certa sicurezza di base agli anziani; solo a quel punto saranno disposti a seguire un profilo di rischio a lungo termine.

In secondo luogo mi sembra evidente che il corpetto che le casse pensioni sono costrette a indossare è troppo stretto e stringe nei punti sbagliati, sicché è nell’interesse primario degli assicurati adoperarsi affinché le casse pensioni ottengano uno spazio di manovra più ampio in modo da poter rispondere alla loro situazione specifica e a quella dei loro clienti. Soprattutto sarebbe importante e auspicabile che si archiviasse finalmente la fiducia nella sicurezza dei titoli pubblici e si consentisse una diversificazione più ampia alle casse. Non si dovrebbe neppure fare di tutta l’erba un fascio: se adeguatamente diversificate, le obbligazioni societarie sono molto più sicure delle obbligazioni statali. Pur se queste ultime vengono continuamente rifinanziate senza pari in un sistema piramidale, al tempo stesso manca sempre più la sostanza, la base duratura.

In terzo luogo, stanti le anomalie e gli sviluppi indesiderati nel secondo pilastro è importante che le persone risparmino nel terzo pilastro e in forme previdenziali che vanno oltre, e sarebbe auspicabile che correggessero e compensassero gli errori nel settore gestito strettamente a livello statale. Laddove il legislatore prevede nella LPP una quota irresponsabilmente elevata di titoli di Stato, nella propria sfera d’influenza l’investitore dovrebbe puntare con proporzionale vigore sulle imprese private. Laddove nell’ambito obbligatorio si privilegiano gli strumenti a bassa incidenza di capitale proprio si dovrebbe aggiungere più capitale di rischio ai risparmi disponibili. E laddove le disposizioni statali consentono, con miope provincialismo, solo una quota relativamente piccola di investimenti esteri, si dovrebbe tenere conto nel patrimonio privato della globalizzazione e del fatto che nei prossimi decenni la crescita che assicura le rendite avverrà in Asia, Africa e America piuttosto che in Svizzera. Infine sono convinto, per quanto fuori moda possa sembrare, che una proprietà abitativa ad uso proprio sia una delle strategie previdenziali più intelligenti in tempi di incertezza e aberrazioni normative. Questo investimento frutta come rendimento un reddito in natura sicuro e i proprietari – fintantoché possono abitare fino alla morte nella loro casa – non devono curarsi del valore di vendita così come del prezzo al quale potrebbero affittare il loro immobile o della domanda di come sarebbero andate le cose se avessero investito diversamente il loro denaro e pagato una pigione. L’immobile può anche esprimere una performance peggiore rispetto ad altri investimenti, ma appunto in tempi economicamente così incerti, sospesi tra paure di spinte inflazionistiche e deflazionistiche, esso rappresenta di fatto una formidabile garanzia delle condizioni di vita, e questo in prospettiva di un’esigenza primaria non solo esistenziale, bensì anche emozionale.

Notenstein: Signor Schwarz, la ringraziamo per questo interessante colloquio.