La settimana scorsa il Consiglio federale ha avviato le consultazioni relative all’introduzione di un’imposta minima di 15 per cento sui benefici delle imprese. Con questa ennesima riforma dell’imposizione delle imprese, la Svizzera vuole (o piuttosto: deve) adeguarsi alle nuove norme in materia dettate dal G20 tramite l’OCSE.
L’imposta minima colpirà in primo luogo le filiali di multinazionali straniere nel nostro paese, insediatesi in gran numero durante gli ultimi venti anni. Anche il Ticino è toccato direttamente: pensiamo solo all’industria della moda che vi risiede in parte per motivi fiscali e genera un indotto notevole.
La misura più sostanziale proposta dal Consiglio Federale è tanto semplice quanto scontata. Laddove l’imposizione di un’impresa multinazionale non raggiungesse i 15 per cento imposti dall’OCSE, sarà prelevata dalla Confederazione un’imposta integrativa, poi riversata ai Cantoni. Così si vuole evitare che siano paesi terzi ad intascare il gettito supplementare.
Secondo stime dell’Amministrazione federale delle contribuzioni (AFC), l’imposta aggiuntiva potrebbe generare fino a due miliardi e mezzo di entrate all’anno, il che rappresenta un aumento di più del dieci percento delle entrate relative all’imposta sui benefici. Questo aumento sarà inoltre concentrato su qualche migliaio di filiali di imprese multinazionali estere stabilite in Svizzera e su poche centinaia di multinazionali svizzere.
Molti esperti temono che una parte sostanziale delle filiali straniere potrebbe a medio o lungo termine lasciare la Svizzera, visto che il livello favorevole di tassazione è una delle ragioni principali per la loro presenza. E così gli esperti hanno proposto una lunga lista di misure da prendere per cercare di frenare le delocalizzazioni.
Nessuna di queste misure convince però – perché nessuna è abbastanza mirata. Ad esempio, c’è chi propone di ridurre le aliquote massime dell’imposta sul reddito delle persone. Ma ciò non avrebbe che un effetto marginale sulla decisione delle imprese di rimanere o meno. Esse, infatti, non mantengono effettivi di personale importanti nel nostro paese, limitandosi a posizioni decisionali – pagate certo molto bene, ma di poco conto se confrontate ai costi globali delle imprese.
Una misura tra le più specifiche sarebbe quella di ridurre l’imposizione dei dividendi. I benefici delle imprese vengono oggi imposti due volte, una prima volta a livello dell’impresa con l’imposta sui benefici e una seconda volta a livello degli azionisti. Perché non ridurre questa doppia imposizione, come già lo hanno fatto numerosi altri paesi? Ahimè, l’imposizione dei dividendi in Svizzera è appena stata ritoccata – ma verso l’alto. Un’inversione a U sembra improbabile.
Più importante ancora: la stragrande maggioranza degli azionisti delle imprese multinazionali con sede in Svizzera risiede all’estero e non ricaverebbe nessun vantaggio da una diminuzione dell’imposizione dei dividendi in Svizzera.
Ciononostante, il Consiglio Federale dovrebbe avere il coraggio di rimettere questo dossier sul tavolo. Certo, ciò non frenerebbe la partenza di imprese che si sono stabilite da noi principalmente per motivi fiscali. Ma a lungo termine rafforzerebbe l’attrattività imprenditoriale svizzera e la capacità di investimento delle nostre imprese. E questo sarebbe tutto quanto di guadagnato.
Questo podcast è stato pubblicato il 21.3.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.