Il Dr. Marco Salvi è Senior Fellow e responsabile «Società delle pari opportunità» presso Avenir Suisse. Egli si occupa principalmente di questioni legate al mercato del lavoro, alla politica fiscale, all’uguaglianza tra uomo e donna e di temi regionali della Svizzera latina. Ha studiato economia politica ed econometria presso l’Università di Zurigo e ha ottenuto il dottorato all’EPFL. Marco Salvi è Docente di economia.
L’intelligenza artificiale e le centraliniste delle PTT
Plusvalore, Podcast
Le previsioni quanto all’impatto che l’intelligenza artificiale avrà sull’impiego oscillano…
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Marco Salvi
L’intelligenza artificiale e le centraliniste delle PTT
Le previsioni quanto all’impatto che l’intelligenza artificiale avrà sull’impiego oscillano tra ottimismo scientistico e timori di una sostituzione repentina del lavoro umano. Come orientarsi fra posizioni tanto contraddittorie? Uno sguardo al passato, aguzzato magari da un po’ di teoria economica, può aiutare. In fondo, non è la prima volta che una tecnologia scombussola le nostre abitudini.
Per convincersene è sufficiente dare un’occhiata al sito online dedicato alla storia orale delle PTT, dove pensionati del già monopolio di stato condividono episodi salienti della loro vita professionale. Di particolare interesse – per quanto ci può insegnare sulla diffusione delle nuove tecnologie – sono i ricordi delle operatrici dei centralini telefonici, ai tempi un mestiere tipicamente femminile.
Benché la Svizzera fosse all’avanguardia nell’automatizzazione della rete telefonica, l’ultima centrale manuale, quella di Scuol nel Canton Grigioni, venne chiusa solo nel 1959. Dico ‘solo’ perché la teleselezione (il collegamento automatico da utente a utente) a quel punto era una tecnologia disponibile da più di sessanta anni. Infatti, già nel 1900, alcuni operatori telefonici statunitensi facevano a meno delle centraliniste.
La lunga carriera delle nostre operatrici non è quindi da ricondurre a motivi tecnici. Furono invece ragioni pratiche a indurre le PTT, e come essa moltissimi altri operatori telefonici per il mondo, a ritardare l’introduzione della teleselezione; ragioni legate anche alla qualità del servizio fornito dalle centraliniste. Come ricordano i pensionati delle PTT, era comune chiamare il centralino per chiedere il collegamento con una persona di cui non si disponeva il numero. La centralinista verificava la qualità della connessione. Quando la persona chiamata non rispondeva, essa poteva prendere un messaggio che provvedeva più tardi a trasmettere, offrendo così servizi simili a quelli resi oggi da Siri o da altri assistenti digitali.
Così, qualora l’intelligenza artificiale un giorno diventasse davvero intelligente, non è per niente certo che scompariranno quei mestieri che, in teoria, essa avrà reso obsoleti. Per quanto riguarda le centraliniste, fu l’aumento dei salari femminili nel secondo dopoguerra, oltre alla forte crescita della domanda, a fornire l’incentivo decisivo per l’automatizzazione della rete. Da quel momento, toccò all’utente stesso fornire lo sforzo necessario per telefonare.
Questo podcast è stato pubblicato il 10.02.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Fatta eccezione dei parti politici e della FIFA, poche istituzioni della nostra società godono di meno fiducia tra la popolazione e nei media delle grandi imprese. Lo scetticismo è massimo per le aziende quotate in borsa e per quelle attive a livello mondiale in settori ritenuti – a torto o a ragione – particolarmente «delicati», quali le materie prime, l’alimentazione o l’alta tecnologia. Tutt’altra invece la percezione delle piccole imprese: non un politico che non ne tessa regolarmente le lodi, e che non ci ricordi che il 98% delle imprese ha meno di 250 impiegati.
Tutto coretto, certamente. Ma forse è venuto il momento di spezzare una lancia anche per «big business». Prima di tutto va ricordato che le grandi imprese sono attori di prima importanza del nostro mercato del lavoro. Anche se non rappresentano che una piccola parte delle imprese, le grandi ditte occupano in Svizzera 870’000 persone, il che corrisponde al 18% degli impieghi. Negli ultimi anni, la loro crescita è stata di molto superiore alla media. Un terzo dei nuovi posti di lavoro creati dal 2011 lo è stato in ditte con più di 250 dipendenti. Giusto anche ricordare che le grandi imprese – a parità di qualifiche – versano salari in media 10% superiori a quelli guadagnati nelle piccole imprese, e che la percentuale di bassi redditi vi è ben inferiore.
Ma non è tutto. Le grandi imprese sempre più stanno diventando il motore dell’innovazione. Come lo mostra un recente studio del KOF, il centro di ricerca congiunturale del Politecnico di Zurigo, Il divario tra le PMI e le grandi imprese in questo campo si è allargato. Mentre le grandi imprese dedicano una parte sempre maggiore della spesa alla ricerca e lo sviluppo, nel caso delle PMI il KOF registra dal 2000 un continuo calo.
E potremmo continuare con il contributo al fisco delle grandi imprese o il loro ruolo nell’avanzamento di importanti conquiste sociali – quest’ultimo ovviamente in partenariato con i sindacati. Per esempio, non è un caso se siano principalmente le aziende più grosse ad offrire al momento i congedi parentali più generosi e, in genere, le migliori condizioni per la conciliazione di lavoro e famiglia.
Certo, un giudizio più completo richiederebbe un’analisi maggiormente approfondita. Ma già oggi mi sento sicuro di dire che è venuto il momento di rivalutare il contributo di «big business» al nostro benessere – e non solo a quello meramente materiale.
Questo podcast è stato pubblicato il 27.01.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
L’aumento delle disparità nella distribuzione della ricchezza preoccupa i molti. Le disuguaglianze di patrimonio sono ad esempio un tema centrale della campagna elettorale dei candidati democratici alla presidenza degli Stati Uniti; mentre a giorni l’ONG britannica Oxfam pubblicherà il suo rapporto annuale che – c’è da scommetterlo – denuncerà un’ulteriore crescita della ricchezza di chi è già ricco.
Ma anche da noi i patrimoni sono da tempo in crescita, e di riflesso cresce anche il valore globale delle eredità. Secondo un recente studio dell’università di Losanna esso raggiungerebbe oramai i 90 miliardi di franchi annui. Insomma, è venuto il momento di preoccuparsi, oltre che delle disuguaglianze di reddito, anche di quelle di patrimonio?
A mio parere la giusta risposta a questa domanda dipende dalle cause profonde del fenomeno. In Svizzera, e in genere nei paesi più avanzati economicamente, il colpevole è presto trovato: i bassi, anzi bassissimi tassi d’interesse. In effetti, come ogni studente d’economia – anche quello più distratto – ben sa: la ricchezza economica non è nient’altro che il valore presente dei flussi di reddito futuri. Così, il valore di una casa si calcola sommando tutti gli affitti futuri, rapportati ad oggi con un opportuno tasso d’interesse. A parità di affitto, più il tasso d’interesse è basso, più il valore di mercato dell’immobile sarà elevato. Il ribasso dei tassi d’interesse spiega quindi il rincaro dei prezzi immobiliari nel nostro paese, tuttora in crescita nonostante affitti stagnanti e numerosi appartamenti sfitti. E poiché la casa è bene più frequentemente donato in eredità, il ribasso dei tassi è anche la causa principale per l’aumento dei lasciti.
Tutta questa deviazione per la teoria finanziaria di primo semestre per portare a casa un punto davvero importante: gli aumenti di patrimonio attuali non sono altro che la rivalutazione di redditi futuri fondamentalmente immutati. Insomma, in parole povere siamo ben lontani da uno scenario dove pochi oligarchi si accaparrano di nuove fonti di reddito, tipo fabbriche o immobili, e da quel momento fanno la vita da nababbi. Da noi, l’aumento dei patrimoni (e delle sue disuguaglianze), non è accompagnato da una crescita delle disuguaglianze di reddito, né di consumo. Ed è quello che davvero conta.
Venerdì scorso centinaia di migliaia di persone, in maggioranza donne, hanno manifestato in tutta la Svizzera per la parità. Ma quando sarà raggiunto lo «stadio finale» dell’uguaglianza tra i sessi? Quando le donne potranno dire di avere finalmente ottenuto la tanto agognata parità? L’economista americana Barbara Bergmann, esponente di spicco dell’economia femminista, scomparsa recentemente, aveva delineato tre modi differenti – e in parte mutualmente esclusivi – di definire il «grande pareggio»; tre approcci che rimandano ad altrettante ideologie femministe distinte.
Il primo consiste nell’esprimere un maggiore apprezzamento per il lavoro domestico e familiare non retribuito. In questo scenario si mantiene l’attuale specializzazione dei sessi, cioè un maggior impegno degli uomini nel lavoro retribuito e delle donne in quello familiare. Tuttavia il riconoscimento per il lavoro non retribuito viene concretizzato tramite cospicue detrazioni fiscali per i figli, un miglioramento sostanziale dell’assicurazione maternità o il versamento di compensazioni finanziarie. Questo approccio corrisponde a una visione conservatrice della parità.
Nel secondo approccio, di stampo social-progressista, il lavoro retribuito e quello non retribuito vengono condivisi equamente tra i sessi, con una perfetta simmetria delle scelte professionali e familiari di uomini e donne. Se necessario, questa simmetria viene imposta con quote di genere nella politica e nell’economia.
Infine, Barbara Bergmann presenta una terza visione di parità, di stampo liberale. Al lavoro familiare e domestico non retribuito si sostituisce quello retribuito. Compiti quali l’accudire i figli, fare la spesa, cucinare sono in gran parte esternalizzati, ad esempio tramite la generalizzazione di strutture d’accoglienza, i servizi di tipo “food delivery” e le imprese di pulizia. Lo Stato garantisce che questo processo avvenga in modo sostenuto e che si eliminino tutti gli ostacoli all’occupazione femminile a tempo pieno.
La scelta di una visione piuttosto che di un’altra è di ordine ideologico. Ma se la storia recente può servire da guida, mi pare sia la visione liberale ad avere raccolto più consensi. Il cambiamento saliente degli ultimi decenni in fatto di parità è stato certamente la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. A questo impegno non ha però corrisposto uno sforzo simile degli uomini nella sfera domestica e familiare. La suddivisione tra i sessi dei lavori domestici e degli impegni familiari non è mutata molto. Segno che sono state più le donne a convergere verso il modello «maschile» che non il contrario. Rimane solo da vedere se così sarà anche in futuro.
Il Consiglio federale si è pronunciato mercoledì scorso a favore dell’introduzione di nuove prestazioni per i disoccupati di lunga durata ultrasessantenni. In pratica la decisione del governo apre la via a pensionamenti a partire già di 58 anni, ben 7 anni prima dell’età ordinaria prevista oggi. Secondo il Consiglio federale si tratterebbe così di ammortizzare gli effetti della libera circolazione sull’impiego dei lavoratori più anziani.
I fatti però sono contestabili. In Svizzera, il tasso di occupazione dei lavoratori più anziani è uno dei più alti al mondo. Con l’introduzione della libera circolazione nel 2002, esso non è diminuito – anzi, è in forte progressione. Difficile quindi sostenere che le difficoltà dei disoccupati più anziani siano da ricondurre direttamente all’immigrazione.
Il numero di lavoratori stranieri immigrati dal 2002 è comunque inferiore a quello delle donne svizzere che nello stesso periodo sono entrate nel mercato del lavoro. Eppure, nessuno sostiene seriamente che esse abbiano ridotto le opportunità degli uomini anziani.
Ciò non significa che gli ultrasessantenni non debbano affrontare sfide sul mercato del lavoro. La percentuale dei disoccupati di lunga durata aumenta con l’età. Tuttavia, chi è più in là con gli anni più raramente è senza lavoro. Così, secondo i dati ufficiali, il rischio dei 55-64enni di finire in assistenza dopo avere esaurito le prestazioni di disoccupazione è addirittura leggermente inferiore alla media.
Forse, prima di prendere una decisione, il nostro governo avrebbe fatto bene a dare un’occhiata all’esperienza della Germania. A partire degli anni ’70, i tedeschi facilitarono sempre più il pensionamento anticipato per disoccupati di lunga durata. Le conseguenze furono drammatiche: nello spazio di due decenni, il tasso di occupazione dei lavoratori di più di 60 anni si dimezzò. Solo quando, a partire della seconda metà degli anni novanta, l’età di prepensionamento fu gradualmente rialzata, il tasso di partecipazione degli ultrasessantenni tornò ai livelli precedenti.
Oggi, le stime dei costi per le nuove prestazioni transitorie decise dal Consiglio federale sono ancora abbastanza contenute. Tuttavia, poiché sono prevedibili cambiamenti nel comportamento dei lavoratori, c’è da attendersi che esse aumenteranno rapidamente. L’esempio tedesco lo dimostra: chi apre nuove vie verso il pensionamento, non si sorprenda poi se verranno imboccate.
Tra i molti difetti del Prodotto Interno Lordo – il famoso PIL – quale misura del benessere di un paese, ve ne è uno che suscita critiche ricorrenti e giustificate: il PIL ignora il valore della produzione domestica.
Questa categoria raggruppa tutte le attività che in teoria potremmo procurarci sul mercato ma che invece svolgiamo noi stessi. Concretamente si va dalla preparazione dei pasti, al bucato e al giardinaggio fino all’educazione dei figli o al tempo passato ad accudire parenti malati
Il lavoro domestico e famigliare viene svolto senza compenso monetario – e quindi non è conteggiato direttamente nel PIL. L’omissione è notevole: secondo dati dell’Ufficio Federale di Statistica, gli Svizzeri passano più di 3 ore al giorno nella produzione domestica. Il 61% di questo lavoro viene svolto dalle donne, il che corrisponde a tre settimane e mezzo di lavoro domestico in più all’anno che gli uomini. Non ha quindi torto chi critica il PIL come una misura che tende a sottovalutare il contributo femminile al benessere.
(Jeremy Banks, unsplash)
Eppure, il trend va chiaramente verso una ripartizione sempre più equa del lavoro domestico fra i sessi. Nello spazio di un solo ventennio, le donne svizzere hanno ridotto il tempo di lavoro casalingo di ben mezz’ora al giorno, mentre gli uomini hanno aumentato il loro apporto di oltre 20 minuti.
Oggi le donne spendono meno tempo per la pulizia della casa, la preparazione dei pasti, il giardinaggio e la cura di animali domestici. Nelle famiglie con figli piccoli, questa riduzione è stata però completamente compensata da un aumento del tempo passato a giocare con loro e ad aiutarli a fare i compiti. Ma anche i papà non sono in resto. Essi passano quasi sei ore alla settimana in queste attività, quasi il doppio di soli vent’anni fa. A sovrapporsi a questi mutamenti della ripartizione del lavoro domestico tra i sessi c’è stato il forte aumento del lavoro femminile remunerato. Cosicché, se sommiamo le ore lavorate a casa con quelle passate sul posto di lavoro, scopriamo che uomini e donne lavorano in totale oramai esattamente lo stesso numero di ore, in media 55 ore alla settimana. È il caso di dirlo: il sesso pigro non esiste.
«Quando arriveranno i robot, molti dovranno temere per il loro posto di lavoro – gli ultracinquantenni prima degli altri». Così, per dirla in poche parole, la tesi di che considera automazione e rivoluzione digitale alla pari di minacce per l’umanità. La realtà è però un’altra – anzi l’esatto contrario. I robot non cacceranno le persone dal loro posto, ma bensì contribuiranno a colmare la lacuna che l’invecchiamento della popolazione sta lasciando sul mercato del lavoro.
Infatti, al più tardi nel 2025, quando i baby-boomer avranno raggiunto l’età del pensionamento, le imprese svizzere saranno confrontate con una forte penuria di manodopera. Penuria rafforzata dal fatto che relativamente pochi giovani faranno allora il loro ingresso sul mercato del lavoro e l’immigrazione è politicamente impopolare. Ben vengano allora robot, soprattutto se intelligenti, che ci permettano di mantenere livello di produzione e di benessere.
Come recentemente illustrato dagli economisti americani Daron Acemoglu e Pasqual Restrepo, già oggi vi è una forte correlazione tra invecchiamento della popolazione e uso di robot industriali. Non è un caso del resto se Corea, Giappone o Germania, paesi la cui popolazione sta rapidamente invecchiando, hanno la più alta densità di robot industriali al mondo.
Nel frattempo, però, la partecipazione al mercato del lavoro delle persone di mezza età è in forte aumento in tutto il mondo. Mentre i media danno spesso l’impressione che cinquanta e sessantenni abbiano particolari difficoltà a rimanere inseriti nel mercato del lavoro, i dati mostrano un quadro ben diverso. In Svizzera ad esempio, il tasso di partecipazione al lavoro dei 60-64enni è passato dal 64% nel 1996 al 75% di oggi. Nel vecchio Giappone esso sfiora gli 80%. Ma anche in Germania o nei Paesi Bassi, dove fino alla metà degli anni ’90 si mandava in pensionamento anticipato due terzi dei sessantenni, il quadro è cambiato radicalmente. Del resto, uno svizzero su sette lavora oramai oltre l’età legale di pensionamento.
Tutti questi dati servono a chiarire una cosa: i timori di un’imminente “robocalisse” sul mercato del lavoro vanno fondamentalmente rivisti, non da ultimo nell’ottica di una riforma strutturale durevole dell’AVS. Non stiamo assistendo alla fine del lavoro, ma – semmai – all’inizio della grande carenza di manodopera.
Questo podcast è stato pubblicato il 11.3.2019 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
In Svizzera, negli ultimi vent’anni la partecipazione femminile al mercato del lavoro è fortemente aumentata anche tra le madri con figli piccoli. Eppure, come mostra un nuovo studio dell’Università di Neuchâtel, la conciliazione tra carriera e famiglia rimane difficile nel nostro paese. Benché solamente una madre su sette abbandoni definitivamente il mercato del lavoro dopo la maternità, per la metà delle donne la nascita del primo figlio è accompagnata da un’interruzione della carriera. Questa pausa è sorprendentemente lunga: dura in media poco meno di 5 anni per figlio. Essa esercita un forte impatto sui redditi futuri visto che gli aumenti salariali in genere dipendono dall’avanzamento della carriera.
Secondo alcuni la causa di queste lunghe interruzioni sarebbe da ricercare nei costi elevati per l’accoglienza della prima infanzia, costi che in Svizzera sono spesso a carico diretto delle famiglie. Tanto che da noi una famiglia con due bambini in età prescolastica spende il 20 percento del reddito per il collocamento dei figli, mentre la media europea è del 6 percento.
Eppure, il nuovo studio dell’Università di Neuchâtel mette in dubbio la relazione tra costi dell’asilo nido e impiego femminile. Sulla base dei dati dell’Indagine sui redditi e sulle condizioni di vita (SILC) dell’Ufficio federale di statistica, lo studio stima che gli effetti sull’impiego dell’abbassamento delle tariffe sarebbero trascurabili. A livello svizzero, un dimezzamento delle tariffe dell’asilo nido indurrebbe un aumento dell’occupazione di soli 17’000 posti. Per finanziare questa misura la Confederazione dovrebbe però versare più di un miliardo di franchi. In altre parole, lo stato dovrebbe spendere in media 60’000 franchi all’anno per indurre una donna in più a lavorare a tempo pieno – l’equivalente di quasi un salario medio.
Come mai un effetto così debole? Da una parte il risultato rispecchia un atteggiamento sorprendentemente conservatore degli Svizzeri rispetto alle forme di custodia istituzionale. (Un altro studio recente stimava che la metà delle famiglie non manderebbe i figli all’asilo nido nemmeno se fosse completamente gratuito). Dall’altra esso si spiega con il fatto che la maggior parte della cura dei bambini viene svolta in modo informale da nonni e altri parenti. Asili nido miglior mercato porterebbero in primo luogo a una sostituzione delle cure private con quelle formali, senza però indurre un aumento globale dei tempi di custodia, e quindi senza effetti sull’occupazione femminile.
C’era da aspettarselo: l’iniziativa «contro la dispersione degli insediamenti», la quale in sostanza mirava a limitare le aree costruibili a quelle già oggi definite come tali, era troppo radicale. Ieri è stata bocciata da quasi due terzi dei votanti; un rifiuto che nelle regioni periurbane – dove l’espansione degli insediamenti è maggiormente percettibile – è stato ancora più netto.
I fattori sono di natura economica
Ora, secondo i politici, sia quelli favorevoli che quelli contrari all’iniziativa, bisognerà applicare in modo diligente l’attuale legge sulla pianificazione del territorio, ancora in fase di rodaggio; una legge che si propone di «densificare» le zone già costruite. È una posizione comprensibile. I fattori che però più incidono sull’espansione degli insediamenti sono di tipo economico, e non facilmente domabili dalla politica.
Diminuzione dell’agricoltura
E di che fattori si tratta? Il primo riguarda l’inesorabile declino dell’agricoltura. Se un secolo fa non si poteva fare a meno di coltivare ogni appezzamento disponibile, la meccanizzazione, l’aumento della produttività e la scomparsa di gran parte delle aziende agricole hanno fatto crollare la domanda di terreno agricolo, liberando molte superfici per l’edificazione. Difficile immaginare un cambiamento repentino di questa dinamica secolare.
La crescita demografica
Il secondo fattore ad incidere sull’edificazione del territorio è, ovviamente, la crescita demografica. L’aumento della popolazione ha un effetto direttamente proporzionale sulla domanda residenziale e – fino ad ora – anche su quella di terreni. Lo stesso vale per la crescita economica: si stima che la domanda residenziale delle famiglie cresce di pari passo con il reddito. In Svizzera, un aumento del reddito di due percento si traduce in un aumento della superfice delle abitazioni di un metro quadro per occupante.
Ma è stato soprattutto la riduzione dei costi della mobilità, sia quella pubblica che privata, ha favorire la progressiva espansione delle aree di insediamento, promuovendo l’attrattivà relativa della periferia rispetto ai centri. Oggi, né i trasporti pubblici, fortemente sovvenzionati, né il traffico automobilistico coprono i propri costi. Se si vorrà limitare a lungo termine una dispersione eccessiva degli insediamenti, evitando però interventi drastici come quelli proposti dall’iniziativa (e senza cadere nella trappola della decrescita e dalla riduzione «volontaria» dei redditi), converrà agire in modo prioritario sulla leva della mobilità.
Questo podcast è stato pubblicato il 11.2.2019 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Se le stime dell’Ufficio Federale di Statistica sono corrette, nel 2018 il livello dei salari è cresciuto in media del 0,5 percento in Svizzera – quindi meno dell’inflazione, la quale si è attestata l’anno scorso al 0,9 percento. Lo stesso fenomeno si era già verificato nel 2017. Detto in parole povere (è il caso dirlo?), i salari in Svizzera sono diminuiti per la seconda volta consecutiva. Per l’Unione Sindacale Svizzera (USS) si tratta di un’evoluzione preoccupante. Dal canto loro, i rappresentanti padronali fanno valere l’obbligo di aumentare gli investimenti, da tempo posposti.
L’andamento della produttività
Ma come giudicare in modo oggettivo l’evoluzione degli stipendi a livello di un paese? Prima di tutto serve mantenere una visione d’insieme. Contingenze (come ad esempio il rialzo repentino dei prezzi del petrolio) possono incidere a corto termine sull’inflazione e quindi sul potere d’acquisto dei salari. Se consideriamo il periodo dal 2009 a questa parte, notiamo invece che i salari reali in Svizzera sono cresciuti in media dell’uno percento all’anno; una crescita tutto sommato robusta se si considera che questo periodo include sia la crisi finanziaria che gli anni del franco forte.
Ancora più pertinente è però il raffronto con l’andamento della produttività. A lungo termine gli aumenti salariali dovrebbero corrispondere a quelli della produttività del lavoro. Infatti, se i salari crescono più velocemente, la parte del reddito totale che va a i lavoratori cresce a scapito dei margini delle imprese, diminuendone la capacità di investimento. Ciò, prima o poi, avrà ripercussioni anche sull’impiego.
Ebbene, negli ultimi dieci anni gli aumenti salariali in Svizzera sono stati quasi sempre superiori a quelli della produttività, a tal punto che la parte dei salari nel PIL da noi è in aumento, mentre negli Stati Uniti e in molti altri paesi ricchi essa ha perso terreno rispetto ai redditi del capitale. Difficile individuare le cause esatte di questa anomalia elvetica. Il rafforzamento repentino del franco ha causato una certa perdita di competitività della nostra industria di esportazione, obbligando molte imprese a rosicare sui profitti.
Comunque sia, alla luce dell’evoluzione molto modesta della produttività, quella dei salari è stata a lungo ragguardevole. A conti fatti, una correzione era inevitabile.
Produttività del lavoro
Nel 2018 i salari salari reali sono scesi quest’anno in Svizzera nei comparti coperti da contratti collettivi di lavoro (CCL): colpa dell’inflazione, che ha divorato gli aumenti concordati dalle parti sociali. Stando ai dati diffusi stamane dall’Ufficio federale di statistica (UST), i rappresentati degli stipendiati e dei datori di lavoro si sono intesi per il 2018 su aumenti nominali dello 0,9% per i salari effettivi e dello 0,5% per quelli minimi negli ambiti dei principali CCL, ovvero quelli che interessano almeno 1500 persone. La previsione per il rincaro è però del +1%: questo significa che gli stipendi reali nei comparti convenzionali dovrebbero diminuire dello 0,1%.
Questo podcast è stato pubblicato il 28.1.2019 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
La Svizzera e l’Unione europea stanno negoziando ormai da cinque anni l’assetto futuro della loro relazione bilaterale. Il motivo di queste trattative, anche se a prima vista astratto, è di grande importanza concreta per il nostro paese. I rapporti stabiliti finora hanno il difetto di essere statici. Non esiste un meccanismo che permetta di ridurre le divergenze tra il diritto svizzero e quello europeo; e queste si accumulano con il passare del tempo. Da qualche settimana il risultato dei negoziati è noto: esso prevede un nuovo meccanismo per risolvere le differenze che potrebbero affiorare in cinque accordi, fra i quali quello chiave sulla libera circolazione delle persone.Il principale punto di contesa non riguarda però questo meccanismo. A far parlare in Svizzera sono soprattutto le modifiche previste alle misure di accompagnamento e il loro presunto impatto sul livello dei salari elvetici.
La portata reale delle modifiche
Secondo i sindacati, queste misure sarebbero sacrosante e non vanno ritoccate nemmeno nei loro complessi (e burocratici) dettagli applicativi.Ma qual è la portata reale delle modifiche discusse? Esse riguardando principalmente le norme che regolano i lavoratori distaccati in provenienza dell’UE. Nel 2017 sono stati registrati più di 300’000 soggiorni brevi, un numero a prima vista elevato, che va però subito messo nella giusta prospettiva. Nell’UE infatti, sono consentiti distacchi fino a un anno, in Svizzera solo fino a 90 giorni. Di conseguenza, la durata media di un distacco nell’UE è di circa tre volte più lunga che da noi.
Se si tiene conto della breve durata dei soggiorni in Svizzera, diminuisce fortemente l’importanza complessiva del lavoro distaccato. Nel 2017 i distaccati hanno fornito 9 milioni di ore lavorate, pari a 28’000 posti di lavoro a tempo pieno. Per intendersi: ciò equivale più o meno all’organico delle FFS – ovvero a nemmeno l’un percento degli occupati. Nessuno sostiene seriamente che i salari dei collaboratori delle FFS possano influire sulla struttura salariale a livello nazionale.
Il distacco completa l’offerta di lavoro tradizionale
Allo stesso modo, l’impatto del lavoro distaccato sui salari svizzeri – fatta forse eccezione per qualche settore in Ticino, dove questo tipo di lavoro è concentrato – non può che essere marginale. Del resto, l’evoluzione del numero di distaccati in Svizzera non lascia intravvedere una sostituzione della manodopera autoctona. Al contrario, il maggior numero di distaccati in provenienza dell’UE è sempre stato accompagnato da un aumento significativo dell’occupazione dei residenti svizzeri. A riprova che il lavoro distaccato completa l’offerta di lavoro tradizionale, ma non la sostituisce.
Questo podcast è stato pubblicato il 14.1.2019 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
La qualità della vita sarà anche soggettiva, ma la si può ciononostante esprimere in cifre, anzi addirittura in franchi. Un ragionamento – semplicistico lo ammetto – è il seguente: sottraiamo dal reddito medio delle economie domestiche in un comune l’affitto e le tasse locali; quello che rimane può essere interpretato come un’indicazione (molto approssimativa) della qualità della vita nel comune o città di residenza.
Come mai? Affitti e tasse variano in Svizzera molto da un comune all’altro. Più la località è attraente (o più le tasse sono basse) e più i prezzi dei terreni – e di conseguenza anche gli affitti – saranno elevati. Se non lo fossero, basterebbe traslocare per approfittare di un’alta qualità di vita a un prezzo stracciato. La maggiore domanda a termine farebbe però salire i prezzi, e con essi svanirebbe l’incentivo al trasloco. In altre parole, gli affitti elevati sono il prezzo d’entrata da pagare per godere dell’alta qualità della vita in quella situazione.
Per esempio, è vero che il salario medio a Zurigo è elevatissimo. La metà degli occupati vi guadagna più di 7’800 franchi al mese – 1’300 franchi in più della media svizzera. Un quarto porta a casa più di 10’000 franchi al mese. Ma gli affitti lo sono ancora di più: difficile trovare un quattro locali al di sotto dei 3’000 franchi al mese. E se togliamo dal reddito anche le imposte, salta fuori che il reddito residuo è più basso che nel Canton Uri. Ciò a riprova del fatto che lago, offerta culturale e le luci della città hanno un valore concreto per gli abitanti. Valore che si esprime appunto in un reddito residuo inferiore a quello di Altdorf.
Ovviamente, il ragionamento ha i suoi limiti. Gli alti salari di Zurigo magari sono anche un compenso per lo stress cittadino, e forse non è sufficiente considerare solo gli affitti e le tasse per misurare precisamente la qualità della vita. Ma il ragionamento di base rimane. Quindi, la prossima volta che sentirete un sindaco vantarsi del fatto che nel suo comune alla fine del mese rimangono più soldi in tasca che nel comune vicino, non esitate a fare una smorfia. È solo un segno che l’erba dei vicini è davvero più verde.
Halloween, la notte delle streghe, celebrata la settimana passata, è un’usanza radicata soprattutto nei paesi anglosassoni. Eppure, è in Svizzera che la caccia alle streghe vera e propria imperversò in modo più violento tra la fine del XVI e la metà del XVII secolo. Nell’Europa occidentale ebbero luogo 110’000 processi per stregoneria, di cui 10’000 entro i confini attuali del nostro paese. Altissimo anche il numero delle condanne a morte emesse in Svizzera: ben 6’000, due terzi delle quali contro donne. Nella penisola italiana invece, le streghe giustiziate furono in tutto e per tutto cinque. In Spagna una sola.
Differenze geografiche
Come spiegare queste notevoli differenze geografiche? Una recente analisi degli economisti americani Peter Leeson e Jacob Russ, pubblicata nel prestigioso «Economic Journal», offre una nuova spiegazione interamente razionale di questo inquietante momento della nostra storia. Una rigorosa e dettagliata analisi statistica permette ai ricercatori di escludere spiegazioni alternative, accettate fino ad ora da molti storici. Non sarebbe stato quindi il raffreddamento climatico, e la conseguente diminuzione dei raccolti, ad avere innescato una ricerca di capri espiatori, anche se, effettivamente, la credenza popolare riteneva le streghe capaci di controllare il tempo.
C’erano grandi differenze geografiche nella caccia alle streghe. (Wikimedia Commons)
Una nuova spiegazione interamente razionale
Secondo Leeson e Russ, i processi alle streghe in Europa rispecchierebbero invece direttamente la concorrenza tra Chiesa cattolica e Chiese protestanti, e la loro lotta per conquistare quote di mercato in regioni confessionalmente contestate. Facendo leva sulle credenze popolari, gli inquisitori di entrambe le confessioni avrebbero così pubblicizzato la loro capacità di proteggere i cittadini dalle manifestazioni terrene di Satana. In un modo assai simile a quello dei partiti politici odierni (i quali concentrano le loro campagne durante le elezioni per attirare gli elettori indecisi), funzionari cattolici e protestanti del tempo avrebbero focalizzato l’attività processuale laddove imperversava maggiormente il conflitto tra Riforma e Controriforma.
Così si spiega l’intensa caccia alle streghe sul territorio svizzero, diventato a partire del XVI secolo una delle principali zone di conflitto religioso. Solo la pace confessionale e la rivoluzione scientifica, erodendo la credenza popolare nella stregoneria, fecero crollare la domanda popolare per i processi alle streghe. Per molte, era già troppo tardi.
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A 100 anni dallo sciopero generale, l'arma di guerra dei sindacati è diventata sempre più obsoleta
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Marco Salvi
Gli scioperi hanno scontato il loro tempo?
Plusvalore, PodcastA 100 anni dallo sciopero generale, l'arma di guerra dei sindacati è diventata sempre più obsoleta
Il 12 novembre di 100 anni fa, 250’000 ferrovieri e operai attuavano il primo e, fino ad oggi, unico sciopero generale svizzero. Al di là della reale portata storica dell’evento, ancora dibattuta dagli specialisti, la ricorrenza si presta a una riflessione sull’importanza odierna di questo particolare strumento di lotta.
Meno giorni di sciopero
Ebbene, basta un’occhiata alle statistiche per convincersi che – con qualche eccezione notevole e molto mediatizzata – lo sciopero sia praticamente scomparso dal repertorio sindacale internazionale. Non solo in Svizzera, ma anche in Austria, Germania, nel Regno Unito, in Danimarca o in Olanda si contavano nel 2015 meno di 5 giorni scioperati all’anno per mille impiegati, il che corrisponde a una giornata di sciopero per 100’000 giornate lavorate. Persino in Francia, il campione d’Europa dello sciopero, le astensioni dal lavoro sono in forte diminuzione; le perdite economiche che esse generano sono quasi trascurabili.
Non solo è diminuita la frequenza degli scioperi, ma sono cambiate anche le «regole del gioco». In Svizzera come in molti altri paesi, l’astensione dal lavoro è diventata una forma di protesta fortemente regolamentata. Da noi ne hanno il monopolio i sindacati, obbligati a consultare le loro basi. Non è così in Italia dove si tratta ancora di un diritto individuale e sono consentiti anche scioperi politici, indetti per sostenere un partito o per protestare contro il governo.
Mezzi alternativi
La ragione per questa profonda evoluzione è presto trovata. In molti paesi i partner sociali hanno oramai da tempo elaborato e codificato alternative migliori per risolvere i conflitti: negoziazioni salariali, trattative per il rinnovo di contratti collettivi, mediazioni ecc. Tanto meglio perché in uno sciopero entrambe le parti sono perdenti: le aziende perché si interrompe la produzione, i lavoratori perché non vengono pagati. I vantaggi della pace del lavoro sono quindi ampiamente distribuiti.
Ma stiamo attenti, in questi giorni di commemorazione e di nostalgia, a non elevare questo nuovo equilibrio a livello di mito. La pace del lavoro non è né necessaria né sufficiente per garantire un mercato del lavoro prospero. Non va infatti dimenticato che essa è negoziata da organizzazioni (sindacati e rappresentanza padronale) le quali hanno dapprima a cuore gli interessi dei propri membri, non sempre quelli dell’intero paese. E così, gli accordi rischiano a volte di andare a scapito degli outsiders: ad esempio di nuove aziende, limitate nella loro libertà imprenditoriale, o di chi un lavoro ancora non ce l’ha.