Plusvalore
Meglio sfruttare le opportunità che offre il lavoro su piattaforma invece di combattere ad oltranza il cambiamento
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Marco Salvi
Non freniamo il lavoro flessibile
PlusvaloreMeglio sfruttare le opportunità che offre il lavoro su piattaforma invece di combattere ad oltranza il cambiamento
In Svizzera, i tassisti che utilizzano la piattaforma Uber saranno considerati come dipendenti e non come lavoratori autonomi. Infatti, la settimana scorsa Il Tribunale federale ha confermato una precedente decisione in tal senso del Tribunale cantonale di Ginevra. Sindacati e governo ginevrino si sono dichiarati molto soddisfatti. Che a centinaia di lavoratori sia stato impedito, almeno temporaneamente, di svolgere il proprio lavoro sembra essere di minore importanza. A seguito della decisione, Uber assumerà i propri autisti a Ginevra indirettamente attraverso aziende di trasporto.
Problema risolto quindi? Solo superficialmente. La questione dell’indipendenza degli autisti Uber è stata trattata fino ad ora esclusivamente dal lato legale. Tuttavia, con la trasformazione del mondo del lavoro tramite il cambiamento digitale si fa sempre più pressante anche un’azione politica. È probabile che in futuro le piattaforme digitali sfidino ulteriormente i fornitori tradizionali di servizi e creino nuovi posti di lavoro a metà strada tra il lavoro autonomo e quello dipendente. Il diritto del lavoro e della previdenza sociale non sono al passo di questa evoluzione.
Classificare dogmaticamente ogni lavoro su piattaforma come precario è troppo riduttivo. Queste nuove forme di lavoro offrono notevoli possibilità di (re)integrazione a chi è più svantaggiato sul mercato del lavoro tradizionale, ad esempio perché non dispone di sufficienti competenze linguistiche, o a chi è alla ricerca di maggiore flessibilità. A questo proposito, è ironico che siano proprio gli ambienti che più hanno sposato la causa di una migliore conciliazione tra lavoro e vita familiare a gettarsi anima e corpo contro le nuove forme di lavoro flessibile.
Un’ulteriore prova dei benefici della flessibilità oraria è fornita da dati raccolti a Ginevra stessa, dove Uber Eats – il servizio delivery di Uber – già dal 2020 ha assunto tramite una società terza i propri corrieri. Da allora i corrieri godono di una sicurezza sociale più ampia, ma lavorano con turni meno flessibili. Ebbene, ciò sembra aver portato un numero considerevole di loro a rinunciare a lavorare.
La rigida dicotomia tra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti nel diritto del lavoro sta diventando sempre più anacronistica. Forse è venuto il momento di considerare una terza via – chiamiamola quella del «lavoratore autonomo dipendente». Questo status combinerebbe una protezione previdenziale più generosa di quella che conoscono oggi gli indipendenti, ma con ampie libertà contrattuali, soprattutto in materia di flessibilità dell’impiego. Insomma, la Svizzera farebbe bene a ritrovare la volontà di riforme e a considerare finalmente i cambiamenti sociali non come un rischio, ma come un’opportunità.
Questo podcast è stato pubblicato il 13.06.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
La disparità dei redditi in Svizzera è inferiore alla media europea. Negli ultimi 25 anni non è cresciuta.
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Marco Salvi
Ricchi ed eguali
PlusvaloreLa disparità dei redditi in Svizzera è inferiore alla media europea. Negli ultimi 25 anni non è cresciuta.
È un luogo comune: le buone notizie faticano a raggiungere le prime pagine dei giornali. C’era da aspettarsi quindi che il nuovo rapporto dell’Ufficio federale di statistica (UFS) sull’evoluzione delle disuguaglianze di reddito in Svizzera non venisse particolarmente gettonato dai media. Sì, perché questa evoluzione – nella sua mancata spettacolarità – è assai positiva.
La ricchezza della Svizzera non è soltanto proverbiale: a livello europeo, solo in Norvegia e Lussemburgo si registra un reddito mediano più elevato. In termini di potere d’acquisto, il reddito mediano svizzero supera del 20% quello tedesco, e ciò nonostante l’alto livello dei prezzi nel nostro paese. (Da notare che al contrario del reddito medio, influenzato da pochi redditi molto elevati, quello mediano meglio rappresenta la situazione nel mezzo della distribuzione dei redditi).
E che ne è, appunto, delle disuguaglianze? Ebbene, il rapporto mostra come in Svizzera non siano solo le elite a godere di un elevato tenore di vita ma bensì ampi strati della popolazione. Le disuguaglianze di reddito vi si attestano al disotto della media europea, anche se si trovano paesi «benestanti», quali i paesi nordici o l’Austria, con distribuzioni ancora più egualitarie.
Ma il fatto forse più sorprendente riguarda l’evoluzione delle disparità – o, meglio, la loro mancata evoluzione. Stando alle stime dell’UFS, non si sono praticamente registrati cambiamenti al riguardo da 25 anni a questa parte, nonostante i mutamenti dell’economia e le varie turbolenze che ha dovuto affrontare.
Quali le ragioni per questa stabilità esemplare? La prima, debitamente rilevata dal rapporto, riguarda il sistema di redistribuzione. Imposte e prestazioni sociali hanno premesso di compensare un leggero allargamento della disparità dei redditi primari (i redditi lordi, ante imposte). Altrettanto importante è stata però la relativa stabilità dei redditi primari stessi. Soprattutto i redditi da lavoro rimangono da noi tra i più egualitari al mondo.
Ciò conferma l’importanza fondamentale del mercato del lavoro per l’evoluzione delle disuguaglianze. È la mancanza di lavoro a coincidere spesso con la povertà. Un mercato del lavoro integrativo è invece garante di parità. Così, l’alto tasso d’occupazione in Svizzera contribuisce a mantenere le differenze di reddito a un livello accettabile socialmente, anche se, ovviamente, non le elimina del tutto.
Questo podcast è stato pubblicato il 30.05.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Come vuole la tradizione, anche questo primo maggio è stato un momento di discorsi, manifestazioni più o meno pacifiche e l’occasione per riflettere sulle condizioni del partenariato sociale. Quest’ultimo è certamente un elemento importante del nostro benessere. Caratteristica saliente del modello elvetico di partenariato sono le negoziazioni bilaterali: le condizioni di lavoro di un settore vengono discusse direttamente tra lavoratori e datori di lavoro, spesso a livello regionale e senza l’intervento dello stato. Questo modello quasi secolare ha contribuito a mantenere la stabilità delle relazioni di lavoro.
Le sfide, però, non mancano. Anche il modello svizzero deve adeguarsi agli importanti cambiamenti strutturali che si osservano sul mercato del lavoro. Mentre nel 1960 il 29% della forza lavoro era attiva in un sindacato, nel 2020 questa proporzione era solo del 13%, una diminuzione principalmente dovuta al declino relativo dell’industria e alla parallela terziarizzazione dell’economia.
Ciononostante, i sindacati svizzeri sono riusciti a mantenere – se non addirittura rafforzare – il loro influsso sulla politica del lavoro. Ciò è dovuto principalmente all’importanza crescente dei contratti collettivi di lavoro (CCL), e soprattutto del ricorso sempre più frequente all’obbligatorietà generale. Questo strumento permette di estendere il campo di applicazione di un CCL a tutti i datori di lavoro di un settore in un cantone, obbligando tutte le ditte del ramo a rispettarne le disposizioni centrali, ad esempio i minimi salariali.
Così il numero di lavoratori sottoposti a un CCL è aumentato di quasi 850 000 unità tra il 1999 e il 2018, di cui circa 800 000 sono da mettere sul conto dell’obbligatorietà generale. Il fenomeno non si limita alle regioni di confine come il Ticino, con una parte importante di lavoratori frontalieri. Solo nel cantone di Zurigo, sono più di 40 i CCL in vigore dichiarati di portata generale.
Per i sindacati si tratta di evitare così il famigerato «dumping» salariale. Ma vi è un rovescio alla medaglia. Questo strumento, se abusato, può diminuire fortemente la concorrenza tra imprese, impedendo per esempio a nuove ditte di entrare sul mercato. Così facendo, si favoriscono le imprese più grandi, già stabilite, e generalmente meno innovative – il che va a tutto scapito di consumatori (che devono sopportare prezzi più elevati) e della concorrenzialità internazionale della nostra economia.
I sindacati svizzeri mantengono imperterriti l’obiettivo di ampliare la copertura dei CCL, e vogliono ridurre ulteriormente gli ostacoli alla dichiarazione di applicabilità generale. In ciò trovano spesso porte aperte negli uffici cantonali del lavoro e negli esecutivi cantonali. Certo, il modello di partenariato sociale elvetico rimane superiore ai diktat statali ed è preferibile a salari minimi nazionali o cantonali. Tuttavia, esso non va nemmeno strapazzato.
Questo podcast è stato pubblicato il 02.05.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
I filosofi che vorrebbero insegnarci la «buona vita» spesso consigliano di lavorare meno. Ridurre l’impegno consacrato al lavoro in modo da disporre di una maggiore quantità di tempo libero da dedicare alla famiglia, agli amici e alle proprie passioni – questo in sostanza il loro messaggio.
Se guardiamo l’evoluzione del tempo di lavoro, si potrebbe pensare in un primo momento che gli svizzeri abbiano seguito questo consiglio per benino. Nelle fabbriche del XIX secolo, le giornate di 10 ore e le settimane lavorative di 6 giorni erano la regola, per un totale di quasi 3000 ore all’anno. Oggi, il tempo medio di lavoro annuale è di 1400 ore, meno della metà.
Questa media nasconde però grandi differenze tra gruppi sociali e età. Solo una minoranza si è effettivamente liberata dal fardello del lavoro retribuito: sono i pensionati. Intorno al 1900, lavorare in età avanzata era di norma: più della metà degli over 65 era occupato. Oggi, solo il 13% lavora, per lo più con un grado di occupazione molto basso.
Per il resto della popolazione invece, la diminuzione dell’orario di lavoro è stata modesta. Per i lavoratori a tempo pieno, la settimana lavorativa effettiva si aggira da anni intorno alle 41 ore.
Nel 1930 l’economista John Maynard Keynes scriveva che nell’arco di cento anni, la settimana lavorativa si sarebbe ridotta fino a un massimo di 15 ore. Grazie alla crescita economica e al progresso tecnologico le persone sarebbero state in grado di soddisfare rapidamente i loro bisogni di consumo. Liberate dai vincoli economici, avrebbero avuto abbastanza tempo da dedicare all’arte e alla lettura dei filosofi. Questa previsione non si avverata. Nonostante l’aumento dei redditi e il benessere, l’offerta di lavoro (appunto, con l’eccezione dei pensionati) è diminuita molto meno di quanto Keynes avesse immaginato.
Lo Stato dovrebbe fare qualcosa al riguardo? Alcuni ne sono convinti e vorrebbero imporre la settimana di quattro giorni a tutti. Ma con quale giustificazione? Con il nostro comportamento mostriamo di valorizzare il lavoro (e i consumi che il lavoro ci permette di finanziare) più del
tempo libero supplementare.
Paradossalmente, sono proprio i redditi superiori – che più facilmente potrebbero ridurre l’orario di lavoro – a lavorare di più. Secondo dati dell’Ufficio federale di Statistica, il 10% dei dipendenti con i salari orari più elevati lavora circa 8 ore in più a settimana rispetto al 10% con i salari più bassi. Supponendo che la produttività e i salari continuino a crescere in futuro, questo modello potrebbe estendersi al ceto medio.
Tuttavia, lo Stato potrebbe assicurare che il lavoro venga meglio distribuito lungo il ciclo di vita, piuttosto che concentrarlo nella mezza età. L’aumento dell’età di pensionamento sarebbe un passo in questa direzione. Bisognerebbe anche rivedere il nostro sistema pensionistico in modo che i contributi sociali oltre l’età di pensionamento permettano di migliorare le rendite.
Forse dovremmo davvero fare quello che suggeriscono i filosofi – ma chiedere agli economisti come raggiungere al meglio questo obiettivo.
Questo podcast è stato pubblicato il 19.4.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Un mercato del lavoro flessibile può assorbire i flussi di rifugiati dall’Ucraina
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Marco Salvi
Lasciateli venire – e lavorare
PlusvaloreUn mercato del lavoro flessibile può assorbire i flussi di rifugiati dall’Ucraina
Negli ultimi giorni già più di un milione di persone sono fuggite dall’Ucraina, soprattutto verso la Polonia dove la maggior parte di loro ha trovato rifugio in alloggi privati. L’ONU si aspetta fino a quattro milioni di rifugiati, ma potrebbero essere ancora di più.
In tutta Europa lo slancio di solidarietà è notevole. In Svizzera, i rifugiati provenienti dall’Ucraina verranno ammessi rapidamente, senza procedure d’asilo, fino a quando il bisogno di protezione cesserà. Probabilmente verrà loro concesso il permesso S (per persone bisognose di protezione), permesso che non è mai stato applicato in precedenza.
Questa forma di permesso di soggiorno prevede la possibilità di esercitare un’attività lavorativa. Ma ogni assunzione richiederà l’autorizzazione preventiva delle autorità. In concreto, ciò significa che un rifugiato potrà essere assunto solo se non si troveranno cittadini svizzeri (o stranieri già residenti in Svizzera) con qualifiche equivalenti. Inoltre, la mobilità professionale intercantonale sarà ristretta: una volta accettato da un cantone, il rifugiato non potrà lavorare in un altro. Sarà proibito, infine, il lavoro indipendente.
Con questo quadro regolamentare stretto si vuole, da un lato, sostenere l’indipendenza dei rifugiati; dall’altro, si tratta di evitare di mettere sotto pressione i salari dei residenti, specialmente di quelli meno qualificati.
Ma queste paure sono fondate? I rifugiati davvero sottraggono domanda di lavoro dai residenti? Molti economisti hanno indagato questa domanda, primo fra tutti il recente premio Nobel per l’economia, David Card. Card studiò l’impatto dell’arrivo improvviso nel 1980 di 60 000 rifugiati cubani sul mercato del lavoro di Miami. Questo e altri episodi (come l’afflusso di quattro milioni di rifugiati siriani in Turchia) permettono di analizzare empiricamente l’impatto dei flussi migratori sul mercato del lavoro.
Nel complesso, ci sono poche prove di una sostituzione della mano d’opera indigena con quella estera. Gli studi concludono che un aumento di 10 punti percentuali della quota di immigrati nella forza lavoro cambia il reddito dei nativi da -2% a +2% – insomma, di poco o niente. I mercati del lavoro dei paesi di destinazione sono abbastanza flessibili per assorbire i nuovi arrivati, soprattutto se viene dato loro il tempo necessario per farlo.
Finora la Svizzera non è stata in grado di eccellere nell’integrazione dei rifugiati sul mercato del lavoro. Il tasso di occupazione dei richiedenti asilo e dei rifugiati è di circa il 40% cinque anni dopo il loro arrivo. Ciò mette la Svizzera nel mezzo del gruppo in un confronto europeo. In questo contesto, l’introduzione dello status S e la relativa rapida integrazione dei rifugiati nel mercato del lavoro svizzero sono da accogliere con favore. Lasciamoli venire, sì – ma lasciamoli anche lavorare.
Questo podcast è stato pubblicato il 7.3.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
La pandemia è lungi dall’ essere terminata, ma da un punto di vista strettamente economico, il bilancio per le famiglie svizzere è tutt’ora moderatamente favorevole. Se consideriamo ad esempio gli indicatori comunemente usati per valutare la salute del mercato del lavoro, sono pochi i segnali negativi: il tasso di occupazione è tornato ai livelli pre-crisi, mentre la disoccupazione è in forte calo rispetto a un anno fa. Anche i salari reali non hanno vacillato: anzi, l’anno scorso, al culmine della crisi, sono aumentati dell’ 1,5% in termini reali.
Questo risultato piuttosto positivo non si applica però a tutti allo stesso modo. La crisi del Covid è unica in quanto ha colpito i vari settori di attività in modo molto differenziato. Nel settore alberghiero e nella ristorazione, così come nei servizi culturali e nei trasporti, il livello di attività rimane inferiore alla norma. L’ informatica, le attività immobiliari o la pubblica amministrazione sono invece in piena espansione.
La distribuzione quasi aleatoria di perdite e profitti non poteva che ravvivare il dibattito sulle disuguaglianze. Vale la pena ricordare che questo dibattito è stato finora principalmente alimentato dagli sviluppi nei paesi anglosassoni al seguito della crisi finanziaria. In Svizzera le disuguaglianze erano rimaste sostanzialmente invariate da due decenni a questa parte.
La pandemia sarà riuscita ad accentuare la disparità dei redditi anche da noi? Non si può rispondere a questa domanda senza considerare la vigorosa reazione dello stato. Nel 2020, sono stati versati 11 miliardi di franchi quali indennità di lavoro ridotto. Nel complesso, le prestazioni sociali sono aumentate di 21 miliardi di franchi, ovvero del 12%.
Sfortunatamente, in Svizzera mancano dati affidabili che ci permetterebbero di stimare gli effetti di queste prestazioni supplementari sulla distribuzione dei redditi. Tuttavia, diversi studi di questo tipo già esistono all’estero. Essi suggeriscono nel complesso che le politiche di sostegno varate durante la pandemia hanno più che compensato l’effetto regressivo della crisi sui redditi. In altre parole, senza il sostegno statale, la pandemia avrebbe fortemente esacerbato le disparità. Ma una volta preso in considerazione il notevole sostegno fornito dai governi, le disuguaglianze reddituali sono state tendenzialmente ridotte.
C’è chi teme che, una volta terminati i programmi d’assistenza straordinari, vi sarà un’impennata delle disuguaglianze. Non è detto. L’economia è ripartita. Mai in passato il numero di posti liberi è stato così alto: al terzo trimestre di quest’anno c’ erano in Svizzera 100 000 posti vacanti – un numero di poco inferiore a quello dei disoccupati. Non sarebbe la prima volta che la capacità di adattamento del mercato del lavoro svizzero ci sorprende positivamente.
Questo podcast è stato pubblicato il 10.1.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
In che misura la crisi pandemica rappresenta uno spartiacque per il mercato del lavoro elvetico?
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Marco Salvi
I postumi del Covid per l’impiego
PlusvaloreIn che misura la crisi pandemica rappresenta uno spartiacque per il mercato del lavoro elvetico?
Quali cambiamenti hanno un carattere temporaneo, quali invece sono permanenti? A ormai più di un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, l’interrogativo resta aperto. Uno sguardo retrospettivo agli indicatori chiave del mercato del lavoro evidenzia un impatto sorprendentemente contenuto del Covid-19: il tasso di attività ha segnato una flessione temporanea soltanto durante il primo lockdown e l’aumento massimo di 1,2 punti percentuali della disoccupazione a livello nazionale è stato relativamente moderato.
Tuttavia, il 2020 ha registrato un calo del volume di lavoro – vale a dire la somma delle ore effettivamente destinate all’attività produttiva – del 3,7%, una flessione più marcata rispetto a quella registrata durante la crisi finanziaria. Ad accusare maggiormente il colpo della pandemia sul mercato del lavoro sono stati i giovani adulti, i liberi-professionisti e i dipendenti part-time. Il neologismo «she-cession», che descrive una recessione prevalentemente sulle spalle delle donne, non ha invece trovato grande conferma nella realtà lavorativa svizzera. La pandemia ha tuttavia dimostrato che l’occupazione femminile continua a reagire in modo più sensibile alle crisi congiunturali.
Durante il primo lockdown, fino a un quarto degli occupati ha beneficiato del lavoro ridotto. Secondo una nostra analisi, pubblicata la settimana scorsa, senza questo strumento sarebbero spariti 120 000 impieghi e la disoccupazione avrebbe raggiunto quota un massimo del 5,5%. Ma ogni cosa ha il suo prezzo: oltre a costi nell’ordine di miliardi, il lavoro ridotto rischia sempre più di rimandare la disoccupazione a più tardi e di mantenere a caro prezzo uno status quo ormai cadùco.
Anche grazie a questi sostegni massicci, durante la crisi gli stipendi non hanno subito flessioni, al contrario: al netto dell’inflazione il livello salariale è aumentato nel 2020 dell’1,5% rispetto all’anno precedente. Al momento non ci sono segnali che indichino un chiaro esacerbarsi delle disparità retributive. L’analisi preliminare di dati ufficiali mostra che anche nelle classi più basse i salari sono aumentati. Fino ad ora i servizi dell’assistenza sociale non hanno segnalato alcun deterioramento delle condizioni economiche delle famiglie a basso reddito.
E che ne è delle abitudini lavorative: rimarrà il telelavoro? Mentre i sindacati temono tuttora che impatti negativamente sui dipendenti, la stragrande maggioranza dei lavoratori ha invece reagito al cambiamento in modo da positivo a molto positivo. Anche se la gente continuerà a «gettonare» l’home office quando ci saremo lasciati la pandemia alle spalle, il lavoro in presenza rimane insostituibile, soprattutto per i giovani, chi inizia un nuovo lavoro e le persone attente alla carriera. Ad approfittarne maggiormente saranno coloro che dispongono di qualifiche superiori, residenti nei centri urbani.
L’attuale legge sul lavoro costituisce però un ostacolo significativo a questa flessibilizzazione del lavoro, raggruppando infatti concetti e termini tipici dell’era industriale e resi ormai obsoleti dalla tecnologia, dai nuovi contenuti del lavoro e dalle abitudini dei lavoratori. Perché a volerla questa flessibilità non sono tanto le imprese, quanto i dipendenti stessi.
Questo podcast è stato pubblicato il 1.11.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Questa crisi è femminile. Che le donne siano state più colpite dalla contrazione economica che ha accompagnato la pandemia da Covid-19 lo si è detto e ripetuto, tanto che i social media hanno coniato un neologismo, quello della «she-cession», derivata dalla parola inglese «recession» e dal pronome femminile.
Ma cosa dicono i dati? Secondo un’analisi del Fondo Monetario Internazionale (FMI), durante il primo lockdown nella primavera del 2020, in due terzi dei paesi studiati l’occupazione femminile è stata più severamente colpita dalla crisi di quella maschile. Anche in Svizzera, si è allora registrato un tasso di occupazione delle donne maggiormente in ripiego rispetto a quello degli uomini.
Sono due le ragioni principali per questa reazione asimmetrica:
La prima è dovuta alla concentrazione dell’impiego femminile nel settore dei servizi. Le donne sono tradizionalmente sovrarappresentate nella ristorazione, nel commercio al dettaglio e nelle attività culturali – settori questi che hanno sofferto maggiormente durante il lockdown. Nell’industria invece, dove l’impatto della crisi in Svizzera si è fatto meno sentire, sono gli uomini ad essere in maggioranza.
Inoltre, le donne si sono assunte una quota maggiore delle cure supplementari ai figli, rese necessarie dalle chiusure delle scuole e dalle messe in quarantena. Secondo un sondaggio commissionato dall’Ufficio federale per l’uguaglianza di genere, nel maggio 2020, il 37% delle madri (con figli sotto i 16 anni) dichiarava di avere ridotto le proprie attività lavorative a causa delle maggiori esigenze di cura dei figli, contro il 25% dei padri.
La recessione al femminile, fortunatamente, è stata di breve durata. Già a partire dall’estate dell’anno scorso, il tasso di occupazione ha recuperato il terreno perso, e ciò è avvenuto più velocemente per le donne che per gli uomini. Inoltre, il tasso di disoccupazione femminile è sempre stato inferiore a quello maschile. Nel complesso, il numero totale di ore lavorate retribuite è diminuito allo stesso modo per entrambi i sessi.
La «she-cession», anche se breve, ha messo in evidenza la reattività dell’impiego femminile alla (mancata) disponibilità di strutture di accoglienza. Ciò può essere interpretato in maniera negativa, quale un ulteriore espressione delle disparità tra i sessi. Ma mostra pure che incentivi fiscali adeguati – quali ad esempio maggiori deduzioni per le cure esterne o il passaggio all’imposizione individuale dei redditi – indurrebbero molte donne ad aumentare la loro partecipazione al mercato del lavoro.
Questo podcast è stato pubblicato il 20.09.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Negli ultimi anni, sono state numerose le denunce delle condizioni di lavoro di chi cerca di sbancare il lunario nella «gig economy» – l’economia dei lavoretti procurati su piattaforme online: consegne a domicilio, utilizzo della propria auto come servizio taxi, o riparazioni casalinghe svolte di volta in volta su richiesta di clienti. A queste preoccupazioni si sono aggiunte quelle per l’esternalizzazione di dipendenti, poi più o meno costretti a lavorare in subappalto per la stessa ditta. Tutti in coro a denunciare nuove modalità di lavoro «atipiche», caratterizzate da un’indipendenza fittizia e una sicurezza dell’impiego minima.
Ma quale è l’impatto effettivo di queste forme di impiego sull’occupazione in Svizzera? Per tentare di quantificare queste attività è utile guardare all’evoluzione dei cosiddetti lavoratori autonomi senza dipendenti, una categoria che appunto include i collaboratori freelance, ma anche i classici liberi professionisti.
Ebbene, un’analisi dei dati della Rilevazione sulle forze di lavoro (RIFOS) non trova alcuna conferma della maggiore prevalenza di forme d’impiego «non-standard» nel nostro paese. Al contrario, in Svizzera il lavoro autonomo sarebbe piuttosto in ritirata. Sebbene rispetto al 2001 si contino oggi 14 000 lavoratori autonomi in più, durante lo stesso periodo i salariati sono aumentati di oltre 760 000 unità. Vi è stato quindi un declino relativo del lavoro autonomo; declino che si registra in tutti i gruppi professionali.
E che ne è dei redditi? Con circa 48 franchi all’ora, il salario degli indipendenti autonomi è superiore alla media. Tuttavia, la distribuzione di questi redditi è ineguale: sono sovrarappresentati sia nelle fasce di reddito più basse che in quelle più elevate. Ciononostante, il 67% si dice molto soddisfatto del proprio lavoro. Solo il 6% non trova contentezza alla propria situazione lavorativa e preferirebbe passare ad un lavoro dipendente. Questo a riprova che il lavoro autonomo offre anche benefici non-monetari, quali l’indipendenza e flessibilità.
L’inchiesta mostra infine che i lavoratori autonomi senza dipendenti formano un gruppo molto eterogeneo. In questo senso, si tratta di una forma di lavoro davvero atipica. Riguardo ai numeri però, nelle statistiche dell’occupazione il boom della «gig economy» ancora non si vede.
Questo podcast è stato pubblicato il17.05.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
La pandemia da Coronavirus e i suoi effetti sul mercato del lavoro potrebbero aggravare la disoccupazione tecnologica? Secondo un recente sondaggio del World Economic Forum (WEF), l’80 percento delle grandi imprese prevede di accelerare a corto termine il processo di robotizzazione e automatizzazione. Quasi la metà di esse prevede che questo processo porterà alla soppressione di posti di lavoro. È forse ora di lanciare un’offensiva di formazione continua su larga scala anche nel nostro paese?
Penso bisogni rispondere a questi importanti interrogativi in maniera differenziata. Non è da ieri che il progresso tecnologico contribuisce a trasformare il mercato del lavoro svizzero. Basti osservare il cambiamento dei profili e dei curriculi richiesti e l’impennata della domanda di personale altamente qualificato. Se nel 1996 650 000 occupati esercitavano una professione accademica, nel 2019 erano già 1,25 milioni. Le categorie professionali con qualifiche intermedie hanno invece segnato una flessione, primi fra tutti gli artigiani. In linea generale, negli ultimi 25 anni le prospettive di carriera dei lavoratori con apprendistato professionale ma senza specializzazione di livello terziario sono peggiorate.
Eppure, tutti questi cambiamenti non hanno portato ha un aumento della disoccupazione. Questo lo si deve anche alla capacità degli occupati a formarsi e specializzarsi. In linea di principio, la Svizzera ha un’ottima offerta di formazione continua e un elevato tasso di adesione, per cui una promozione generale in tal senso non mi sembra necessaria.
La propensione alla formazione continua e allo studio informale dipende tuttavia molto dal livello di istruzione. Paradossalmente, maggiori già sono le qualifiche, più elevata è l’attività formativa. Insomma: chi già sa, vuole sapere di più. In questi termini, la postformazione non colma il divario educativo tra i gruppi, ma anzi lo esacerba. Così, determinate fasce di lavoratori non partecipano del tutto alla formazione permanente, mettendo in pericolo la loro impiegabilità a lungo termine. Questo segmento dovrebbe essere avvicinato in modo mirato alle opportunità di riqualifica.
Strumenti particolarmente adatti in tal senso sono i buoni di postformazione e i prestiti per le riqualificazioni di lunga durata. Altri strumenti invece, come le deduzioni fiscali delle spese per la formazione continua non si prestano a sostenere la riconversione professionale poiché vanno principalmente a vantaggio di persone con salari elevati, che peraltro non denotano carenze motivazionali in campo formativo.
Questo podcast è stato pubblicato il 03.05.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
La Svizzera fatica a integrare i rifugiati sul mercato del lavoro
Plusvalore
Le barriere al loro impiego rimangono elevate
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Marco Salvi
La Svizzera fatica a integrare i rifugiati sul mercato del lavoro
PlusvaloreLe barriere al loro impiego rimangono elevate
Con l’incedere della pandemia è diminuito ulteriormente il numero di richieste d’asilo in Svizzera. Mentre nel 2016 si contavano quasi 40’000 nuove richieste, l’anno scorso esse sono state poco più di 10’000. Dal punto di vista politico, il tema– sul quale negli ultimi duedecennielettrici ed elettori sono stati chiamati a votare ben una dozzina di volte – non è più prioritario.
Eppure, molte sfide rimangono. Fra le più importanti vi è quella dell’integrazione dei rifugiati sul mercato del lavoro. Se in confronto internazionale il mercato del lavoro svizzero è tradizionalmente tra i migliori per quanto riguarda il tasso di occupazione, non si può dirne altrettanto per quello dei rifugiati, una categoria a dire il vero molto eterogeneache inglobarichiedenti l’asilo, persone ammesse a titolo provvisorio e rifugiati riconosciuti.
Le cifre disponibili sono lacunose e i confronti difficili, ma si stima che il tasso di occupazione dei rifugiati raggiungerebbe il 20% tre anni dopo l’entrata nel paese, e si attesterebbe dopo dieci anni di soggiornotra il 30% e il 60%a dipendenza della categoria. Ciò contrasta sia con il tasso d’occupazione dei residenti (tuttora superiore all’80%), che con rilievi fatti in altri paesi. In Germania, ad esempio, il tasso di occupazione dopo dieci anni è quasi alla pari con la popolazione residente. In Canada, dopo solo un anno dall’entrata nel paese, 50% dei rifugiati ha un posto di lavoro.
Come mai questi risultati tutto sommato deludenti? Di recentealcuni economisti svizzeri hanno cercato di accertarne empiricamentele cause. Tra i fattori determinanti,essi rivelanoi limiti posti dalla legge alla mobilità intercantonale dei rifugiati,la durata delle procedure – fonte d’incertezze per i potenziali datori di lavoro –e i meccanismi che assegnano in modo aleatorio i rifugiati ai cantoni, meccanismi che non tengono conto di affinità linguistiche o professionali preesistenti. Le differenze tra i cantoni nelle prestazioni dell’aiuto socialee nelle misure d’integrazione avrebbero invece un impatto trascurabile sull’occupazione. Rimane invece ancora tutto da studiare l’impatto creato dall’introduzione di salari minimi obbligatori o l’ampliamento dei contratti collettivi di lavoro sulle prospettive d’impiego dei rifugiati. L’ipotesi che questi meccanismi per nulla favoriscano l’integrazione sul mercato del lavoro, creando invece ulteriori barriere all’impiegodei rifugiati, non mi pare però strampalata.
Questo podcast è stato pubblicato il 11.01.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.