Plusvalore, Podcast
Se le stime dell’Ufficio Federale di Statistica sono corrette, nel 2018 il livello dei salari è cresciuto in media del 0,5 percento in Svizzera – quindi meno dell’inflazione, la quale si è attestata l’anno scorso al 0,9 percento. Lo stesso fenomeno si era già verificato nel 2017. Detto in parole…
Se le stime dell’Ufficio Federale di Statistica sono corrette, nel 2018 il livello dei salari è cresciuto in media del 0,5 percento in Svizzera – quindi meno dell’inflazione, la quale si è attestata l’anno scorso al 0,9 percento. Lo stesso fenomeno si era già verificato nel 2017. Detto in parole povere (è il caso dirlo?), i salari in Svizzera sono diminuiti per la seconda volta consecutiva. Per l’Unione Sindacale Svizzera (USS) si tratta di un’evoluzione preoccupante. Dal canto loro, i rappresentanti padronali fanno valere l’obbligo di aumentare gli investimenti, da tempo posposti.
L’andamento della produttività
Ma come giudicare in modo oggettivo l’evoluzione degli stipendi a livello di un paese? Prima di tutto serve mantenere una visione d’insieme. Contingenze (come ad esempio il rialzo repentino dei prezzi del petrolio) possono incidere a corto termine sull’inflazione e quindi sul potere d’acquisto dei salari. Se consideriamo il periodo dal 2009 a questa parte, notiamo invece che i salari reali in Svizzera sono cresciuti in media dell’uno percento all’anno; una crescita tutto sommato robusta se si considera che questo periodo include sia la crisi finanziaria che gli anni del franco forte.
Ancora più pertinente è però il raffronto con l’andamento della produttività. A lungo termine gli aumenti salariali dovrebbero corrispondere a quelli della produttività del lavoro. Infatti, se i salari crescono più velocemente, la parte del reddito totale che va a i lavoratori cresce a scapito dei margini delle imprese, diminuendone la capacità di investimento. Ciò, prima o poi, avrà ripercussioni anche sull’impiego.
Ebbene, negli ultimi dieci anni gli aumenti salariali in Svizzera sono stati quasi sempre superiori a quelli della produttività, a tal punto che la parte dei salari nel PIL da noi è in aumento, mentre negli Stati Uniti e in molti altri paesi ricchi essa ha perso terreno rispetto ai redditi del capitale. Difficile individuare le cause esatte di questa anomalia elvetica. Il rafforzamento repentino del franco ha causato una certa perdita di competitività della nostra industria di esportazione, obbligando molte imprese a rosicare sui profitti.
Comunque sia, alla luce dell’evoluzione molto modesta della produttività, quella dei salari è stata a lungo ragguardevole. A conti fatti, una correzione era inevitabile.
Produttività del lavoro
Nel 2018 i salari salari reali sono scesi quest’anno in Svizzera nei comparti coperti da contratti collettivi di lavoro (CCL): colpa dell’inflazione, che ha divorato gli aumenti concordati dalle parti sociali. Stando ai dati diffusi stamane dall’Ufficio federale di statistica (UST), i rappresentati degli stipendiati e dei datori di lavoro si sono intesi per il 2018 su aumenti nominali dello 0,9% per i salari effettivi e dello 0,5% per quelli minimi negli ambiti dei principali CCL, ovvero quelli che interessano almeno 1500 persone. La previsione per il rincaro è però del +1%: questo significa che gli stipendi reali nei comparti convenzionali dovrebbero diminuire dello 0,1%.
Questo podcast è stato pubblicato il 28.1.2019 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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La Svizzera e l’Unione europea stanno negoziando ormai da cinque anni l’assetto futuro della loro relazione bilaterale. Il motivo di queste trattative, anche se a prima vista astratto, è di grande importanza concreta per il nostro paese. I rapporti stabiliti finora hanno il difetto di essere statici. Non esiste un…
La Svizzera e l’Unione europea stanno negoziando ormai da cinque anni l’assetto futuro della loro relazione bilaterale. Il motivo di queste trattative, anche se a prima vista astratto, è di grande importanza concreta per il nostro paese. I rapporti stabiliti finora hanno il difetto di essere statici. Non esiste un meccanismo che permetta di ridurre le divergenze tra il diritto svizzero e quello europeo; e queste si accumulano con il passare del tempo. Da qualche settimana il risultato dei negoziati è noto: esso prevede un nuovo meccanismo per risolvere le differenze che potrebbero affiorare in cinque accordi, fra i quali quello chiave sulla libera circolazione delle persone.Il principale punto di contesa non riguarda però questo meccanismo. A far parlare in Svizzera sono soprattutto le modifiche previste alle misure di accompagnamento e il loro presunto impatto sul livello dei salari elvetici.
La portata reale delle modifiche
Secondo i sindacati, queste misure sarebbero sacrosante e non vanno ritoccate nemmeno nei loro complessi (e burocratici) dettagli applicativi.Ma qual è la portata reale delle modifiche discusse? Esse riguardando principalmente le norme che regolano i lavoratori distaccati in provenienza dell’UE. Nel 2017 sono stati registrati più di 300’000 soggiorni brevi, un numero a prima vista elevato, che va però subito messo nella giusta prospettiva. Nell’UE infatti, sono consentiti distacchi fino a un anno, in Svizzera solo fino a 90 giorni. Di conseguenza, la durata media di un distacco nell’UE è di circa tre volte più lunga che da noi.
Se si tiene conto della breve durata dei soggiorni in Svizzera, diminuisce fortemente l’importanza complessiva del lavoro distaccato. Nel 2017 i distaccati hanno fornito 9 milioni di ore lavorate, pari a 28’000 posti di lavoro a tempo pieno. Per intendersi: ciò equivale più o meno all’organico delle FFS – ovvero a nemmeno l’un percento degli occupati. Nessuno sostiene seriamente che i salari dei collaboratori delle FFS possano influire sulla struttura salariale a livello nazionale.
Il distacco completa l’offerta di lavoro tradizionale
Allo stesso modo, l’impatto del lavoro distaccato sui salari svizzeri – fatta forse eccezione per qualche settore in Ticino, dove questo tipo di lavoro è concentrato – non può che essere marginale. Del resto, l’evoluzione del numero di distaccati in Svizzera non lascia intravvedere una sostituzione della manodopera autoctona. Al contrario, il maggior numero di distaccati in provenienza dell’UE è sempre stato accompagnato da un aumento significativo dell’occupazione dei residenti svizzeri. A riprova che il lavoro distaccato completa l’offerta di lavoro tradizionale, ma non la sostituisce.
Questo podcast è stato pubblicato il 14.1.2019 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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A 100 anni dallo sciopero generale, l'arma di guerra dei sindacati è diventata sempre più obsoleta
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Marco Salvi
Gli scioperi hanno scontato il loro tempo?
Plusvalore, PodcastA 100 anni dallo sciopero generale, l'arma di guerra dei sindacati è diventata sempre più obsoleta
Il 12 novembre di 100 anni fa, 250’000 ferrovieri e operai attuavano il primo e, fino ad oggi, unico sciopero generale svizzero. Al di là della reale portata storica dell’evento, ancora dibattuta dagli specialisti, la ricorrenza si presta a una riflessione sull’importanza odierna di questo particolare strumento di lotta.
Meno giorni di sciopero
Ebbene, basta un’occhiata alle statistiche per convincersi che – con qualche eccezione notevole e molto mediatizzata – lo sciopero sia praticamente scomparso dal repertorio sindacale internazionale. Non solo in Svizzera, ma anche in Austria, Germania, nel Regno Unito, in Danimarca o in Olanda si contavano nel 2015 meno di 5 giorni scioperati all’anno per mille impiegati, il che corrisponde a una giornata di sciopero per 100’000 giornate lavorate. Persino in Francia, il campione d’Europa dello sciopero, le astensioni dal lavoro sono in forte diminuzione; le perdite economiche che esse generano sono quasi trascurabili.
Non solo è diminuita la frequenza degli scioperi, ma sono cambiate anche le «regole del gioco». In Svizzera come in molti altri paesi, l’astensione dal lavoro è diventata una forma di protesta fortemente regolamentata. Da noi ne hanno il monopolio i sindacati, obbligati a consultare le loro basi. Non è così in Italia dove si tratta ancora di un diritto individuale e sono consentiti anche scioperi politici, indetti per sostenere un partito o per protestare contro il governo.
Mezzi alternativi
La ragione per questa profonda evoluzione è presto trovata. In molti paesi i partner sociali hanno oramai da tempo elaborato e codificato alternative migliori per risolvere i conflitti: negoziazioni salariali, trattative per il rinnovo di contratti collettivi, mediazioni ecc. Tanto meglio perché in uno sciopero entrambe le parti sono perdenti: le aziende perché si interrompe la produzione, i lavoratori perché non vengono pagati. I vantaggi della pace del lavoro sono quindi ampiamente distribuiti.
Ma stiamo attenti, in questi giorni di commemorazione e di nostalgia, a non elevare questo nuovo equilibrio a livello di mito. La pace del lavoro non è né necessaria né sufficiente per garantire un mercato del lavoro prospero. Non va infatti dimenticato che essa è negoziata da organizzazioni (sindacati e rappresentanza padronale) le quali hanno dapprima a cuore gli interessi dei propri membri, non sempre quelli dell’intero paese. E così, gli accordi rischiano a volte di andare a scapito degli outsiders: ad esempio di nuove aziende, limitate nella loro libertà imprenditoriale, o di chi un lavoro ancora non ce l’ha.
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In Svizzera, i costi per l’accoglienza della prima infanzia (vale a dire per bambini fino a tre anni) sono in gran parte a carico dei genitori. Nel confronto internazionale, i nostri asili nido sono cari, anzi carissimi: una famiglia con due bambini in età prescolastica spende tra il 15 e…
In Svizzera, i costi per l’accoglienza della prima infanzia (vale a dire per bambini fino a tre anni) sono in gran parte a carico dei genitori. Nel confronto internazionale, i nostri asili nido sono cari, anzi carissimi: una famiglia con due bambini in età prescolastica spende tra il 15 e il 20 percento del reddito per il collocamento dei figli. In altre paesi europei, famiglie che usufruiscono di un servizio analogo spendono al massimo 6 percento. Secondo alcuni economisti, i costi elevati degli asili nido svizzeri scoraggerebbero le giovani madri a riprendere il lavoro a tempo pieno, con conseguenze nefaste sul loro percorso professionale e sulla carriera. I costi sarebbero direttamente responsabili del fatto che in Svizzera la maggioranza delle madri con figli piccoli o lavora a tempo parziale con percentuali molto basse o non lavora del tutto.
Gli effetti sono trascurabili
Una nuova analisi dello studio di consulenza economica INFRAS svolto per conto della Fondazione Jacobs permette di verificare in modo preciso queste ipotesi. Lo studio conferma che con tariffe più abbordabili le famiglie farebbero maggior ricorso ai nidi per l’infanzia. Ad esempio, se i costi medi diminuissero da 90 a 60 franchi, una famiglia su 10 in più manderebbe il proprio bambino all’asilo nido. Gli effetti sull’impiego dell’abbassamento delle tariffe sarebbero invece trascurabili. A livello svizzero, la diminuzione delle tariffe di 30 franchi al giorno inciterebbe appena 7’500 persone supplementari (in stragrande maggioranza donne) a riprendere un lavoro a tempo pieno. Per finanziare questa misura servirebbero però 600 milioni di franchi. In altre parole, lo stato dovrebbe spendere in media ben 80’000 franchi all’anno per indurre un genitore in più a lavorare a tempo pieno.
Come mai un effetto così debole? Oggi la maggior parte della cura dei bambini viene svolta in modo informale da nonni e altri parenti. Asili nido miglior mercato porterebbero in primo luogo a una sostituzione delle cure private con quelle formali, senza però indurre un aumento globale dei tempi di custodia. Al riguardo di questi risultati deludenti, diventa difficile motivare un aumento ulteriore degli aiuti statali alle strutture di accoglienza con supposti effetti positivi sull’impiego femminile. Sappiamo ora che questo effetto è modesto. Rimane però il fatto che le giovani famiglie, appena fanno ricorso a strutture d’accoglienza, devono sopportare un carico finanziario il quale – a seconda dell’orientamento politico – gli uni giudicheranno sostanziale, gli altri eccessivo.
In un momento di transizione tecnologica come quello attuale, sono in molti a chiedersi quali saranno le forme future del lavoro. Fino ad ora, intelligenze artificiali, robot e economia digitale non hanno sconvolto l’organizzazione del lavoro. La figura tradizionale del dipendente a tempo pieno, alla ricerca di una carriera lineare, con regolari promozioni e aumenti salariali, è ancora molto diffusa.
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Eppure, per molte persone, e in modo particolare per i giovani, il modello standard sta perdendo attrattività. Cresce l’interesse per modalità più flessibili; interesse che va di pari passo con le esigenze di una migliore conciliazione della vita professionale e di quella familiare, nonché con il desiderio di far fruttare le proprie competenze in ambiti di lavoro variegati.
Per intravvedere il futuro del lavoro conviene allora guardare al presente di un settore che da sempre è stato all’avanguardia: parliamo del settore artistico. La musica ad esempio, è stata una delle prime attività economiche globalizzate. Si stima ad esempio che ben 30% dei compositori dell’epoca classica (attivi cioè dalla metà del 17° alla metà del 19° secolo) siano deceduti in un paese diverso da quello in cui erano nati, e che il 45% di essi abbia passato almeno due anni della propria vita lavorativa all’estero – una caratteristica questa oggi comune a molti percorsi professionali, non solo a quelli degli artisti.
Così possiamo speculare che il lavoro futuro in parte ricalcherà l’odierna organizzazione del settore artistico, ad esempio:
una produzione non legata a un posto fisso (fabbrica o ufficio), ma spesso in movimento
l’assenza di un singolo datore di lavoro, sostituito da più committenti
la diversificazione delle forme di reddito, dalla vendita della propria produzione, all’insegnamento, agli incontri (pagati) con mecenati
il lavoro in teams, formati per un progetto dato e per un periodo limitato.
L’aspetto più distintivo del settore artistico risiede però nell’importanza data all’essere autori. Confidiamo quindi che, in futuro, non solo gli artisti ma anche «normali dipendenti» vorranno sempre più definire autonomamente i contenuti del proprio lavoro – rinunciando magari a parte del salario per perseguire il sogno dell’«autoralità».
Marco Salvi
Mercato del lavoro in forma olimpica… ma solo per gli uomini?
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Alle Olimpiadi del lavoro, la Svizzera farebbe incetta di medaglie
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Marco Salvi
Mercato del lavoro in forma olimpica… ma solo per gli uomini?
Plusvalore, PodcastAlle Olimpiadi del lavoro, la Svizzera farebbe incetta di medaglie
Se ci fossero le Olimpiadi del mercato del lavoro, la Svizzera si classificherebbe ai primi posti del medagliere. Fra i 35 membri dell’OCSE, il club delle economie più avanzate, il nostro paese si piazza al secondo posto per il tasso di occupazione, la qualità dell’ambiente di lavoro e la bassa percentuale di «working poors». Siamo medaglia di bronzo nelle categorie salari, sicurezza del posto di lavoro e capacità a integrare lavoratori con handicap.
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Le differenze salariali tra uomini e donne sono invece una delle poche categorie dove ci ritroviamo lontani dai primi. La Svizzera registra infatti un divario di circa 15 percento, maggiore di quanto non si rincontri nei paesi scandinavi e, più sorprendentemente, anche in quelli dell’Europa Meridionale, Italia compresa. Un mercato svizzero del lavoro in forma olimpica quindi, ma solo per gli uomini?
No, perché se presa isolatamente questa differenza salariale non è un indicatore affidabile. Anzi, proprio il fatto che il nostro mercato del lavoro sia molto integrativo, con altissimi tassi d’occupazione sia maschili che femminili, spiega in gran parte questo modesto piazzamento. In effetti, il divario salariale medio tra i sessi tende ad essere minore laddove relativamente poche donne svolgono un lavoro retribuito.
In Italia, Grecia o Portogallo, l’eccesso di regolamentazione del mercato del lavoro ha portato alla creazione di barriere all’impiego. A queste barriere reagiscono più le donne che gli uomini. Una parte importante della forza lavoro femminile, che da noi è impiegata a tempo parziale, non è affatto attiva professionalmente. A rimanere sul mercato del lavoro sono quindi soprattutto le donne meglio istruite, con un posto a tempo pieno, il che spiega le minori differenze salariali tra i sessi osservate a sud.
Ciononostante la Svizzera può migliorare. Bisogna rimuovere il più possibile gli ostacoli che ancora impediscono di conciliare pienamente carriera e famiglia. Un ruolo decisivo lo giocheranno tecnologia e organizzazione del lavoro, quale le possibilità di telelavoro. Ma non vanno dimenticate diverse misure di politica sociale che faciliterebbero ulteriormente le carriere femminili: dal congedo parentale all’accoglienza della prima infanzia.
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Per misurare le differenze di benessere tra paesi spesso viene consultato il PIL per abitante (Prodotto interno lordo), una statistica che misura il valore della produzione creata durante un anno. Da qualche tempo il PIL per abitante viene calcolato regolarmente per tutti i cantoni svizzeri. Ebbene, con 80’000 Franchi all’anno, quello ticinese è fra i più alti: nel 2014 solo sei cantoni facevano meglio. Certo, gli 80’000 Franchi del Ticino sono sempre poca cosa rispetto ai 163’000 del capolista Basilea Città, ma è pur sempre molto di più del fanalino di coda Uri, a quota 51’000 Franchi.
Sarebbe tuttavia affrettato dedurre da questi dati che il Ticino è un cantone più «produttivo» o più ricco della media svizzera. Il PIL per abitante ticinese non può fungere da indicatore della produttività e del benessere dei ticinesi per il semplice motivo che il mercato del lavoro vi è costituito per più di un quarto da frontalieri non-residenti. Poiché questi trasferiscono le rispettive entrate in Italia, vi è in Ticino una differenza notevole fra il valore della produzione attestato dal PIL e il reddito dei residenti.
Meglio quindi prendere il valore aggiunto per ora effettiva di lavoro.
Con 79 Franchi all’ora il Ticino si colloca nella metà inferiore delle principali regioni. Peggio ancora: la crescita marcia sul posto: dal 2008 al 2014 la produttività è cresciuta di un esiguo 0,5 %. La Svizzera orientale, al contrario, nello stesso lasso di tempo ha registrato un incremento della produttività dieci volte superiore.
Non stupisce quindi se, a contrario del PIL, il reddito a disposizione delle famiglie ticinesi sia inferiore alle altre regioni della Svizzera. Rispetto a Zurigo, la regione più ricca, il gap raggiunge un buon 15 Percento. Ma anche questa differenza negativa va interpretata con cautela: secondo uno studio dell’USI, quasi due terzi del divario spariscono se si tiene conto delle differenze di prezzo esistenti. Ad esempio, a sud delle Alpi il livello medio degli affitti è notevolmente inferiore.
Ricapitoliamo. Rispetto alla media nazionale, in Ticino il livello della produttività è minore, cosi come lo sono i redditi – ma non lo è necessariamente quello del benessere perché i consumi costano meno. E se si tenesse conto anche del valore del bel tempo, rimarrebbero poche ragioni per invidiare il livello di vita dei cari zurighesi.
Marco Salvi
I robot sono dappertutto, fuorché nelle statistiche
Plusvalore, Podcast
L’andamento recente delle diverse misure di produttività non segnala cambiamenti repentini delle strutture produttive causate dalla digitalizzazione. Anzi, in Svizzera la produttività del lavoro ristagna. Fino ad oggi, la Rivoluzione industriale 4.0 è stata quindi meno rivoluzionaria di quelle precedenti.
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Marco Salvi
I robot sono dappertutto, fuorché nelle statistiche
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L’uscita roboante – è il caso di dirlo – di «Blade Runner 2049» nei cinema di mezzo mondo mi sembra un pretesto sufficiente per riparlare di tecnologia. Motivo centrale del film è la somiglianza tra umani e macchine, quest’ultime oramai in grado anche di procreare. Ad appena 32 anni da questa data fatidica, è forse già possibile rilevare l’impatto di robot, intelligenza artificiale o digitalizzazione che dir si voglia sulla nostra realtà economica?
Per gli economisti, la produttività è la misura statistica più adatta per rispondere a questa domanda. Essa valuta il rapporto tra il valore dei beni creati e le quantità di lavoro o capitale impiegate nella loro produzione. Un’accelerazione del progresso tecnologico alla «Blade Runner» dovrebbe necessariamente essere accompagnata da un forte aumento della produttività del lavoro, con un numero minore di impiegati umani in grado di generare il valore aggiunto attuale. In fondo, è proprio per questo che si costruiscono macchine.
Ebbene, l’andamento recente delle diverse misure di produttività non segnala cambiamenti repentini delle strutture produttive. Anzi, in Svizzera la produttività del lavoro ristagna. Secondo dati del Seco, essa è aumentata fra il 2007 e il 2015 soltanto dello 0,2 percento all’anno, ben al di sotto dei 1,5 percento dei due decenni precedenti. Questo pattern si osserva in tutte le economie più avanzate. Il rallentamento è particolarmente forte se paragonato ai tassi di crescita del XIX secolo o delle «Trente Glorieuses» (1946-1975). In termini di produttività, la Rivoluzione industriale 4.0 sarebbe quindi molto meno rivoluzionaria di quelle precedenti.
Questo fenomeno interroga gli economisti. Per gli uni, esso si spiegherebbe con i costi sempre più elevati dell’innovazione. Se negli anni Settanta erano bastati a Steve Jobs un garage e un tocco di genio per rivoluzionare il settore dei personal computers, oggi cambiamenti di simile levatura richiedono un esercito di costosi ricercatori, avvocati e specialisti del marketing. Secondo altri esperti invece, innovazioni fondamentali come Internet o i Big data non avrebbero ancora permeato in profondità tutti i settori dell’economia. Non sarebbe quindi che una questione di tempo per vederne l’effetto anche sulla produttività. Ma vi è anche chi – alla luce delle statistiche – mette in dubbio la portata effettiva di queste innovazioni tecnologiche che tanto nuove non sarebbero. Per intenderci: Se rapportate a invenzioni come il telefono o il computer, i Big data somigliano un po’ al sequel di un film di successo.
Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 6 novembre 2017 del programma «Plusvalore».
Per gentile concessione di «RSI Rete due».
Marco Salvi
Tutti capi grazie alla digitalizzazione
Plusvalore
A venticinque anni dall’arrivo di Internet, come è cambiato il mercato del lavoro in Svizzera? La sua evoluzione è una conseguenza logica del cambiamento tecnologico.
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A venticinque anni dall’arrivo di Internet, come è cambiato il mercato del lavoro in Svizzera?
Per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, i mutamenti sono stati tutto sommato minori. La temuta «precarizzazione digitale» non è avvenuta. Secondo dati dell’Ufficio federale di statistica, in Svizzera il telelavoro marcia sul posto, al pari della quota di indipendenti o di persone con contratti a durata determinata.
Si nota invece una polarizzazione del mercato del lavoro, vale a dire una forte diminuzione percentuale delle persone con qualifiche medie, ad esempio con solo un tirocinio. Oggi rappresentano il 23% degli occupati, rispetto al 38% nel 1995. Il numero di persone con qualifiche superiori (università o scuole universitarie professionali) è invece in forte aumento. Vi è stata quindi una riqualifica del ceto medio svizzero che ha permesso di far fronte con bravura ai mutamenti tecnologici.
Tra le categorie in forte crescita spicca quella delle persone con responsabilità dirigenziali. In Svizzera, un impiegato su dieci svolge funzioni di questo tipo, il triplo di 25 anni fa. Le imprese somigliano insomma sempre più a quegli eserciti messicani dove tutti erano colonnelli o generali.
A ben guardare però, questa evoluzione è una logica conseguenza del cambiamento tecnologico. Le fabbriche d’una volta, con decine di operai alle macchine e qualche caposquadra che controlla, sono in via d’estinzione. Le aziende moderne sono organizzate in piccoli teams. La gestione, l’organizzazione, la pianificazione, la comunicazione – insomma tutte quelle attività volte alla creazione di «capitale organizzativo» – sono diventate sempre più importanti, a scapito della produzione vera propria. C’è chi lo deplora, ma è un dato di fatto.
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Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 9 ottobre 2017 del programma «Plusvalore». Per gentile concessione di «RSI Rete due».
Plusvalore
In occasione del primo maggio non sono mancate le profezie sulla fine prossima del lavoro. Ma una visione pessimistica del futuro del lavoro è davvero giustificata? Ciò che si constata è che la Grande Sosituzione non c'è stata e che, nonostante l'introduzione di centinaia di migliaia di sofisticatissime macchine umane dell'ultima generazione, in tutta logica non ci sarà.
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In occasione del primo maggio non sono mancate le profezie sulla fine prossima del lavoro. Secondo alcuni oratori – e persino secondo qualche cronista di Plusvalore – presto non resterà più nulla da celebrare poiché robot e intelligenza artificiale avranno fatto la festa al lavoro umano. Nel migliore dei casi questa Grande Sostituzione manderà molti di noi in pensione anticipata, liberandoci dall’obbligo di guadagnare il pane con il sudore della fronte. Alla peggio, toccherà ritirarci ai margini del mondo, appena tollerati dalle intelligenze digitali, un po’ come quelle tribù di cacciatori-raccoglitori che oggi ancora sussistono ai confini della nostra civiltà. Così, sostengono alcuni, “sarebbe venuto il momento di ripensare l’intero sistema economico”.
Davvero? Si giustifica una visione talmente pessimistica del futuro del lavoro? Scendiamo un attimo dalle pedane imbandierate per dare un’occhiata alle statistiche. Nel 2016 un’impresa svizzera su cinque faticava a trovare personale qualificato, mentre attualmente il tasso di disoccupazione non raggiunge il 4%. Più del 96% degli svizzeri e delle svizzere che desiderano lavorare, può farlo. Ma c’è di più: chi si preoccupa di venire rimpiazzato presto o tardi dai robot, a maggior ragione dovrebbe temere coloro che già oggi sono perfettamente in grado di sostituirci: ovvero, altri umani.
Vent’anni fa vi erano in Svizzera quattro milioni di attivi. Nel frattempo più di un milione di persone hanno fatto il loro ingresso nel mercato del lavoro. Tra questi troviamo giovani, stranieri e molte donne. Ma non per questo chi era attivo vent’anni fa ha perso il posto, travolto da un’ondata di lavoro femminile. Anzi, chi era attivo nel 1997 (e non è ancora andato in pensione) molto probabilmente ha beneficiato di discreti aumenti salariali, a ulteriore riprova del fatto che il lavoro non è diventato più scarso.
Certo, questa evoluzione positiva non ha nulla di scontato. Servono continui investimenti nella formazione e capacità di adattamento. Non ha senso però presupporre una quantità fissa, e quindi esauribile, di compiti da svolgere. È invece giocoforza constatare che la Grande Sostituzione non c’è stata e che, in tutta logica, non ci sarà – nonostante l’introduzione di centinaia di migliaia di sofisticatissime macchine umane dell’ultima generazione.
Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 8 maggio 2017 del programma «Plusvalore». Per gentile concessione di «RSI Rete due».
Marco Salvi
Il valore di un orario di lavoro flessibile
Plusvalore
Uber è una delle ditte più discusse, ammirate e allo stesso tempo odiate del pianeta. Fornisce un servizio taxi tramite un'app che mette in collegamento diretto passeggeri e autisti, questi ultimi spesso non professionisti. Presente oramai a livello mondiale, opera anche in quattro città svizzere. Qui come altrove, Uber viene contestata per l’impiego di lavoro flessibile. Un autista può decidere infatti in ogni momento se accettare o meno la richiesta di un cliente. Inoltre, la remunerazione di una corsa può variare a dipendenza della domanda.
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Uber è una delle ditte più discusse, ammirate e allo stesso tempo odiate del pianeta. Fornisce un servizio taxi tramite un’app che mette in collegamento diretto passeggeri e autisti, questi ultimi spesso non professionisti. Presente oramai a livello mondiale, opera anche in quattro città svizzere. Qui come altrove, Uber viene contestata per l’impiego di lavoro flessibile. Un autista può decidere infatti in ogni momento se accettare o meno la richiesta di un cliente. Inoltre, la remunerazione di una corsa può variare a dipendenza della domanda.
Questa flessibilità preoccupa i sindacati che la considerano sintomo di nuova forma di precariato. Ma come la valutano gli autisti stessi? A ben guardare, la possibilità di scegliere i propri orari sembrerebbe andare a tutto vantaggio degli impiegati piuttosto che dei datori di lavoro. Le aziende preferiscono di regola presenze fisse, sia perché possono così meglio monitorare il lavoro dei propri dipendenti, sia perché spesso i clienti vanno serviti a orari determinati.
In un nuovo studio, quattro economisti californiani analizzano il comportamento in tempo reale di ben un milione di autisti Uber negli Stati Uniti. La versatilità della piattaforma tecnologica di Uber permette ai ricercatori di stimare il cosiddetto «salario di riserva», cioè il salario minimo necessario a indurre l’autista a uscire dal garage.
La ricerca mostra che gli autisti Uber preferiscono lavorare a tempo parziale per poche ore alla settimana, in prevalenza di sera o il sabato pomeriggio. La possibilità di fornire prestazioni in modo flessibile riveste per loro un notevole valore economico. I ricercatori stimano che se gli autisti Uber dovessero fornire le stesse prestazioni ad orari predeterminati, essi richiederebbero un indennizzo supplementare pari in media al 40% del reddito attuale. Senza la possibilità di decidere in maniera autonoma quando e quanto guidare, due terzi di loro preferirebbero rimanere a casa, rinunciando a questa fonte ausiliare di reddito.
Gli economisti americani documentano così il valore per i dipendenti di un orario di lavoro adattabile ai propri bisogni, con possibilità di reagire in modo immediato a imprevisti. Certo, Uber e le altre piattaforme della sharing economy non offrono prospettive di carriera solide a lungo termine. Ciononostante esse potrebbero rappresentare un importante complemento di reddito, specie per i giovani e le persone meno abbienti. A condizione però di preservarne la flessibilità.
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Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 10 aprile 2017 del programma «Plusvalore».
Per gentile concessione di «RSI Rete due».