Plusvalore
Meglio sfruttare le opportunità che offre il lavoro su piattaforma invece di combattere ad oltranza il cambiamento
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Marco Salvi
Non freniamo il lavoro flessibile
PlusvaloreMeglio sfruttare le opportunità che offre il lavoro su piattaforma invece di combattere ad oltranza il cambiamento
In Svizzera, i tassisti che utilizzano la piattaforma Uber saranno considerati come dipendenti e non come lavoratori autonomi. Infatti, la settimana scorsa Il Tribunale federale ha confermato una precedente decisione in tal senso del Tribunale cantonale di Ginevra. Sindacati e governo ginevrino si sono dichiarati molto soddisfatti. Che a centinaia di lavoratori sia stato impedito, almeno temporaneamente, di svolgere il proprio lavoro sembra essere di minore importanza. A seguito della decisione, Uber assumerà i propri autisti a Ginevra indirettamente attraverso aziende di trasporto.
Problema risolto quindi? Solo superficialmente. La questione dell’indipendenza degli autisti Uber è stata trattata fino ad ora esclusivamente dal lato legale. Tuttavia, con la trasformazione del mondo del lavoro tramite il cambiamento digitale si fa sempre più pressante anche un’azione politica. È probabile che in futuro le piattaforme digitali sfidino ulteriormente i fornitori tradizionali di servizi e creino nuovi posti di lavoro a metà strada tra il lavoro autonomo e quello dipendente. Il diritto del lavoro e della previdenza sociale non sono al passo di questa evoluzione.
Classificare dogmaticamente ogni lavoro su piattaforma come precario è troppo riduttivo. Queste nuove forme di lavoro offrono notevoli possibilità di (re)integrazione a chi è più svantaggiato sul mercato del lavoro tradizionale, ad esempio perché non dispone di sufficienti competenze linguistiche, o a chi è alla ricerca di maggiore flessibilità. A questo proposito, è ironico che siano proprio gli ambienti che più hanno sposato la causa di una migliore conciliazione tra lavoro e vita familiare a gettarsi anima e corpo contro le nuove forme di lavoro flessibile.
Un’ulteriore prova dei benefici della flessibilità oraria è fornita da dati raccolti a Ginevra stessa, dove Uber Eats – il servizio delivery di Uber – già dal 2020 ha assunto tramite una società terza i propri corrieri. Da allora i corrieri godono di una sicurezza sociale più ampia, ma lavorano con turni meno flessibili. Ebbene, ciò sembra aver portato un numero considerevole di loro a rinunciare a lavorare.
La rigida dicotomia tra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti nel diritto del lavoro sta diventando sempre più anacronistica. Forse è venuto il momento di considerare una terza via – chiamiamola quella del «lavoratore autonomo dipendente». Questo status combinerebbe una protezione previdenziale più generosa di quella che conoscono oggi gli indipendenti, ma con ampie libertà contrattuali, soprattutto in materia di flessibilità dell’impiego. Insomma, la Svizzera farebbe bene a ritrovare la volontà di riforme e a considerare finalmente i cambiamenti sociali non come un rischio, ma come un’opportunità.
Questo podcast è stato pubblicato il 13.06.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
La disparità dei redditi in Svizzera è inferiore alla media europea. Negli ultimi 25 anni non è cresciuta.
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Marco Salvi
Ricchi ed eguali
PlusvaloreLa disparità dei redditi in Svizzera è inferiore alla media europea. Negli ultimi 25 anni non è cresciuta.
È un luogo comune: le buone notizie faticano a raggiungere le prime pagine dei giornali. C’era da aspettarsi quindi che il nuovo rapporto dell’Ufficio federale di statistica (UFS) sull’evoluzione delle disuguaglianze di reddito in Svizzera non venisse particolarmente gettonato dai media. Sì, perché questa evoluzione – nella sua mancata spettacolarità – è assai positiva.
La ricchezza della Svizzera non è soltanto proverbiale: a livello europeo, solo in Norvegia e Lussemburgo si registra un reddito mediano più elevato. In termini di potere d’acquisto, il reddito mediano svizzero supera del 20% quello tedesco, e ciò nonostante l’alto livello dei prezzi nel nostro paese. (Da notare che al contrario del reddito medio, influenzato da pochi redditi molto elevati, quello mediano meglio rappresenta la situazione nel mezzo della distribuzione dei redditi).
E che ne è, appunto, delle disuguaglianze? Ebbene, il rapporto mostra come in Svizzera non siano solo le elite a godere di un elevato tenore di vita ma bensì ampi strati della popolazione. Le disuguaglianze di reddito vi si attestano al disotto della media europea, anche se si trovano paesi «benestanti», quali i paesi nordici o l’Austria, con distribuzioni ancora più egualitarie.
Ma il fatto forse più sorprendente riguarda l’evoluzione delle disparità – o, meglio, la loro mancata evoluzione. Stando alle stime dell’UFS, non si sono praticamente registrati cambiamenti al riguardo da 25 anni a questa parte, nonostante i mutamenti dell’economia e le varie turbolenze che ha dovuto affrontare.
Quali le ragioni per questa stabilità esemplare? La prima, debitamente rilevata dal rapporto, riguarda il sistema di redistribuzione. Imposte e prestazioni sociali hanno premesso di compensare un leggero allargamento della disparità dei redditi primari (i redditi lordi, ante imposte). Altrettanto importante è stata però la relativa stabilità dei redditi primari stessi. Soprattutto i redditi da lavoro rimangono da noi tra i più egualitari al mondo.
Ciò conferma l’importanza fondamentale del mercato del lavoro per l’evoluzione delle disuguaglianze. È la mancanza di lavoro a coincidere spesso con la povertà. Un mercato del lavoro integrativo è invece garante di parità. Così, l’alto tasso d’occupazione in Svizzera contribuisce a mantenere le differenze di reddito a un livello accettabile socialmente, anche se, ovviamente, non le elimina del tutto.
Questo podcast è stato pubblicato il 30.05.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
dal 02.05.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due
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Marco Salvi
Non strapazziamo il partenariato sociale
Plusvaloredal 02.05.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due
Come vuole la tradizione, anche questo primo maggio è stato un momento di discorsi, manifestazioni più o meno pacifiche e l’occasione per riflettere sulle condizioni del partenariato sociale. Quest’ultimo è certamente un elemento importante del nostro benessere. Caratteristica saliente del modello elvetico di partenariato sono le negoziazioni bilaterali: le condizioni di lavoro di un settore vengono discusse direttamente tra lavoratori e datori di lavoro, spesso a livello regionale e senza l’intervento dello stato. Questo modello quasi secolare ha contribuito a mantenere la stabilità delle relazioni di lavoro.
Le sfide, però, non mancano. Anche il modello svizzero deve adeguarsi agli importanti cambiamenti strutturali che si osservano sul mercato del lavoro. Mentre nel 1960 il 29% della forza lavoro era attiva in un sindacato, nel 2020 questa proporzione era solo del 13%, una diminuzione principalmente dovuta al declino relativo dell’industria e alla parallela terziarizzazione dell’economia.
Ciononostante, i sindacati svizzeri sono riusciti a mantenere – se non addirittura rafforzare – il loro influsso sulla politica del lavoro. Ciò è dovuto principalmente all’importanza crescente dei contratti collettivi di lavoro (CCL), e soprattutto del ricorso sempre più frequente all’obbligatorietà generale. Questo strumento permette di estendere il campo di applicazione di un CCL a tutti i datori di lavoro di un settore in un cantone, obbligando tutte le ditte del ramo a rispettarne le disposizioni centrali, ad esempio i minimi salariali.
Così il numero di lavoratori sottoposti a un CCL è aumentato di quasi 850 000 unità tra il 1999 e il 2018, di cui circa 800 000 sono da mettere sul conto dell’obbligatorietà generale. Il fenomeno non si limita alle regioni di confine come il Ticino, con una parte importante di lavoratori frontalieri. Solo nel cantone di Zurigo, sono più di 40 i CCL in vigore dichiarati di portata generale.
Per i sindacati si tratta di evitare così il famigerato «dumping» salariale. Ma vi è un rovescio alla medaglia. Questo strumento, se abusato, può diminuire fortemente la concorrenza tra imprese, impedendo per esempio a nuove ditte di entrare sul mercato. Così facendo, si favoriscono le imprese più grandi, già stabilite, e generalmente meno innovative – il che va a tutto scapito di consumatori (che devono sopportare prezzi più elevati) e della concorrenzialità internazionale della nostra economia.
I sindacati svizzeri mantengono imperterriti l’obiettivo di ampliare la copertura dei CCL, e vogliono ridurre ulteriormente gli ostacoli alla dichiarazione di applicabilità generale. In ciò trovano spesso porte aperte negli uffici cantonali del lavoro e negli esecutivi cantonali. Certo, il modello di partenariato sociale elvetico rimane superiore ai diktat statali ed è preferibile a salari minimi nazionali o cantonali. Tuttavia, esso non va nemmeno strapazzato.
Questo podcast è stato pubblicato il 02.05.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
I filosofi che vorrebbero insegnarci la «buona vita» spesso consigliano di lavorare meno. Ridurre l’impegno consacrato al lavoro in modo da disporre di una maggiore quantità di tempo libero da dedicare alla famiglia, agli amici e alle proprie passioni – questo in sostanza il loro messaggio.
Se guardiamo l’evoluzione del tempo di lavoro, si potrebbe pensare in un primo momento che gli svizzeri abbiano seguito questo consiglio per benino. Nelle fabbriche del XIX secolo, le giornate di 10 ore e le settimane lavorative di 6 giorni erano la regola, per un totale di quasi 3000 ore all’anno. Oggi, il tempo medio di lavoro annuale è di 1400 ore, meno della metà.
Questa media nasconde però grandi differenze tra gruppi sociali e età. Solo una minoranza si è effettivamente liberata dal fardello del lavoro retribuito: sono i pensionati. Intorno al 1900, lavorare in età avanzata era di norma: più della metà degli over 65 era occupato. Oggi, solo il 13% lavora, per lo più con un grado di occupazione molto basso.
Per il resto della popolazione invece, la diminuzione dell’orario di lavoro è stata modesta. Per i lavoratori a tempo pieno, la settimana lavorativa effettiva si aggira da anni intorno alle 41 ore.
Nel 1930 l’economista John Maynard Keynes scriveva che nell’arco di cento anni, la settimana lavorativa si sarebbe ridotta fino a un massimo di 15 ore. Grazie alla crescita economica e al progresso tecnologico le persone sarebbero state in grado di soddisfare rapidamente i loro bisogni di consumo. Liberate dai vincoli economici, avrebbero avuto abbastanza tempo da dedicare all’arte e alla lettura dei filosofi. Questa previsione non si avverata. Nonostante l’aumento dei redditi e il benessere, l’offerta di lavoro (appunto, con l’eccezione dei pensionati) è diminuita molto meno di quanto Keynes avesse immaginato.
Lo Stato dovrebbe fare qualcosa al riguardo? Alcuni ne sono convinti e vorrebbero imporre la settimana di quattro giorni a tutti. Ma con quale giustificazione? Con il nostro comportamento mostriamo di valorizzare il lavoro (e i consumi che il lavoro ci permette di finanziare) più del
tempo libero supplementare.
Paradossalmente, sono proprio i redditi superiori – che più facilmente potrebbero ridurre l’orario di lavoro – a lavorare di più. Secondo dati dell’Ufficio federale di Statistica, il 10% dei dipendenti con i salari orari più elevati lavora circa 8 ore in più a settimana rispetto al 10% con i salari più bassi. Supponendo che la produttività e i salari continuino a crescere in futuro, questo modello potrebbe estendersi al ceto medio.
Tuttavia, lo Stato potrebbe assicurare che il lavoro venga meglio distribuito lungo il ciclo di vita, piuttosto che concentrarlo nella mezza età. L’aumento dell’età di pensionamento sarebbe un passo in questa direzione. Bisognerebbe anche rivedere il nostro sistema pensionistico in modo che i contributi sociali oltre l’età di pensionamento permettano di migliorare le rendite.
Forse dovremmo davvero fare quello che suggeriscono i filosofi – ma chiedere agli economisti come raggiungere al meglio questo obiettivo.
Questo podcast è stato pubblicato il 19.4.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Recentemente, durante un talk show televisivo, Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha usato parole insolitamente dure contro un gruppo di economisti tedeschi. La loro colpa? Avere usato modelli economici per stimare l’impatto per l’economia tedesca di un embargo sul gas russo.
Lo scontento di Scholz non era indirizzato direttamente alle conclusioni dello studio (che stima il costo dell’embargo a 3% del PIL, una perdita considerevole ma non catastrofica), ma bensì al metodo. Per Scholz «è irresponsabile impiegare modelli matematici che non hanno mai funzionato veramente» per affrontare problemi tanto fondamentali per il futuro di un paese. Per il cancelliere tedesco i modelli degli economisti sono inutili perché troppo astratti: «Calcolare è una cosa, un’altra è sapere dove passano i gasdotti, dove sono i terminals e come funziona veramente l’industria del gas», ha aggiunto.
I rimproveri del cancelliere non sono stati accolti bene dagli economisti. Secondo loro illustrano due pregiudizi tanto errati quanto ricorrenti nei confronti delle scienze economiche, e della scienza in generale.
Il primo riguarda la formalizzazione matematica. Qui Scholz prende spunti da coloro che trovano l’economia praticata oggi nella stragrande maggioranza delle facoltà di scienze economiche troppo teorica e astratta. Ma la critica è infondata. Al contrario: la moderna scienza economica è in grado di rappresentare molto meglio relazioni complesse. Per esempio, non presuppone che i mercati siano perfetti o che le persone agiscano sempre razionalmente.
Il secondo punto riguarda il ruolo della scienza nelle decisioni politiche – che si tratti della pandemia, del cambiamento climatico o, appunto, di previsioni economiche. Certo, le analisi non sono sempre totalmente prive di giudizi di valore. Ma come negli affari, una sana concorrenza rimane il migliore garante di qualità: ad altri ricercatori il compito di evidenziare e correggere eventuali parzialità ideologiche.
Le previsioni saranno sempre caratterizzate da incertezze intrinseche – in parte perché la risposta politica alle previsioni cambia le premesse stesse sulle quali queste previsioni si basavano. Tocca alle donne e agli uomini politici valutare queste incertezze e decidere. La responsabilità ultima non spetta ai ricercatori, anche se durante la pandemia alcuni hanno cercato di convincerci del contrario.
La domanda fondamentale da porsi è invece questa: i modelli degli economisti permettono o meno di migliorare le decisioni dei politici? La risposta è quasi sempre positiva. Ignorare consapevolmente la conoscenza aggiuntiva generata dai modelli – come sembra volerlo fare Scholz – è un segno che i risultati dei modelli non si accordano con la propria visione del mondo.
Questo podcast è stato pubblicato il 4.4.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Non vi sono contromisure mirate alle riforme imposte alla Svizzera in materia di tassazione delle imprese. Ciò non ci condanna però alla passività
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Marco Salvi
Imposta minima OCSE: un rospo da ingoiare
PlusvaloreNon vi sono contromisure mirate alle riforme imposte alla Svizzera in materia di tassazione delle imprese. Ciò non ci condanna però alla passività
La settimana scorsa il Consiglio federale ha avviato le consultazioni relative all’introduzione di un’imposta minima di 15 per cento sui benefici delle imprese. Con questa ennesima riforma dell’imposizione delle imprese, la Svizzera vuole (o piuttosto: deve) adeguarsi alle nuove norme in materia dettate dal G20 tramite l’OCSE.
L’imposta minima colpirà in primo luogo le filiali di multinazionali straniere nel nostro paese, insediatesi in gran numero durante gli ultimi venti anni. Anche il Ticino è toccato direttamente: pensiamo solo all’industria della moda che vi risiede in parte per motivi fiscali e genera un indotto notevole.
La misura più sostanziale proposta dal Consiglio Federale è tanto semplice quanto scontata. Laddove l’imposizione di un’impresa multinazionale non raggiungesse i 15 per cento imposti dall’OCSE, sarà prelevata dalla Confederazione un’imposta integrativa, poi riversata ai Cantoni. Così si vuole evitare che siano paesi terzi ad intascare il gettito supplementare.
Secondo stime dell’Amministrazione federale delle contribuzioni (AFC), l’imposta aggiuntiva potrebbe generare fino a due miliardi e mezzo di entrate all’anno, il che rappresenta un aumento di più del dieci percento delle entrate relative all’imposta sui benefici. Questo aumento sarà inoltre concentrato su qualche migliaio di filiali di imprese multinazionali estere stabilite in Svizzera e su poche centinaia di multinazionali svizzere.
Molti esperti temono che una parte sostanziale delle filiali straniere potrebbe a medio o lungo termine lasciare la Svizzera, visto che il livello favorevole di tassazione è una delle ragioni principali per la loro presenza. E così gli esperti hanno proposto una lunga lista di misure da prendere per cercare di frenare le delocalizzazioni.
Nessuna di queste misure convince però – perché nessuna è abbastanza mirata. Ad esempio, c’è chi propone di ridurre le aliquote massime dell’imposta sul reddito delle persone. Ma ciò non avrebbe che un effetto marginale sulla decisione delle imprese di rimanere o meno. Esse, infatti, non mantengono effettivi di personale importanti nel nostro paese, limitandosi a posizioni decisionali – pagate certo molto bene, ma di poco conto se confrontate ai costi globali delle imprese.
Una misura tra le più specifiche sarebbe quella di ridurre l’imposizione dei dividendi. I benefici delle imprese vengono oggi imposti due volte, una prima volta a livello dell’impresa con l’imposta sui benefici e una seconda volta a livello degli azionisti. Perché non ridurre questa doppia imposizione, come già lo hanno fatto numerosi altri paesi? Ahimè, l’imposizione dei dividendi in Svizzera è appena stata ritoccata – ma verso l’alto. Un’inversione a U sembra improbabile.
Più importante ancora: la stragrande maggioranza degli azionisti delle imprese multinazionali con sede in Svizzera risiede all’estero e non ricaverebbe nessun vantaggio da una diminuzione dell’imposizione dei dividendi in Svizzera.
Ciononostante, il Consiglio Federale dovrebbe avere il coraggio di rimettere questo dossier sul tavolo. Certo, ciò non frenerebbe la partenza di imprese che si sono stabilite da noi principalmente per motivi fiscali. Ma a lungo termine rafforzerebbe l’attrattività imprenditoriale svizzera e la capacità di investimento delle nostre imprese. E questo sarebbe tutto quanto di guadagnato.
Questo podcast è stato pubblicato il 21.3.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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Un mercato del lavoro flessibile può assorbire i flussi di rifugiati dall’Ucraina
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Marco Salvi
Lasciateli venire – e lavorare
PlusvaloreUn mercato del lavoro flessibile può assorbire i flussi di rifugiati dall’Ucraina
Negli ultimi giorni già più di un milione di persone sono fuggite dall’Ucraina, soprattutto verso la Polonia dove la maggior parte di loro ha trovato rifugio in alloggi privati. L’ONU si aspetta fino a quattro milioni di rifugiati, ma potrebbero essere ancora di più.
In tutta Europa lo slancio di solidarietà è notevole. In Svizzera, i rifugiati provenienti dall’Ucraina verranno ammessi rapidamente, senza procedure d’asilo, fino a quando il bisogno di protezione cesserà. Probabilmente verrà loro concesso il permesso S (per persone bisognose di protezione), permesso che non è mai stato applicato in precedenza.
Questa forma di permesso di soggiorno prevede la possibilità di esercitare un’attività lavorativa. Ma ogni assunzione richiederà l’autorizzazione preventiva delle autorità. In concreto, ciò significa che un rifugiato potrà essere assunto solo se non si troveranno cittadini svizzeri (o stranieri già residenti in Svizzera) con qualifiche equivalenti. Inoltre, la mobilità professionale intercantonale sarà ristretta: una volta accettato da un cantone, il rifugiato non potrà lavorare in un altro. Sarà proibito, infine, il lavoro indipendente.
Con questo quadro regolamentare stretto si vuole, da un lato, sostenere l’indipendenza dei rifugiati; dall’altro, si tratta di evitare di mettere sotto pressione i salari dei residenti, specialmente di quelli meno qualificati.
Ma queste paure sono fondate? I rifugiati davvero sottraggono domanda di lavoro dai residenti? Molti economisti hanno indagato questa domanda, primo fra tutti il recente premio Nobel per l’economia, David Card. Card studiò l’impatto dell’arrivo improvviso nel 1980 di 60 000 rifugiati cubani sul mercato del lavoro di Miami. Questo e altri episodi (come l’afflusso di quattro milioni di rifugiati siriani in Turchia) permettono di analizzare empiricamente l’impatto dei flussi migratori sul mercato del lavoro.
Nel complesso, ci sono poche prove di una sostituzione della mano d’opera indigena con quella estera. Gli studi concludono che un aumento di 10 punti percentuali della quota di immigrati nella forza lavoro cambia il reddito dei nativi da -2% a +2% – insomma, di poco o niente. I mercati del lavoro dei paesi di destinazione sono abbastanza flessibili per assorbire i nuovi arrivati, soprattutto se viene dato loro il tempo necessario per farlo.
Finora la Svizzera non è stata in grado di eccellere nell’integrazione dei rifugiati sul mercato del lavoro. Il tasso di occupazione dei richiedenti asilo e dei rifugiati è di circa il 40% cinque anni dopo il loro arrivo. Ciò mette la Svizzera nel mezzo del gruppo in un confronto europeo. In questo contesto, l’introduzione dello status S e la relativa rapida integrazione dei rifugiati nel mercato del lavoro svizzero sono da accogliere con favore. Lasciamoli venire, sì – ma lasciamoli anche lavorare.
Questo podcast è stato pubblicato il 7.3.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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L’individualizzazione dell’imposta sul reddito è essenziale per fare progredire la parità sul mercato del lavoro
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Marco Salvi
La parità di genere passa per le tasse
PlusvaloreL’individualizzazione dell’imposta sul reddito è essenziale per fare progredire la parità sul mercato del lavoro
Tra le molte misure proposte per fare progredire la parità tra i sessi – dal linguaggio inclusivo agli asili nido gratuiti – la riforma dell’imposta sul reddito non è tra le più salienti. È un peccato perché il nostro sistema fiscale scoraggia inutilmente la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. E chi dice partecipazione limitata, dice progressioni di carriera più lente, differenziali salariali tra uomini e donne persistenti e, a termine, maggiori disuguaglianze pensionistiche. Insomma, nella lotta per la parità, l’aspetto fiscale è essenziale ma rimane sottovalutato.
L’imposizione congiunta del reddito delle coppie sposate, come la conosciamo in Svizzera, fa sì che chi guadagna il secondo reddito (in stragrande maggioranza si tratta di quello della donna) venga imposto ad un tasso più alto di quello del reddito primario.
Consideriamo l’esempio di una coppia sposata, residente a Bellinzona. Lui guadagna un salario netto di 50 000 franchi annui. Per questo compenso piuttosto basso la coppia pagherà 2000 franchi d’imposta sul reddito, pari a 4 percento del salario. Se ora la coniuge decidesse di lavorare a tempo pieno per un salario equivalente a quello del marito, questo reddito supplementare verrebbe imposto non al 4 ma bensì al 17 percento – un tasso ben quattro volte superiore all’aliquota del marito.
Questa differenza palese è dovuta al fatto che nel sistema attuale i due redditi vengono addizionati e tassati congiuntamente, non individualmente. Così il sistema fiscale dissuade le donne sposate a lavorare di più.
Il passaggio all’imposizione individuale dei redditi permetterebbe di rimediare a questo problema. Ma non solo. Esso eliminerebbe un altro annoso contenzioso tributario: voglio parlare della penalizzazione fiscale del matrimonio, ovvero del fatto che numerose coppie sposate pagano più tasse dei concubini. (Ciò si verifica soprattutto a livello dell’imposta federale diretta e per redditi medio-alti). Invece, l’imposizione individuale è indipendente dallo stato civile. Essa non penalizza ne favorisce le coppie sposate.
Una proposta di passaggio all’imposizione individuale dei redditi verrà discussa nei prossimi giorni dalla Commissione dell’Economia e dei Tributi del Consiglio Nazionale. La proposta è già stata accettata agli Stati, ma – come si può immaginare – l’iter di una riforma in profondità dell’imposta più importante del nostro sistema fiscale è ancora lungo e pieno d’inghippi. Come lo è sempre stata la lotta per la parità.
Questo podcast è stato pubblicato il 21.2.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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Per molti ricercatori e ricercatrici, rimanere esclusi dal principale «mercato» europeo della ricerca non è un’opzione
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Marco Salvi
«Horizon Europe»: non è solo questione di soldi
PlusvalorePer molti ricercatori e ricercatrici, rimanere esclusi dal principale «mercato» europeo della ricerca non è un’opzione
«Horizon Europe», il programma quadro dell’Unione europea per la ricerca e l’innovazione, è uno dei grandi successi dell’UE. Non c’è programma al mondo che promuova la cooperazione transnazionale nella ricerca su una scala altrettanto ampia. Horizon dispone di stanziamenti sostanziali (quasi 100 miliardi di euro su un periodo di 6 anni), e i suoi numerosi programmi coprono l’intera catena dell’innovazione; dall’idea iniziale per la ricerca di base ai nuovi prodotti e servizi.
Così, quando il 22 giugno 2021 l’UE ha informato la Svizzera che non sarebbe più considerata quale partecipante pienamente associato all’attuale programma, ma solo come paese terzo, l’apprensione nel settore della ricerca è stata subito grande. Queste inquietudini non si sono ancora placate.
Tra il 2014 e il 2020, le partecipazioni svizzere a Horizon sono state più di cinquemila. Spesso gli istituti svizzeri vi hanno assunto un ruolo leader: i Politecnici federali, ad esempio, nel 45 percento dei casi. Il Consiglio federale ha promesso di compensare i finanziamenti europei con fondi interni. Ma un recente sondaggio rivelava che l’88% degli istituti universitari svizzeri non considera queste soluzioni di ripiego come equivalenti.
Infatti, l’importanza di Horizon va ormai ben oltre la capacità di mobilizzare finanziamenti. La partecipazione a un programma è diventata un segnale ambito dai ricercatori – un sigillo di approvazione della comunità scientifica. Studi empirici mostrano che chi riceve il sostegno del Consiglio Europeo della Ricerca (ERC), o meglio ancora ne dirige un progetto di ricerca, ne ricava spesso una spinta importante alla carriera.
I ricercatori sono una categoria professionale molto mobile a livello internazionale. La «caccia» ai talenti scientifici si è intensificata. Inoltre, nella ricerca diventa sempre più importante potere fare rete. Lo sottolinea il fatto che la proporzione di pubblicazioni scientifiche con più co-autori è aumentata notevolmente negli ultimi anni. Le collaborazioni di ricerca contribuiscono all’attrattiva di un’università per ricercatori altamente qualificati e mobili. Non sorprende quindi che ben il 75% degli istituti universitari svizzeri intervistati ha dichiarato di non essere più ugualmente attraente come datore di lavoro senza la partecipazione a Horizon Europe.
Insomma, bisogna riconoscerlo: con Horizon l’UE è riuscita a creare un «mercato» internazionale della ricerca altamente competitivo. Non sarà facile per le università svizzere trovare sostituti adeguati. Per molti ricercatori, soprattutto per i migliori, rimanerne esclusi non è un’opzione.
Questo podcast è stato pubblicato il 7.2.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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La mobilità geografica tra le regioni svizzere è bassa, ciò rappresenta un problema per l’impiego
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Marco Salvi
Un paese di sedentari
PlusvaloreLa mobilità geografica tra le regioni svizzere è bassa, ciò rappresenta un problema per l’impiego
L’OCSE, l’organizzazione internazionale con sede a Parigi che raggruppa i paesi più ricchi e ne studia le politiche economiche, ha appena pubblicato il suo rapporto biennale sulla Svizzera. Tra le numerose analisi, raccomandazioni e occasionali tiratine d’orecchio alla politica economica del nostro paese, gli autori dello studio hanno anche scovato anche alcune particolarità inattese della nostra economia che meriterebbero più attenzione.
Tra queste vi è la mobilità interna ridotta in Svizzera. Benché le distanze tra un centro e l’altro siano da noi brevi, i cambiamenti di domicilio intercantonali sono relativamente rari. Tra il 2015 e il 2019, in media solo l’1,7% della popolazione si è trasferito da un cantone a un altro. In confronto, durante lo stesso periodo il 2,5% della popolazione dell’Unione Europea si è spostata in un’altra regione di residenza.
Questa mobilità interna ridotta si riscontra anche tra i giovani. Secondo uno studio di qualche anno fa, la distanza dal luogo di domicilio dei genitori all’università più vicina influisce fortemente sulla scelta degli studi. Insomma, pur di restare in zona, i giovani maturandi sono disposti a modificare la scelta delle materie studiate, adeguandola all’offerta locale.
Secondo gli economisti dell’OCSE, le barriere linguistiche, i differenti sistemi educativi e di tassazione portano molti lavoratori a fare i pendolari piuttosto che a cambiare il cantone di residenza. Di conseguenza – e nonostante l’esiguità del territorio e l’alta densità della popolazione – quasi un attivo su dieci in Svizzera abita a un’ora o più dal posto di lavoro; un valore nettamente superiore alla media europea.
Ma vi sono ulteriori barriere alla mobilità, meno visibili di primo acchito. Benché la legge sul mercato interno garantisca l’esercizio di professioni liberali quali medico o avvocata in tutta la Confederazione, in pratica si riscontrano spesso restrizioni cantonali e barriere amministrative, in particolare per quanto riguarda l’accesso al lavoro dei professionisti della salute.
Anche il costo elevato degli alloggi frena la mobilità residenziale. In linea di principio, l’alta percentuale di inquilini – quasi il 60% delle famiglie – dovrebbe incoraggiare la mobilità. Tuttavia, il diritto di locazione svizzero limita gli aumenti degli affitti, per cui l’importo pagato dagli inquilini che abitano da lungo tempo nello stesso alloggio è ben al di sotto dei prezzi di mercato. Questo porta ad effetti di lock-in che limitano la capacità delle persone a adattarsi al cambiamento delle opportunità di lavoro.
Così, eventuali crisi congiunturali e cambiamenti strutturali regionali tendono a protrarsi più a lungo di quanto non sarebbe il caso se fossero di più coloro pronti a cercare in un altro cantone nuove opportunità.
Questo podcast è stato pubblicato il 24.01.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
La pandemia è lungi dall’ essere terminata, ma da un punto di vista strettamente economico, il bilancio per le famiglie svizzere è tutt’ora moderatamente favorevole. Se consideriamo ad esempio gli indicatori comunemente usati per valutare la salute del mercato del lavoro, sono pochi i segnali negativi: il tasso di occupazione è tornato ai livelli pre-crisi, mentre la disoccupazione è in forte calo rispetto a un anno fa. Anche i salari reali non hanno vacillato: anzi, l’anno scorso, al culmine della crisi, sono aumentati dell’ 1,5% in termini reali.
Questo risultato piuttosto positivo non si applica però a tutti allo stesso modo. La crisi del Covid è unica in quanto ha colpito i vari settori di attività in modo molto differenziato. Nel settore alberghiero e nella ristorazione, così come nei servizi culturali e nei trasporti, il livello di attività rimane inferiore alla norma. L’ informatica, le attività immobiliari o la pubblica amministrazione sono invece in piena espansione.
La distribuzione quasi aleatoria di perdite e profitti non poteva che ravvivare il dibattito sulle disuguaglianze. Vale la pena ricordare che questo dibattito è stato finora principalmente alimentato dagli sviluppi nei paesi anglosassoni al seguito della crisi finanziaria. In Svizzera le disuguaglianze erano rimaste sostanzialmente invariate da due decenni a questa parte.
La pandemia sarà riuscita ad accentuare la disparità dei redditi anche da noi? Non si può rispondere a questa domanda senza considerare la vigorosa reazione dello stato. Nel 2020, sono stati versati 11 miliardi di franchi quali indennità di lavoro ridotto. Nel complesso, le prestazioni sociali sono aumentate di 21 miliardi di franchi, ovvero del 12%.
Sfortunatamente, in Svizzera mancano dati affidabili che ci permetterebbero di stimare gli effetti di queste prestazioni supplementari sulla distribuzione dei redditi. Tuttavia, diversi studi di questo tipo già esistono all’estero. Essi suggeriscono nel complesso che le politiche di sostegno varate durante la pandemia hanno più che compensato l’effetto regressivo della crisi sui redditi. In altre parole, senza il sostegno statale, la pandemia avrebbe fortemente esacerbato le disparità. Ma una volta preso in considerazione il notevole sostegno fornito dai governi, le disuguaglianze reddituali sono state tendenzialmente ridotte.
C’è chi teme che, una volta terminati i programmi d’assistenza straordinari, vi sarà un’impennata delle disuguaglianze. Non è detto. L’economia è ripartita. Mai in passato il numero di posti liberi è stato così alto: al terzo trimestre di quest’anno c’ erano in Svizzera 100 000 posti vacanti – un numero di poco inferiore a quello dei disoccupati. Non sarebbe la prima volta che la capacità di adattamento del mercato del lavoro svizzero ci sorprende positivamente.
Questo podcast è stato pubblicato il 10.1.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Nonostante la crisi pandemica, in Svizzera l’indebitamento pubblico dovrebbe rimanere stabile– ma solo a condizione di riformare l’AVS
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Marco Salvi
La parte sommersa del debito
PlusvaloreNonostante la crisi pandemica, in Svizzera l’indebitamento pubblico dovrebbe rimanere stabile– ma solo a condizione di riformare l’AVS
Secondo le più recenti stime dell’Amministrazione federale delle finanze, la crisi pandemica ha causato un aumento della spesa pubblica di circa 25 miliardi di franchi, spesa in gran parte a carico della Confederazione e delle assicurazioni sociali. Dopodiché, stando alle proiezioni – in questi giorni, per la verità, assai incerte – la quota d’incidenza della spesa pubblica dovrebbe tornare praticamente allo stesso livello del 2019. Nonostante l’insicurezza attuale, queste prospettive sono tutto sommato rassicuranti, e per nulla comparabili a quelle di altri paesi, quali ad esempio gli Stati Uniti.
Ma che ne è del futuro più lontano? Il preventivo e il piano finanziario dello Stato non tengono conto degli sviluppi a lungo termine della nostra economia. Vi è però un fattore che già oggi sappiamo avrà un impatto determinante sulla salute futura delle finanze pubbliche: il progressivo invecchiamento della popolazione. Nei prossimi 15 anni, il numero di persone di più di 65 anni aumenterà del 40 percento, mentre quello della popolazione in età di lavorare – e quindi anche a versare contributi alle assicurazioni sociali – ristagnerà.
Senza riforme del sistema pensionistico, il divario tra entrate e uscite con il passare degli anni andrà sempre crescendo. Infatti, la legislazione in vigore promette a tutti gli assicurati residenti oggi nel nostro paese prestazioni superiori ai contributi che verranno versati. In altre parole, il valore attuale delle prestazioni pensionistiche future è maggiore dei contributi previsti. Stiamo insomma accumulando un «debito pensionistico», ben distinto dall’indebitamento pubblico.
In Svizzera, questo debito pensionistico del primo pilastro supera di molto il tradizionale debito pubblico. Uno studio di specialisti in finanze pubbliche dell’Università di Freiburg (D), commissionato qualche anno fa dall’UBS, lo stimava a quasi mille miliardi di franchi, ben cinque volte di più del debito pubblico «ufficiale».
Da allora è stato varato un primo pacchetto di riforme, in vigore dal 2020. Questo pacchetto prevede un (modesto) aumento delle contribuzioni e ridurrà leggermente il debito pensionistico. Ma ciò non basta. Come lo suggeriscono le nuove stime della Confederazione, senza una riforma in profondità dell’AVS il debito pensionistico rimarrà sostanziale.
Questo debito pensionistico rappresenta un ulteriore carico finanziario che la nostra generazione si appresta a passare a quelle future. Si tratta di un carico tutto implicito perché non vi è un obbligo giuridico ben definito a ripagare. La promessa di ripagare non è sotto forma di titolo ma di legge, legge che appunto al momento prevede prestazioni in eccesso del valore dei contributi. Ma, per fortuna, le leggi si possono anche cambiare.
Questo podcast è stato pubblicato il 29.11.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Non passa oramai una settimana senza che qualcuno non ci avverta dell’insostenibile andamento dei prezzi immobiliari in Svizzera. L’ultimo ammonimento in data ci viene nientemeno che dalla FINMA, l’Autorità di vigilanza dei mercati finanziari. Nel suo «Monitoraggio dei rischi 2021», presentato la settimana scorsa, essa ha identificato i rischi più significativi per il settore finanziario, in base ai quali definire le priorità della sua attività di vigilanza. Ebbene, per la FINMA non fa dubbio che il rischio più elevato lo si riscontri al momento sul mercato immobiliare e ipotecario.
Su quali dati e osservazioni si basa questa presa di posizione? Vi è da un lato l’aumento imperterrito del volume dei prestiti ipotecari, cresciuti nonostante la pandemia e il corrispondente (lieve) calo dei redditi. Ma è soprattutto il rincaro dei prezzi delle abitazioni di proprietà a preoccupare il regolatore: questi sono saliti a livello nazionale di ben sei percento nell’arco di un solo anno. La crescita dei prezzi ha acquisito così un ulteriore slancio e la FINMA rileva uno scollamento sempre maggiore rispetto all’evoluzione dei redditi.
Questa in sostanza le analisi della FINMA. E quasi mi viene voglia di dire: tutto qui? Sì, perché a fronte di questi indizi a carico, mi pare che gli analisti della FINMA omettano di menzionare alcune importanti «circostanze attenuanti». La prima riguarda la situazione patrimoniale dei proprietari di case nel nostro paese. Infatti, questa situazione è fortemente migliorata durante gli ultimi due decenni, tanto che l’indebitamento ipotecario, se rapportato non ai redditi ma al valore delle case, non è affatto cresciuto, ma è anzi in continua diminuzione.
Inoltre, lo scollamento dei prezzi immobiliari rispetto ai redditi (tanto temuto dalla FINMA) può essere spiegato in gran parte dalla forte diminuzione dei tassi d’interesse. Per un affitto dato, il dimezzamento dei tassi ipotecari implica un raddoppio del valore dell’immobile. Considerati da questo angolo di vista, l’aumento del 40 percento dei prezzi delle case nell’arco degli ultimi 10 anni non sembra poi così esagerato.
E se infine la pandemia – come lo rileva la FINMA stessa –ha accresciuto l’importanza della situazione abitativa personale ciò è piuttosto un segno che l’andamento dei prezzi immobiliare è da ricondurre alle valutazioni fondamentali degli acquirenti piuttosto che a delle fantasie da bolla speculativa. Insomma, se bolla ci sia o meno, lo si potrà dire con certezza solo a posteriori. Intanto, non sopravvalutiamo le capacità degli analisti a riconoscerla in anticipo.
Questo podcast è stato pubblicato il 15.11.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
In che misura la crisi pandemica rappresenta uno spartiacque per il mercato del lavoro elvetico?
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Marco Salvi
I postumi del Covid per l’impiego
PlusvaloreIn che misura la crisi pandemica rappresenta uno spartiacque per il mercato del lavoro elvetico?
Quali cambiamenti hanno un carattere temporaneo, quali invece sono permanenti? A ormai più di un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, l’interrogativo resta aperto. Uno sguardo retrospettivo agli indicatori chiave del mercato del lavoro evidenzia un impatto sorprendentemente contenuto del Covid-19: il tasso di attività ha segnato una flessione temporanea soltanto durante il primo lockdown e l’aumento massimo di 1,2 punti percentuali della disoccupazione a livello nazionale è stato relativamente moderato.
Tuttavia, il 2020 ha registrato un calo del volume di lavoro – vale a dire la somma delle ore effettivamente destinate all’attività produttiva – del 3,7%, una flessione più marcata rispetto a quella registrata durante la crisi finanziaria. Ad accusare maggiormente il colpo della pandemia sul mercato del lavoro sono stati i giovani adulti, i liberi-professionisti e i dipendenti part-time. Il neologismo «she-cession», che descrive una recessione prevalentemente sulle spalle delle donne, non ha invece trovato grande conferma nella realtà lavorativa svizzera. La pandemia ha tuttavia dimostrato che l’occupazione femminile continua a reagire in modo più sensibile alle crisi congiunturali.
Durante il primo lockdown, fino a un quarto degli occupati ha beneficiato del lavoro ridotto. Secondo una nostra analisi, pubblicata la settimana scorsa, senza questo strumento sarebbero spariti 120 000 impieghi e la disoccupazione avrebbe raggiunto quota un massimo del 5,5%. Ma ogni cosa ha il suo prezzo: oltre a costi nell’ordine di miliardi, il lavoro ridotto rischia sempre più di rimandare la disoccupazione a più tardi e di mantenere a caro prezzo uno status quo ormai cadùco.
Anche grazie a questi sostegni massicci, durante la crisi gli stipendi non hanno subito flessioni, al contrario: al netto dell’inflazione il livello salariale è aumentato nel 2020 dell’1,5% rispetto all’anno precedente. Al momento non ci sono segnali che indichino un chiaro esacerbarsi delle disparità retributive. L’analisi preliminare di dati ufficiali mostra che anche nelle classi più basse i salari sono aumentati. Fino ad ora i servizi dell’assistenza sociale non hanno segnalato alcun deterioramento delle condizioni economiche delle famiglie a basso reddito.
E che ne è delle abitudini lavorative: rimarrà il telelavoro? Mentre i sindacati temono tuttora che impatti negativamente sui dipendenti, la stragrande maggioranza dei lavoratori ha invece reagito al cambiamento in modo da positivo a molto positivo. Anche se la gente continuerà a «gettonare» l’home office quando ci saremo lasciati la pandemia alle spalle, il lavoro in presenza rimane insostituibile, soprattutto per i giovani, chi inizia un nuovo lavoro e le persone attente alla carriera. Ad approfittarne maggiormente saranno coloro che dispongono di qualifiche superiori, residenti nei centri urbani.
L’attuale legge sul lavoro costituisce però un ostacolo significativo a questa flessibilizzazione del lavoro, raggruppando infatti concetti e termini tipici dell’era industriale e resi ormai obsoleti dalla tecnologia, dai nuovi contenuti del lavoro e dalle abitudini dei lavoratori. Perché a volerla questa flessibilità non sono tanto le imprese, quanto i dipendenti stessi.
Questo podcast è stato pubblicato il 1.11.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Dopo il sì al «matrimonio per tutti» è ora di rimuovere un altro ostacolo alla vita coniugale: quello della tassazione congiunta dei redditi
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Marco Salvi
Tante vie portano all’imposizione individuale
PlusvaloreDopo il sì al «matrimonio per tutti» è ora di rimuovere un altro ostacolo alla vita coniugale: quello della tassazione congiunta dei redditi
Gli Svizzeri hanno recentemente detto di sì al «matrimonio per tutti» e hanno così fatto un passo supplementare verso le pari opportunità. Tuttavia, vi sono ulteriori ostacoli da rimuovere in un aspetto importante della vita coniugale: quello della tassazione. Oggi, la tassazione congiunta dei redditi delle coppie sposate fa sì che il reddito delle donne – nella stragrande maggioranza dei casi, sono loro a portare a casa il secondo reddito – venga tassato di più di quanto non sarebbe il caso con un’imposizione individuale. Questo svantaggio fiscale può anche tradursi in una penalizzazione del matrimonio rispetto al concubinato, specialmente se entrambi i partner guadagnano un importo simile. L’introduzione dell’imposizione individuale quindi non solo abolirebbe le disparità di trattamento tra le coppie sposate e quelle non sposate, ma migliorerebbe pure la parità di genere dal lato fiscale.
E non sono solo io a dirlo, ma un nuovo rapporto in materia, pubblicato qualche settimana fa dall’Amministrazione federale delle contribuzioni (AFC). Il rapporto è lungo e dettagliato: infatti, benché il principio fondamentale dell’imposizione individuale – quello di «una persona, una dichiarazione fiscale» – sia semplice, la sua applicazione concreta lo è molto meno. Come tenere conto di redditi prodotti in comune, quali certi redditi da risparmio? E che ne è delle deduzioni?
Ma come in ogni riforma fiscale, si tratta in primo luogo di trovare una soluzione che minimizzi il numero dei potenziali perdenti; di coloro insomma che, a riforma attuata, si ritroverebbero a pagare più imposte di adesso. Il rapporto mostra che un passaggio «indolore» all’imposizione individuale, cioè senza praticamente perdenti rispetto alla situazione attuale, è possibile… ma costa. Esso stima le perdite fiscali a circa un miliardo e mezzo di franchi l’anno, perdite che dovrebbe venire poi compensate da aumenti di altre imposte.
Dal lato dei benefici, l’introduzione della tassazione individuale inciterebbe 300 000 donne ad aumentare del 20 percento le ore lavorate. Questo aumento dell’occupazione femminile migliorerebbe le opportunità di carriera, come pure la sicurezza finanziaria delle donne durante la vecchiaia.
L’analisi degli economisti dell’AFC evidenzia insomma che non esiste un modello unico di tassazione individuale. La scelta tra i vari modelli è fondamentalmente politica. Ma indipendentemente da queste scelte, è indubitabile che l’introduzione della tassazione individuale sarebbe un altro passo importante verso una maggiore uguaglianza di opportunità tra uomini e donne.
Questo podcast è stato pubblicato il 18.10.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Marco Salvi
Valore locativo – l’imposta incompresa
Plusvalore
Un progetto di legge vuole abolire la tassazione del valore locativo. Una buona idea?
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Marco Salvi
Valore locativo – l’imposta incompresa
PlusvaloreUn progetto di legge vuole abolire la tassazione del valore locativo. Una buona idea?
È da decenni oramai che l’ abolizione della tassazione del valore locativo viene annunciata come imminente – e questa volta sarà forse quella buona. Un progetto al riguardo verrà discusso nella sessione autunnale delle Camere federali. Secondo questa proposta, in futuro non verrà più tassato il valore locativo della proprietà primaria occupata dal proprietario. Allo stesso tempo, non sarà più possibile dedurre dal proprio reddito imponibile gli interessi ipotecari e le spese di manutenzione.
Il problema principale del reddito locativo è che si tratta di un concetto difficile da spiegare. Io ci provo: esso rappresenta il reddito in natura che il proprietario di una casa paga a se stesso per l’ uso della casa. Chi affitta una casa e ne trae reddito, vede questo reddito imposto normalmente. L’imposizione del valore locativo garantisce così l’ uguaglianza di trattamento fiscale tra gli immobili occupati dal proprietario e quelli in affitto.
In termini economici il valore locativo è di notevole entità. Quasi il 40% delle Svizzere e degli Svizzeri vive nella propria casa. Uno studio del 2014 stimava che il valore locativo rappresenta circa il 7% del prodotto interno lordo (PIL), cioè circa 50 miliardi di franchi all’ anno. Dal punto di vista delle entrate fiscali, l’importanza è minore perché il valore locativo può essere ridotto con la deduzione degli interessi ipotecari e dei costi di manutenzione. Ciononostante, parliamo di qualche miliardo di franchi all’anno che finiscono nell’erario di Confederazione, Cantoni e Comuni a titolo dell’imposizione del valore locativo.
Alcuni ritengono che il sistema attuale favorisca l’indebitamento. Non ne sono così sicuro. L’indebitamento ipotecario degli Svizzeri è sì fra i più alti al mondo – quasi mezzo milione per proprietario. Ma non dimentichiamo che a fronte di questi debiti stanno attivi immobiliari del valore medio superiore al milione. Se raffrontiamo gli uni agli altri, l’indebitamento ipotecario degli Svizzeri è nella norma.
Al momento, il trattamento fiscale degli immobili residenziali occupati dai proprietari è fondamentalmente simile a quello di tutti gli altri tipi d’investimento. Meritano le case proprie una soluzione fiscale completamente diversa? Se il valore locativo è difficile da capire, lo è anche la ragione per cui si dovrebbe ora a tutti i costi creare una nuova eccezione.
Questo podcast è stato pubblicato il 4.10.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Questa crisi è femminile. Che le donne siano state più colpite dalla contrazione economica che ha accompagnato la pandemia da Covid-19 lo si è detto e ripetuto, tanto che i social media hanno coniato un neologismo, quello della «she-cession», derivata dalla parola inglese «recession» e dal pronome femminile.
Ma cosa dicono i dati? Secondo un’analisi del Fondo Monetario Internazionale (FMI), durante il primo lockdown nella primavera del 2020, in due terzi dei paesi studiati l’occupazione femminile è stata più severamente colpita dalla crisi di quella maschile. Anche in Svizzera, si è allora registrato un tasso di occupazione delle donne maggiormente in ripiego rispetto a quello degli uomini.
Sono due le ragioni principali per questa reazione asimmetrica:
La prima è dovuta alla concentrazione dell’impiego femminile nel settore dei servizi. Le donne sono tradizionalmente sovrarappresentate nella ristorazione, nel commercio al dettaglio e nelle attività culturali – settori questi che hanno sofferto maggiormente durante il lockdown. Nell’industria invece, dove l’impatto della crisi in Svizzera si è fatto meno sentire, sono gli uomini ad essere in maggioranza.
Inoltre, le donne si sono assunte una quota maggiore delle cure supplementari ai figli, rese necessarie dalle chiusure delle scuole e dalle messe in quarantena. Secondo un sondaggio commissionato dall’Ufficio federale per l’uguaglianza di genere, nel maggio 2020, il 37% delle madri (con figli sotto i 16 anni) dichiarava di avere ridotto le proprie attività lavorative a causa delle maggiori esigenze di cura dei figli, contro il 25% dei padri.
La recessione al femminile, fortunatamente, è stata di breve durata. Già a partire dall’estate dell’anno scorso, il tasso di occupazione ha recuperato il terreno perso, e ciò è avvenuto più velocemente per le donne che per gli uomini. Inoltre, il tasso di disoccupazione femminile è sempre stato inferiore a quello maschile. Nel complesso, il numero totale di ore lavorate retribuite è diminuito allo stesso modo per entrambi i sessi.
La «she-cession», anche se breve, ha messo in evidenza la reattività dell’impiego femminile alla (mancata) disponibilità di strutture di accoglienza. Ciò può essere interpretato in maniera negativa, quale un ulteriore espressione delle disparità tra i sessi. Ma mostra pure che incentivi fiscali adeguati – quali ad esempio maggiori deduzioni per le cure esterne o il passaggio all’imposizione individuale dei redditi – indurrebbero molte donne ad aumentare la loro partecipazione al mercato del lavoro.
Questo podcast è stato pubblicato il 20.09.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Benché la Svizzera non sia membro dell’UE, la nostra economia è molto integrata a quella dell’Unione. Secondo uno studio del Centro di ricerca congiunturale del Politecnico di Zurigo di qualche anno fa, la Svizzera sarebbe più integrata al mercato interno UE della maggioranza degli stati membri stessi, Italia, Francia e Germania comprese. Se si considerano gli scambi commerciali, il movimento di capitali e la migrazione, solo Belgio e Irlanda avrebbero un grado di interconnessione ancora maggiore.
La decisione del Consiglio Federale a fine maggio di interrompere i negoziati sull’Accordo quadro istituzionale – preferendo puntare sullo status quo – potrebbe portare a un allentamento significativo di questi rapporti? Considerato che in termini di regolamentazione il mercato interno europeo continua ad evolvere e che, secondo l’attuale dottrina di Bruxelles, senza un Accordo quadro istituzionale gli accordi bilaterali attuali non saranno aggiornati, il pericolo sembra più che reale.
Le prime crepe si sono già prontamente manifestate durante l’estate. Da fine giugno la Svizzera viene considerata come paese terzo a livello di ricerca scientifica, con conseguenze dirette per le collaborazioni più prestigiose che non saranno più finanziate da fondi europei. Altro effetto immediato: l’accesso dei prodotti medtech svizzeri al mercato interno dell’unione è diventato più difficile e più costoso, mentre rimane irrisolto il contenzioso riguardo alla riconoscenza borsistica.
Altre gatte da pelare sono dietro all’angolo. L’UE può decidere se le leggi sulla protezione dei dati all’estero sono riconosciute come equivalenti e se quindi non siano necessarie ulteriori misure di protezione per i flussi di dati transfrontalieri. La legge svizzera sulla protezione dei dati è stata classificata come adeguata dall’UE nel lontano 2000. Resta tutto da vedere se l’UE continuerà a riconoscere la legge svizzera come equivalente. Nel caso contrario, le imprese svizzere potrebbero vedersi vietata l’elaborazione dei dati relativi ai clienti residenti nell’Unione.
Incertezze aleggiano pure sul rinnovo di accordi sugli ostacoli tecnici al commercio, sui trasporti aerei e terrestri e sulla cooperazione in materia di facilitazione e sicurezza doganali. Nessuno di questi contenziosi ha di per sé la capacità di rimettere in questione in modo fondamentale le relazioni economiche tra la Svizzera e l’UE. Ma si sa, si può anche morire di mille piccole ferite.
Questo podcast è stato pubblicato il 06.09.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
La decisione dei ministri delle finanze del G7, in riunione la settimana scorsa a Londra, di introdurre un tasso d’imposizione minimo sul beneficio delle società multinazionali è stata accolta con inquietudine dagli ambienti economici svizzeri. Non è tanto l’aliquota minima del 15 percento a preoccupare. Essa non supera di molto quanto già oggi in vigore in quei cantoni che contano una presenza numerica rilevante di imprese multinazionali. Di portata ben maggiore è invece la decisione presa a Londra di modificare fondamentalmente il modo di imporre i profitti, con il rischio di rendere obsoleto un sistema globale di tassazione cresciuto organicamente nell’arco di oramai un secolo.
In effetti, sono pochi oggi a ricordare che quasi tutti gli accordi internazionali vigenti in materia di fiscalità hanno un antenato comune: il modello di convenzione sviluppato nel primo dopoguerra a Ginevra dalla Società delle Nazioni, l’antenato delle Nazioni Unite. Allora – come oggi – si trattava di evitare la doppia imposizione dei profitti delle imprese, spesso tassati sia alla fonte (cioè nel paese dove vengono generati) che nel paese di residenza dell’impresa e dei suoi proprietari. Questo problema di doppia imposizione, nefasto agli investimenti e quindi allo sviluppo economico, fu risolto dando la precedenza all’imposizione dei benefici alla fonte.
Con il passare del tempo, questo principio fondamentale ha incoraggiato molti paesi – tra cui la Svizzera – a offrire tassi preferenziali a imprese internazionali qualora esse decidessero di spostare la creazione di valore nel paese in questione. Da un lato ciò ha indubbiamente stimolato gli investimenti. Dall’altro, il sistema ha incoraggiato pratiche di «profit shifting», ovvero di trasferimento puramente nozionale di profitti da un paese all’altro, senza corrispondenza economica tangibile.
Ciò ha fatto nascere l’idea, presentata al G7, di imporre le imprese non dove i profitti sono creati ma bensì dove l’azienda fa le sue vendite, con il presupposto che questo limiterebbe le capacità di «shifting». Purtroppo, questo cambiamento di paradigma non garantisce per nulla che si eviti la (nefasta) doppia imposizione. Inoltre, esso avvantaggia chiaramente i paesi più grandi, che dispongono di mercati importanti, a scapito di quelli più piccoli.
Difficile invece giudicare l’impatto effettivo sulle entrate fiscali per i paesi che si sentono più lesi dal sistema oggi in vigore, primi fra tutti gli Stati Uniti. A livello globale, il gettito dell’imposta sui benefici delle imprese è rimasto più o meno costante, e non è per niente detto che i nuovi piani del G7 faranno aumentare gli introiti in modo significativo. Poca cosa, comunque, se raffrontata al rischio creato dall’abbandono dei principi centenari fissati nei trattati modello ginevrini, trattati che hanno contribuito fortemente al processo di globalizzazione dell’economia mondiale.
Questo podcast è stato pubblicato il14.06.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
L’abbandono repentino dei negoziati per un accordo quadro con l’UE, annunciato la settimana scorsa dal Consiglio Federale, è stato già ampiamento commentato. Per gli uni si tratta di una decisione storica, di portata simile a quella del Brexit per il Regno Unito. Secondo gli altri invece le conseguenze di un non-accordo rimarranno impercettibili alla stragrande maggioranza dei cittadini svizzeri.
Difficile oggi dire chi abbia ragione, anche se temo che la verità sia più vicina ai primi che ai secondi. Mi pare però chiaro che questa decisione si possa inserire in una tendenza isolazionistica risentita anche altrove, tendenza che paradossalmente trova le sue origini nel paese che spesso viene rappresentato (a torto) come il motore della globalizzazione: ovvero gli Stati Uniti.
O questa perlomeno è la tesi dell’economista americano Adam Posen, esposta con brio in un recente articolo nella prestigiosa rivista «Foreign Affairs». A riprova della sua tesi, Posen sottolinea come il rapporto commercio estero/PIL sia cresciuto negli USA più lentamente che in molti altri paesi – passando dal 20% nel 1990 al 30% nel 2008 – rimanendo però sempre ben al di sotto della media globale. Questo rapporto è poi sceso a partire dalla crisi finanziaria, e non si è ancora ripreso.
Il revival del protezionismo precede anche lo «shock cinese» conseguente all’ingresso nel 2001 della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Secondo una tesi sostenuta sia da Trump che dal suo successore Biden, i lavoratori americani ne avrebbero sofferto gravemente gli effetti, soprattutto nell’industria. Gli economisti stimano invece che la concorrenza cinese abbia causato la perdita di 130 000 posti di lavoro nell’industria all’anno: una bazzecola se paragonata al turnover del mercato del lavoro USA, dove si contano annualmente 60 milioni di disdette di contratto di lavoro.
Anche qui i paralleli con la situazione svizzera sono manifesti. Da noi lo shock non è stato quello cinese, ma piuttosto quello legato alla libera circolazione e maggiore integrazione istituzionale con l’UE. E se negli USA lo scetticismo rispetto al commercio e agli investimenti internazionali è stato accompagnato all’interno da una politica di stampo neoliberista, tra gli oppositori più accaniti all’accordo quadro con l’UE si trovano parecchi fautori del meno Stato.
Per Posen le tendenze protezionistiche ancora non sono maggioritarie a livello internazionale. In Asia o buona parte dell’Europa, la globalizzazione degli scambi e l’integrazione dei mercati proseguono senza troppi inghippi. Esse sono accompagnate da un rafforzamento dello stato sociale, non dal suo smantellamento. Ma la nostalgia per un’economia che non c’è più – e per le politiche che la sostenevano – oramai non si può più ignorare.
Questo podcast è stato pubblicato il 31.05.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.