La Svizzera fatica a integrare i rifugiati sul mercato del lavoro
Plusvalore
Le barriere al loro impiego rimangono elevate
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Marco Salvi
La Svizzera fatica a integrare i rifugiati sul mercato del lavoro
PlusvaloreLe barriere al loro impiego rimangono elevate
Con l’incedere della pandemia è diminuito ulteriormente il numero di richieste d’asilo in Svizzera. Mentre nel 2016 si contavano quasi 40’000 nuove richieste, l’anno scorso esse sono state poco più di 10’000. Dal punto di vista politico, il tema– sul quale negli ultimi duedecennielettrici ed elettori sono stati chiamati a votare ben una dozzina di volte – non è più prioritario.
Eppure, molte sfide rimangono. Fra le più importanti vi è quella dell’integrazione dei rifugiati sul mercato del lavoro. Se in confronto internazionale il mercato del lavoro svizzero è tradizionalmente tra i migliori per quanto riguarda il tasso di occupazione, non si può dirne altrettanto per quello dei rifugiati, una categoria a dire il vero molto eterogeneache inglobarichiedenti l’asilo, persone ammesse a titolo provvisorio e rifugiati riconosciuti.
Le cifre disponibili sono lacunose e i confronti difficili, ma si stima che il tasso di occupazione dei rifugiati raggiungerebbe il 20% tre anni dopo l’entrata nel paese, e si attesterebbe dopo dieci anni di soggiornotra il 30% e il 60%a dipendenza della categoria. Ciò contrasta sia con il tasso d’occupazione dei residenti (tuttora superiore all’80%), che con rilievi fatti in altri paesi. In Germania, ad esempio, il tasso di occupazione dopo dieci anni è quasi alla pari con la popolazione residente. In Canada, dopo solo un anno dall’entrata nel paese, 50% dei rifugiati ha un posto di lavoro.
Come mai questi risultati tutto sommato deludenti? Di recentealcuni economisti svizzeri hanno cercato di accertarne empiricamentele cause. Tra i fattori determinanti,essi rivelanoi limiti posti dalla legge alla mobilità intercantonale dei rifugiati,la durata delle procedure – fonte d’incertezze per i potenziali datori di lavoro –e i meccanismi che assegnano in modo aleatorio i rifugiati ai cantoni, meccanismi che non tengono conto di affinità linguistiche o professionali preesistenti. Le differenze tra i cantoni nelle prestazioni dell’aiuto socialee nelle misure d’integrazione avrebbero invece un impatto trascurabile sull’occupazione. Rimane invece ancora tutto da studiare l’impatto creato dall’introduzione di salari minimi obbligatori o l’ampliamento dei contratti collettivi di lavoro sulle prospettive d’impiego dei rifugiati. L’ipotesi che questi meccanismi per nulla favoriscano l’integrazione sul mercato del lavoro, creando invece ulteriori barriere all’impiegodei rifugiati, non mi pare però strampalata.
Questo podcast è stato pubblicato il 11.01.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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In linea di massima, i bilanci delle economie domestiche negli ultimi anni si sono continuamente rafforzati.
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Marco Salvi
Gli svizzeri sono davvero sovraindebitati?
PlusvaloreIn linea di massima, i bilanci delle economie domestiche negli ultimi anni si sono continuamente rafforzati.
A differenza dei nostri vicini, in Svizzera non è tanto l’indebitamento pubblico a far discutere economisti e mondo politico quanto piuttosto l’indebitamento privato, il 95 percento del quale è costituito da prestiti ipotecari. Così, nonostante il basso tasso di proprietari, ci ritroviamo tra i primi al mondo per quanto riguarda l’indebitamento immobiliare, con in media più di mezzo milione di franchi di debito per proprietario. Ma anche rispetto al PIL (la somma di tutti i redditi guadagnati in un anno), il nostro livello di indebitamento è quasi due volte superiore alla media della zona euro.
Ecco un altro motivo d’angoscia per chi già dubita della stabilità della nostra economia? Penso di no – e ciò per due buone ragioni. Il debito ipotecario va prima di tutto raffrontato non tanto al reddito quanto al valore degli immobili poiché questo rapporto misura al meglio il rischio di perdite per il settore bancario. E da noi, se le ipoteche sono da record, i prezzi degli immobili lo sono ancora di più. Tanto che il rapporto prestito/valore nell’ultimo decennio è sceso di ben dieci punti percentuali, e con esso sono diminuiti i rischi sistemici legati all’indebitamento privato.
I segnali sono ancora più chiari se consideriamo l’onere finanziario legato al pagamento degli interessi ipotecari. Mentre all’inizio degli anni Novanta le economie domestiche spendevano il 10 per cento del reddito per il pagamento degli interessi, alla fine del 2019 questo dato era solo del 2 per cento. La ragione è presto individuata: il calo dei tassi d’interesse ha fortemente ridotto il costo del debito.
Certo, la situazione è meno rosea per i nuovi proprietari. Ma questi rappresentano solo una piccola parte dell’insieme dei proprietari. In linea di massima, i bilanci delle economie domestiche negli ultimi anni si sono continuamente rafforzati.
Paradossalmente, la pandemia contribuisce a questo miglioramento poiché al momento si osserva un forte aumento dei risparmi. Ragione in più per mantenere un atteggiamento sereno rispetto all’indebitamento privato degli Svizzeri. Anche perché i problemi veri al momento non mancano.
Questo podcast è stato pubblicato il 07.12.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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Uno strumento efficace ma ad uso temporaneo
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Marco Salvi
Gli effetti a lungo termine del lavoro ridotto
PlusvaloreUno strumento efficace ma ad uso temporaneo
Mentre in primavera si temeva che la crisi del covid-19avrebbe avuto un impatto devastante sull’economia svizzera, durante l’estate sono state smentite le previsioni più cupe. Certo, con l’arrivo ad ottobre di una secondaondata, le prospettive sono ora nuovamente riviste al ribasso. Ciononostante, le tracce lasciate dalla pandemia sul mercato del lavoro si sono rivelate meno gravi di quanto si temesse inizialmente. In effetti, malgrado l’aumento del tasso di disoccupazione a livello nazionale di quasi un punto percentuale tra febbraio e maggio, non si è superato il 3,4%. Anche il calo del tasso di occupazione – di un punto nel secondo trimestre –è stato tutto sommato contenuto.
Labuona tenuta va sicuramente messa almeno in parte sul conto del lavoro ridotto. Minimizzando l’onere amministrativo,si è potuto garantire il tempestivo pagamento delle indennità. Queste procedure semplificate erano adeguate alla situazione straordinaria, ma non sono state prive di svantaggi: hanno facilitato gli abusi e sono affiorate differenze di trattamento tra le aziende e i settori di attività.
Il Consiglio federale ha deciso a luglio di prolungare la durata massima di percezione dell’indennità per lavoro ridotto da 12 a 18 mesi. Secondo me, questa ulteriore espansione del lavoro ridotto va rivista in chiave più critica. Soluzioni provvisorie non dovrebbero avere carattere permanente. Nonostante i numerosi vantaggi, il lavoro ridotto comporta il rischio di meramente ritardare la disoccupazione – non di evitarla. Gli studi sull’impatto della misura nelle recessioni passate sono inconcludenti: mentre durante la crisi finanziariadel 2008 il lavoro ridotto si è avverato uno strumento efficace, nelle recessioni precedenti lo era stato molto meno.
Il successo del lavoro ridotto dipende quindi dalle particolarità della crisi economica. Se la pandemia si prolungherà, non si potrà a termine evitare un doloroso ma necessarioaggiustamento strutturale. Al momento però, il rischio che il lavoro ridotto non faccia che sostenere artificialmente degli impieghi destinati presto o tardi a sparire, è un rischio che il nostro paese si può ancora permettere di correre.
Questo podcast è stato pubblicato il 09.11.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
In occasione delle votazioni del 27 settembre scorso, Ginevra ha approvato l’introduzione del salario minimo obbligatorio. Sono ora quattro i cantoni, tra qui il Ticino, che già impongono (o presto introdurranno) minimi salariali. Altre iniziative popolari sono in preparazione, ad esempio nelle città di Zurigo e Basilea.
Ciò ravviva un dibattito, oramai centenario, riguardo agli effetti sull’impiego del salario minimo. Per i suoi fautori non vi sarebbe nessun svantaggio da temere; al massimo qualche leggero aumento dei prezzi al consumo o una diminuzione dei profitti delle imprese.
Si tratta però di una visione troppo semplicistica. Certo, l’impatto sull’impiego dipende dal livello del limite salariale imposto. In Svizzera, il 95 percento degli occupati guadagna più di 23 franchi all’ora netti. Un salario minimo al di sotto di questo limite non influenzerebbe drasticamente sulla domanda di lavoro delle imprese e, quindi, sul numero degli impeghi.
Non si tratta però solo di una questione di numeri. Il lavoro non è un bene come un altro – e il salario non è l’unica misura per giudicare dell’attrattività o meno di un posto. Negli ultimi anni, economisti hanno messo in evidenza altri margini di adattamento delle imprese ai salari minimi, al di là quindi della soppressione o meno di posti di lavoro.
Ad esempio, l’imposizione di salari minimi vincolanti può ridurre la tolleranza dei datori di lavoro per errori o ritardi dei propri dipendenti, e tende a creare un clima di lavoro più teso. Vi è anche una riduzione della disponibilità delle aziende a concedere orari flessibili e, più in generale, un adattamento al ribasso dei compensi non-monetari.
Ma è soprattutto il bilancio sociale dei salari minimi che sembra più discutibile. Contrariamente ad altre politiche anti-povertà come l’assistenza sociale o le prestazioni complementari, il salario minimo obbligatorio non tiene conto della situazione economica di chi ne beneficia ed è quindi poco mirato. Studi statunitensi mostrano ad esempio che un numero importante di coloro che ricevono il salario minimo vive in economie domestiche benestanti; sono ad esempio studenti che lavorano part-time nella gastronomia o nel commercio al dettaglio.
Allo stesso tempo, il salario minimo crea un’ulteriore barriera all’entrata sul mercato del lavoro per le persone più vulnerabili, con poche qualifiche professionali. Esse infatti si ritrovano in concorrenza con attivi più produttivi e più qualificati; lavoratori che prima dell’introduzione dei minimi salariali, non avrebbero considerato questi posti di lavoro. Chi prima quindi avrebbe trovato un’occupazione, anche se retribuita meno del salario minimo, si ritrova allora escluso dal mercato del lavoro – a salario zero.
Questo podcast è stato pubblicato il 26.10.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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Perché non è davvero incomprensibile che alcune professioni "essenziali" non siano automaticamente tra le meglio retribuite
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Marco Salvi
Il paradosso delle professioni essenziali
PlusvalorePerché non è davvero incomprensibile che alcune professioni "essenziali" non siano automaticamente tra le meglio retribuite
Infermiere, cassiere, fattorini: durante il lockdown, queste professioni – che molti qualificavano di umili, con retribuzioni in genere modeste – si sono improvvisamente rilevate indispensabili. Per tutto il periodo del lockdown, i lavoratori «essenziali» non hanno mai smesso di lavorare, mettendo a volta in pericolo la propria salute per fornire a tutti noi servizi irrinunciabili, nonostante delle paghe spesso al disotto della media.
E subito alcuni ne hanno chiesto a gran voce la rivalutazione salariale, giudicando incomprensibile che mestieri tanto importanti per la nostra società non siano meglio retribuiti, mentre altri, per niente «essenziali» – dal calciatore al professore di economia – portano a casa buste paga ben più sostanziose; quasi a riprova del fatto che nella nostra economia di mercato qualcosa non funziona.
Ma è davvero così incomprensibile che certe professioni «essenziali» non siano automaticamente tra le meglio pagate? No, almeno non per gli economisti e le economiste in ascolto che avranno riconosciuto in questa controversia il classico paradosso dell’acqua e dei diamanti. Comunemente associato ad Adam Smith, il paradosso consiste nell’apparente contraddizione tra il valore di gran lunga inferiore dell’acqua rispetto a quello dei diamanti, nonostante il fatto che l’acqua – al contrario dei diamanti – sia indispensabile all’essere umano.
Il paradosso venne risolto definitivamente più di cent’anni fa dalla cosiddetta «rivoluzione marginalista»: l’acqua costa poco e ha poco valore perché l’offerta ne è abbondante, tanto che il valore marginale (cioè, il valore di un litro in più) è pressoché nullo. I diamanti invece costano molto perché l’offerta ne è limitata e il valore marginale elevato. Ed è quest’ultimo a determinarne il prezzo, così come è il valore marginale del lavoro eseguito a determinare il salario.
Certo, per alcune professioni, questo valore era ancora più elevato del solito durante la pandemia. Se questa dovesse continuare, ci si può aspettare a rivalutazioni salariali. Ma stiamo attenti a cosa auspichiamo: saremmo molto più poveri se tutti i beni essenziali fossero costosi, e solo quelli superflui a buon mercato.
Questo podcast è stato pubblicato il 12.10.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Uno.
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L'influenza dell'economia sulla politica attraverso il lobbismo è sopravvalutata
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Marco Salvi
Ma davvero l’economia controlla la politica?
PlusvaloreL'influenza dell'economia sulla politica attraverso il lobbismo è sopravvalutata
«Influenze nascoste, intrecci problematici, accesso privilegiato»: il sottotitolo di un recente rapporto dell’ONG Transparency International sul lobbismo in Svizzera esprime in modo sintetico il diffuso scetticismo che regna nel nostro paese nei confronti delle attività di lobbying e dei lobbisti stessi, soprattutto se al soldo dell’economia. Le aziende vi sono accusate di cercare costantemente di influire sulla volontà popolare. Secondo il rapporto, esse impegnerebbero «ingenti risorse finanziarie» per esercitare un ascendente persino sulla democrazia diretta – un luogo comune, questo, che i perdenti delle votazioni popolari di ieri non hanno mancato di reiterare.
Dati concreti sul finanziamento della politica da parte dell’economia sono però scarsi. In Svizzera, le normative sul finanziamento dei partiti sono blande rispetto a quelle vigenti in altre nazioni europee o negli Stati Uniti. I pochi dati disponibili consentono ciononostante di trarre alcune conclusioni sull’entità effettiva di queste attività. Ad esempio, secondo un sondaggio dell’associazione Actares, nel 2017 le aziende svizzere quotate in borsa avrebbero versato in totale 5,5 milioni di franchi a partiti, candidati o campagne politiche.
A prima vista, ciò può sembrare una somma ragguardevole. Tuttavia, essa impallidisce al confronto dei budget pubblicitari delle imprese. Già solo la Migros e la Coop, con budget di 250 milioni ciascuno, spendono somme ben più sostanziali per la pubblicità. Nel complesso, le spese pubblicitarie delle aziende svizzere ammontano a cinque miliardi di franchi all’anno. Anche se quindi non conosciamo l’importo esatto speso dall’economia per lobbying e campagne politiche, si può quindi affermare con buona certezza che queste rappresentano solo una frazione delle spese pubblicitarie – questo nonostante il fatto che il diritto svizzero consenta loro di sborsare somme quasi illimitate per attività di lobbying, e senza obblighi di documentazione.
Insomma, se l’economia davvero esercita un’influenza così straordinaria sulla politica federale, come mai le imprese svizzere spendono solo qualche milioncino in attività di lobbying? Beh, forse perché – contrariamente al luogo comune – l’economia il controllo sulla politica non ce l’ha. E le imprese trovano più conveniente investire risorse e tempo nel cercare di convincere consumatori e clienti piuttosto che politici.
Questo podcast è stato pubblicato il 28.09.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Uno.
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Il mercato del lavoro svizzero è uno dei più mobili in termini di salari
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Marco Salvi
La Svizzera rimane un paese di opportunità
PlusvaloreIl mercato del lavoro svizzero è uno dei più mobili in termini di salari
In Svizzera le disparità di reddito sono relativamente contenute, soprattutto se si considera la distribuzione dei salari. Ma c’è una carenza cruciale nel guardare alla distribuzione del reddito o della ricchezza in un dato momento: si tratta di una considerazione puramente statica. Essa dice poco su quello che è probabilmente il criterio di distribuzione più importante: la distribuzione delle opportunità. In altre parole: a chi da noi parte da circostanze modeste, riesce il “cambio di classe”?
Un nuovo studio di Patrick Chuard e Veronica Grassi dell’Università di San Gallo permette per la prima volta di rispondere in modo preciso a questa importante domanda. I ricercatori dell’Università di San Gallo hanno collegato dati salariali dell’AVS, informazioni sulla situazione familiare e elementi del censimento per costituire un quadro abbastanza completo della situazione socio-economica di quasi un milione di persone appartenenti alla generazione X, nate cioè tra il 1967 e il 1984, e dei loro genitori.
Il risultato in una frase: La Svizzera, davvero, è un paese di opportunità. A differenza degli Stati Uniti, un tempo famosi per il “sogno americano” e le carriere da lavapiatti, dove la mobilità sociale ristagna, vi è da noi una correlazione bassa tra il reddito dei figli e quello dei loro genitori. Ad esempio, in Svizzera, un figlio trentenne con un padre nel percento più basso della distribuzione dei salari guadagna all’anno in media solo 12’000 franchi in meno rispetto a un coetaneo con un padre “ricco” (nel 1 percento dei redditi più elevati).
Che dire però della mobilità sociale assoluta? I figli oggi trentenni guadagnano di più dei loro genitori quando avevano la loro età? Questo aspetto della mobilità sociale dipende anche dalla crescita economica: se tutti i salari ristagnano, non c’è mobilità assoluta del reddito, anche se quella relativa rimane invariata.
Ebbene, così non è. In Svizzera, circa il 54 per cento dei trentenni della generazione X guadagna più del loro padre alla loro stessa età, mentre circa l’88 per cento delle figlie guadagna più delle madri. Quest’ultima cifra riflette la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Tuttavia, solo il 18 per cento delle trentenni guadagna più del padre.
Nel complesso, lo studio dimostra che il mercato del lavoro svizzero è molto mobile. Anzi, il nostro è uno dei paesi con la mobilità salariale più elevata. La permeabilità del sistema educativo elvetico è una ragione importante per questo dinamismo. Infatti, benché la scelta del percorso educativo (università o apprendistato) sia molto influenzata dal reddito dei genitori, la posizione relativa delle giovani generazioni nella distribuzione dei salari non dipende tanto dal loro percorso educativo. Un diploma universitario rimane essenziale solo per accedere alla fascia di reddito più alta.
Questo podcast è stato pubblicato il 14.09.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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La pandemia di Covid-19 sta avendo gravi ripercussioni economiche, e nelle ultime settimane il Consiglio federale ha adottato numerose misure che cercano di mitigarne gli effetti. Ad esempio, sono state messe a disposizione delle imprese, in modo rapido e non-burocratico, ingenti liquidità mentre il ricorso alla disoccupazione parziale è stato…
La pandemia di Covid-19 sta avendo gravi ripercussioni economiche, e nelle ultime settimane il Consiglio federale ha adottato numerose misure che cercano di mitigarne gli effetti. Ad esempio, sono state messe a disposizione delle imprese, in modo rapido e non-burocratico, ingenti liquidità mentre il ricorso alla disoccupazione parziale è stato facilitato. Ciononostante, sono oggi in tanti – tra i quali parecchi economisti – a chiedere misure e pacchetti di ben più ampio respiro. Così, servirebbero pagamenti a fondo perso per salvare tutte le imprese in difficoltà, garantendo non solo i salari, ma anche il pagamento di interessi o affitti, e addirittura di un minimo di utili aziendali.
Per i fautori del «bailout» generalizzato, le misure coercitive dello stato hanno causato un danno economico alle imprese interessate; pertanto lo stato è tenuto al risarcimento di tutti i danni. Ma la logica dell’argomento è traballante. Se avessimo rinunciato a qualsiasi «lockdown», è molto probabile che la società ne avrebbe patito enormi sofferenze e l’economia ingenti danni. Eppure, secondo il criterio precedente, lo stato non sarebbe stato responsabile di nulla.
Serve quindi ricordare che tra i principi più importanti della nostra democrazia vi è quello che prevede che non si possa dedurre alcun obbligo generale di risarcimento da decisioni politiche – fatta eccezione di quelli definiti nella Costituzione federale, la quale fissa chiari limiti all’esproprio. Se, a mo’ di esempio, questo non fosse il caso, a seguito dell’adozione dell’iniziativa sulle abitazioni secondarie si sarebbe dovuto procedere all’indennizzo generale di tutti i proprietari di terreni nelle regioni turistiche.
Ma vi sono anche solidi motivi economici che ci inducono a guardare con un occhio critico i piani di salvataggio a tappetto accennati poc’anzi. Passata la pandemia, non ritorneremo all’economia di prima. Quei consumatori che negli ultimi mesi hanno imparato ad apprezzare tutti i vantaggi dell’e-commerce non si ripresenteranno nei negozi. Gli entusiasti del smart working difficilmente vorranno riadattarsi ai cubiculi degli «open space». Ebbene, questa grande trasformazione non sarà possibile senza l’impiego di risorse e di investimenti – insomma, senza la mobilizzazione di capitale. Non ha molto senso quindi impegnare una parte ingente di queste risorse scarse per aiuti finanziari statali miranti, che lo si voglia o no, a preservare un mondo oramai già obsoleto.
Questo podcast è stato pubblicato il 04.05.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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Il telelavoro era già in crescita prima della pandemia, ma nelle ultime settimane la sua diffusione è stata – per forza maggiore – fortemente accelerata. Mentre l’anno scorso solo il 5% degli occupati svolgeva più del 50% dei propri compiti lavorativi da casa con il computer, al momento almeno un…
Il telelavoro era già in crescita prima della pandemia, ma nelle ultime settimane la sua diffusione è stata – per forza maggiore – fortemente accelerata. Mentre l’anno scorso solo il 5% degli occupati svolgeva più del 50% dei propri compiti lavorativi da casa con il computer, al momento almeno un quarto degli occupati è costretto a lavorare unicamente da casa.
Ma in che misura lo «smart working» perdurerà dopo che la pandemia sarà passata? Ora che molte aziende (e i loro dipendenti) si sono adattate alle nuove condizioni, non si tornerà alla situazione precedente. Del resto, anche in tempi normali il telelavoro offre alcuni indubbi vantaggi. L’assenza di vincoli orari facilita ad esempio la conciliazione tra famiglia e lavoro.
Ovviamente, se – come ora – le scuole sono chiuse, le condizioni per il lavoro «smart» da casa non sono ideali. Ma persino nella difficile situazione attuale sono in molti ad apprezzare il tempo risparmiato evitando il quotidiano tragitto casa-lavoro.
Il telelavoro ha però anche i suoi limiti. Molte imprese non lo vedono di buon occhio, non sono tanto per la mancanza di controllo quanto per le difficoltà di coordinare il telelavoro. Nelle nostre aziende la produzione in team rimane essenziale. Il telelavoro è invece più adatto ad un tipo di produzione individuale. In molte professioni la produttività del lavoro dipende però dall’uso di macchine e impianti molto specializzati. Insomma, non si può ricreare un laboratorio o una fabbrica in ogni casa.
Secondo nuove stime di Avenir Suisse, in Svizzera un terzo circa delle professioni potrebbe in teoria essere svolta da casa. Il telelavoro è più facile nei servizi, soprattutto nelle professioni maggiormente qualificate: il 37% dei lavoratori altamente qualificati svolge una professione con possibilità di telelavoro, mentre tra i meno qualificati la percentuale è solo del 10%.
In alcuni settori come la ristorazione, il turismo, i servizi alle persone, l’industria, il telelavoro non è oggi un’opzione, e non lo sarà probabilmente mai. Ma il progresso tecnologico e l’evoluzione dell’economia, orientata maggiormente ai servizi e al «knowledge worker», rendono il telelavoro sempre più possibile.
Certo, passato il periodo di confino saremo ben contenti di ritrovare in carne e ossa i nostri colleghi di lavoro – o almeno la gran parte di loro. Sono però convinto che almeno una giornata di telelavoro alla settimana diventerà prima o poi una consuetudine di molti posti di lavoro. E tanto meglio così.
Questo podcast è stato pubblicato il 20.04.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
L’intelligenza artificiale e le centraliniste delle PTT
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Le previsioni quanto all’impatto che l’intelligenza artificiale avrà sull’impiego oscillano tra ottimismo scientistico e timori di una sostituzione repentina del lavoro umano. Come orientarsi fra posizioni tanto contraddittorie? Uno sguardo al passato, aguzzato magari da un po’ di teoria economica, può aiutare. In fondo, non è la prima volta che una tecnologia scombussola le nostre abitudini.
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Marco Salvi
L’intelligenza artificiale e le centraliniste delle PTT
Le previsioni quanto all’impatto che l’intelligenza artificiale avrà sull’impiego oscillano tra ottimismo scientistico e timori di una sostituzione repentina del lavoro umano. Come orientarsi fra posizioni tanto contraddittorie? Uno sguardo al passato, aguzzato magari da un po’ di teoria economica, può aiutare. In fondo, non è la prima volta che una tecnologia scombussola le nostre abitudini.
Per convincersene è sufficiente dare un’occhiata al sito online dedicato alla storia orale delle PTT, dove pensionati del già monopolio di stato condividono episodi salienti della loro vita professionale. Di particolare interesse – per quanto ci può insegnare sulla diffusione delle nuove tecnologie – sono i ricordi delle operatrici dei centralini telefonici, ai tempi un mestiere tipicamente femminile.
Benché la Svizzera fosse all’avanguardia nell’automatizzazione della rete telefonica, l’ultima centrale manuale, quella di Scuol nel Canton Grigioni, venne chiusa solo nel 1959. Dico ‘solo’ perché la teleselezione (il collegamento automatico da utente a utente) a quel punto era una tecnologia disponibile da più di sessanta anni. Infatti, già nel 1900, alcuni operatori telefonici statunitensi facevano a meno delle centraliniste.
La lunga carriera delle nostre operatrici non è quindi da ricondurre a motivi tecnici. Furono invece ragioni pratiche a indurre le PTT, e come essa moltissimi altri operatori telefonici per il mondo, a ritardare l’introduzione della teleselezione; ragioni legate anche alla qualità del servizio fornito dalle centraliniste. Come ricordano i pensionati delle PTT, era comune chiamare il centralino per chiedere il collegamento con una persona di cui non si disponeva il numero. La centralinista verificava la qualità della connessione. Quando la persona chiamata non rispondeva, essa poteva prendere un messaggio che provvedeva più tardi a trasmettere, offrendo così servizi simili a quelli resi oggi da Siri o da altri assistenti digitali.
Così, qualora l’intelligenza artificiale un giorno diventasse davvero intelligente, non è per niente certo che scompariranno quei mestieri che, in teoria, essa avrà reso obsoleti. Per quanto riguarda le centraliniste, fu l’aumento dei salari femminili nel secondo dopoguerra, oltre alla forte crescita della domanda, a fornire l’incentivo decisivo per l’automatizzazione della rete. Da quel momento, toccò all’utente stesso fornire lo sforzo necessario per telefonare.
Questo podcast è stato pubblicato il 10.02.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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Fatta eccezione dei parti politici e della FIFA, poche istituzioni della nostra società godono di meno fiducia tra la popolazione e nei media delle grandi imprese. Lo scetticismo è massimo per le aziende quotate in borsa e per quelle attive a livello mondiale in settori ritenuti – a torto o a ragione – particolarmente «delicati», quali le materie prime, l’alimentazione o l’alta tecnologia. Tutt’altra invece la percezione delle piccole imprese: non un politico che non ne tessa regolarmente le lodi, e che non ci ricordi che il 98% delle imprese ha meno di 250 impiegati.
Fatta eccezione dei parti politici e della FIFA, poche istituzioni della nostra società godono di meno fiducia tra la popolazione e nei media delle grandi imprese. Lo scetticismo è massimo per le aziende quotate in borsa e per quelle attive a livello mondiale in settori ritenuti – a torto o a ragione – particolarmente «delicati», quali le materie prime, l’alimentazione o l’alta tecnologia. Tutt’altra invece la percezione delle piccole imprese: non un politico che non ne tessa regolarmente le lodi, e che non ci ricordi che il 98% delle imprese ha meno di 250 impiegati.
Tutto coretto, certamente. Ma forse è venuto il momento di spezzare una lancia anche per «big business». Prima di tutto va ricordato che le grandi imprese sono attori di prima importanza del nostro mercato del lavoro. Anche se non rappresentano che una piccola parte delle imprese, le grandi ditte occupano in Svizzera 870’000 persone, il che corrisponde al 18% degli impieghi. Negli ultimi anni, la loro crescita è stata di molto superiore alla media. Un terzo dei nuovi posti di lavoro creati dal 2011 lo è stato in ditte con più di 250 dipendenti. Giusto anche ricordare che le grandi imprese – a parità di qualifiche – versano salari in media 10% superiori a quelli guadagnati nelle piccole imprese, e che la percentuale di bassi redditi vi è ben inferiore.
Ma non è tutto. Le grandi imprese sempre più stanno diventando il motore dell’innovazione. Come lo mostra un recente studio del KOF, il centro di ricerca congiunturale del Politecnico di Zurigo, Il divario tra le PMI e le grandi imprese in questo campo si è allargato. Mentre le grandi imprese dedicano una parte sempre maggiore della spesa alla ricerca e lo sviluppo, nel caso delle PMI il KOF registra dal 2000 un continuo calo.
E potremmo continuare con il contributo al fisco delle grandi imprese o il loro ruolo nell’avanzamento di importanti conquiste sociali – quest’ultimo ovviamente in partenariato con i sindacati. Per esempio, non è un caso se siano principalmente le aziende più grosse ad offrire al momento i congedi parentali più generosi e, in genere, le migliori condizioni per la conciliazione di lavoro e famiglia.
Certo, un giudizio più completo richiederebbe un’analisi maggiormente approfondita. Ma già oggi mi sento sicuro di dire che è venuto il momento di rivalutare il contributo di «big business» al nostro benessere – e non solo a quello meramente materiale.
Questo podcast è stato pubblicato il 27.01.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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L’aumento delle disparità nella distribuzione della ricchezza preoccupa i molti. Le disuguaglianze di patrimonio sono ad esempio un tema centrale della campagna elettorale dei candidati democratici alla presidenza degli Stati Uniti; mentre a giorni l’ONG britannica Oxfam pubblicherà il suo rapporto annuale che – c’è da scommetterlo – denuncerà un’ulteriore…
L’aumento delle disparità nella distribuzione della ricchezza preoccupa i molti. Le disuguaglianze di patrimonio sono ad esempio un tema centrale della campagna elettorale dei candidati democratici alla presidenza degli Stati Uniti; mentre a giorni l’ONG britannica Oxfam pubblicherà il suo rapporto annuale che – c’è da scommetterlo – denuncerà un’ulteriore crescita della ricchezza di chi è già ricco.
Ma anche da noi i patrimoni sono da tempo in crescita, e di riflesso cresce anche il valore globale delle eredità. Secondo un recente studio dell’università di Losanna esso raggiungerebbe oramai i 90 miliardi di franchi annui. Insomma, è venuto il momento di preoccuparsi, oltre che delle disuguaglianze di reddito, anche di quelle di patrimonio?
A mio parere la giusta risposta a questa domanda dipende dalle cause profonde del fenomeno. In Svizzera, e in genere nei paesi più avanzati economicamente, il colpevole è presto trovato: i bassi, anzi bassissimi tassi d’interesse. In effetti, come ogni studente d’economia – anche quello più distratto – ben sa: la ricchezza economica non è nient’altro che il valore presente dei flussi di reddito futuri. Così, il valore di una casa si calcola sommando tutti gli affitti futuri, rapportati ad oggi con un opportuno tasso d’interesse. A parità di affitto, più il tasso d’interesse è basso, più il valore di mercato dell’immobile sarà elevato. Il ribasso dei tassi d’interesse spiega quindi il rincaro dei prezzi immobiliari nel nostro paese, tuttora in crescita nonostante affitti stagnanti e numerosi appartamenti sfitti. E poiché la casa è bene più frequentemente donato in eredità, il ribasso dei tassi è anche la causa principale per l’aumento dei lasciti.
Tutta questa deviazione per la teoria finanziaria di primo semestre per portare a casa un punto davvero importante: gli aumenti di patrimonio attuali non sono altro che la rivalutazione di redditi futuri fondamentalmente immutati. Insomma, in parole povere siamo ben lontani da uno scenario dove pochi oligarchi si accaparrano di nuove fonti di reddito, tipo fabbriche o immobili, e da quel momento fanno la vita da nababbi. Da noi, l’aumento dei patrimoni (e delle sue disuguaglianze), non è accompagnato da una crescita delle disuguaglianze di reddito, né di consumo. Ed è quello che davvero conta.