Da decenni la migrazione svetta tra le tematiche dominanti del dibattito politico, non solo in Svizzera, bensì a livello planetario. Spesso è l’arrivo di rifugiati a monopolizzare la discussione, anche se sul lungo periodo rappresentano soltanto un piccolo frammento della migrazione vera e propria. I flussi migratori per cause economiche sono molto più significativi, ad esempio gli spostamenti di lavoratori nel quadro della libera circolazione delle persone tra i Paesi membri dell’UE, come pure gli Stati che hanno aderito all’Accordo – fra i quali figura anche la Svizzera – o la migrazione di persone in cerca di lavoro dai cosiddetti Paesi terzi (vale a dire da Stati con cui non è stato sottoscritto nessun Accordo sulla migrazione di forze lavoro). Anche l’immigrazione nel sistema formativo (di solito verso le università) figura come migrazione per ragioni economiche, che dopo l’ottenimento del diploma o della laurea può sfociare anche in una permanenza definitiva.

Dal punto di vista statistico la Svizzera si presenta come una terra d’immigrazione da manuale. Oltre un abitante su quattro non è nato su suolo elvetico: un valore da record nel raffronto europeo. La quota di residenti senza passaporto rossocrociato equivale al 25 per cento circa. Parlare della Svizzera come del «melting pot» d’Europa non sarebbe quindi un’esagerazione. Questa caratteristica in passato ha permesso di innalzare notevolmente il potenziale produttivo e con esso il livello di benessere.

L’importanza dell’immigrazione nel mercato del lavoro aumenterà ulteriormente in seguito ai cambiamenti demografici, come è facile dimostrare sulla base di un semplice indicatore: in Svizzera per 100 persone abili al lavoro in età compresa tra 50 e 59 anni si contano soltanto 68,9 bambini e ragazzi tra i 10 e i 19 anni. Queste cifre lasciano chiaramente intravvedere la futura carenza di popolazione attiva, anche se l’andamento reale dipenderà dall’età di pensionamento effettiva. In ogni caso non sarà la tanto declamata mobilitazione del potenziale lavorativo interno a colmarla.

Politica migratoria svizzera «conservativa»

Malgrado il forte afflusso, sinora non si può certo affermare che con la sua politica migratoria la Svizzera abbia realmente sconfinato… Sostanzialmente si adopera affinché la domanda del mercato del lavoro possa essere soddisfatta con l’arrivo di persone dai Paesi dell’UE. L’immigrazione da Stati terzi è invece regolamentata in maniera restrittiva, e al riguardo la sanno lunga tutte le aziende cui è già capitato di voler impiegare qualcuno proveniente da tali Paesi. Innanzitutto i contingenti definiti annualmente dal Consiglio federale sono alquanto limitati e vengono assegnati dai cantoni alle imprese che ne fanno richiesta, sempre che nel corso dell’anno ne dispongano ancora. Altrimenti vige il principio ferreo della precedenza per i lavoratori svizzeri e provenienti dai Paesi dell’UE. In altre parole, le aziende coinvolte devono comprovare di non trovare forze lavoro adeguate nel rispettivo mercato, anche se per alcuni settori (ad esempio i cuochi di sushi) si fanno delle eccezioni. E se il possesso di sufficienti qualifiche e mezzi finanziari spalanca le porte di ogni ateneo a prescindere dalla cittadinanza, l’ottenimento di un titolo di studio non equivale affatto a un diritto di permanenza. A seconda del cantone e dell’università gli studenti stranieri pagano rette superiori ai coetanei indigenti, ma tirando le somme vengono comunque sostenuti massicciamente sia dalla Confederazione che dai Cantoni. Sembra quindi un paradosso che i cittadini di Paesi terzi che hanno ottenuto un titolo universitario in Svizzera non abbiamo automaticamente accesso al mercato interno del lavoro.

Uno sguardo al passato mostra inoltre che in periodi di forte immigrazione e conseguente, elevata pressione politica, il Consiglio federale ha optato per un’ulteriore riduzione dei già scarsi contingenti per il reclutamento da Paesi terzi. Il carattere simbolico è stato innegabile, ma gli effetti sull’immigrazione netta sono stati percepiti appena. Le aziende interessate si sono così trovate nell’impossibilità o quasi di assumere gli specialisti necessari (spesso in un campo molto ristretto). Va inoltre aggiunto che comprovare la necessità di un lavoratore di uno Stato terzo comporta costi burocratici e un dispendio di tempo che induce specialmente le PMI a desistere.

Bild kommt (mit CaS)

Alla luce del crescente grado di specializzazione in numerosi settori dell’economia, l’atteggiamento della Svizzera nei confronti dei cittadini di Paesi terzi risulta del tutto anacronistico. Oltretutto, l’assunto di base della politica migratoria svizzera, secondo cui è possibile soddisfare le esigenze del mercato del lavoro con l’immigrazione dall’area Euro, sta barcollando. Infatti i mutamenti demografici non colpiscono soltanto la Svizzera, ma tutti i Paesi dell’Unione europea, che assisteranno a una contrazione del pool di lavoratori specializzati. Grazie al suo elevato livello di benessere la Svizzera dovrebbe riuscire ad attirare forze lavoro qualificate dai Paesi dell’UE anche in futuro, ma il divario con i vicini è destinato ad assottigliarsi. La domanda di lavoratori specializzati aumenterà massicciamente proprio nei Paesi membri dell’UE, che rivaleggeranno in competizione con la Svizzera per conquistarseli. A medio e lungo termine l‘immigrazione nel quadro della libera circolazione delle persone regredirà notevolmente, motivando un ripensamento sul piano politico della strategia migratoria.

Vista l’enorme richiesta, perlomeno a breve termine andrebbe preso in considerazione un allargamento dei contingenti o almeno una semplificazione della prova di necessità per i cittadini di Paesi terzi. Inoltre, i laureati di Paesi non appartenenti all’UE dovrebbero avere la possibilità, almeno per un periodo limitato, di cercare lavoro in Svizzera e ottenere quindi un permesso di domicilio affrancato dal contingentamento.

Migranti in fuga: un fatto, non una soluzione

Vien da chiedersi se un riorientamento specifico della politica di migrazione sia assolutamente necessario. Una cosa è certa: nei prossimi anni se non decenni la pressione migratoria dall’emisfero meridionale non accennerà a diminuire poiché le disparità sul piano del benessere rimarranno enormi anche se i Paesi interessati progrediranno in modo soddisfacente. Sarà dunque possibile colmare almeno parte della lacuna cui si accennava in precedenza? Due ragioni suffragano una risposta negativa: in primo luogo, come già esposto in apertura, i rifugiati rappresentano una parte irrisoria della migrazione in tutte le sue forme. Gli anni con un’elevata affluenza di rifugiati come il 2015 e il 2016 distorcono forse il quadro generale nell’opinione pubblica, che d’altronde paga ancora lo scotto dell’esperienza avuta con l’enorme esodo di persone durante le due guerre di Jugoslavia (quando ha dovuto far fronte al maggior afflusso in tutta Europa). In secondo luogo, i rifugiati normalmente non dispongono delle qualifiche richieste per potersi imporre sul mercato delle forze lavoro specializzate. La maggior parte ha una formazione di basso livello e una riqualificazione ad un livello sufficiente (inteso come contributo alla penuria di specialisti) è solitamente difficile, se non impossibile.

Ciononostante la riqualificazione dei rifugiati è indispensabile, essendo la premessa per accedere a un impiego sul mercato principale del lavoro, che a sua volta rappresenta la chiave per l’integrazione nella società. La partecipazione al mercato del lavoro facilita enormemente la creazione di reti sociali al di fuori della propria comunità d’appartenenza e la graduale comprensione di una delle nostre lingue nazionali con tutte le sue sfumature. Il sistema svizzero di formazione professionale offre in sostanza gli strumenti necessari per inserirsi nel mondo del lavoro. Partendo dai consolidati apprendistati con certificato di formazione pratica – rivolti appunto a persone con un bagaglio scolastico limitato – e grazie alle esperienze raccolte con i pretirocini integrativi attualmente sostenuti dalla Confederazione si potrebbero modellare e istituzionalizzare tirocini appositi per rifugiati. Rispetto agli altri percorsi, inizialmente punterebbero di più sull’aspetto scolastico, in modo da permettere di assimilare soprattutto la lingua nazionale rilevante, dopodiché si dedicherebbe molto tempo alla pratica. L’importante è che un simile tirocinio sia interessante anche per l‘impresa formatrice, vale a dire durare sufficientemente a lungo per permetterle di trarre profitto dalla persona in formazione e dal suo apporto alla produzione, perlomeno nell’ultimo terzo dell’apprendistato. La durata è di centrale importanza poiché un rifugiato tirocinante sarebbe probabilmente più vecchio di un apprendista regolare e si correrebbe così il rischio di ridurre il tirocinio per raggiungere il più velocemente possibile l’autonomia dallo Stato. Con un tirocinio troppo breve si otterrebbe però esattamente il contrario.

Effettivamente una flessibilizzazione del mercato del lavoro sarebbe centrale per l‘integrazione dei rifugiati nelle sue strutture. Con le «misure accompagnatorie» le restrizioni del mercato del lavoro sono state inasprite, specialmente per il settore a basso reddito. Un esempio su tutti è il conferimento semplificato del carattere obbligatorio generale ai contratti collettivi di lavoro (CCL), all’origine di un innalzamento dei salari minimi settoriali. Il graduale allargamento della libera circolazione delle persone ai nuovi Paesi dell’UE tra il 2006 e il 2017 è coinciso con un ulteriore inasprimento delle «misure accompagnatorie». Visto che la produttività dei rifugiati, perlomeno all’inizio, è relativamente bassa (soprattutto anche a causa della barriera linguistica) i salari minimi e altre regolamentazioni sono d’ostacolo al loro accesso al mercato del lavoro. La possibilità di applicare delle eccezioni temporanee alle restrizioni imposte dal CCL potrebbe agevolare sensibilmente la loro integrazione nel mercato del lavoro.

La Svizzera rimarrà (e deve rimanere) una terra d’immigrazione

La Svizzera come terra d’immigrazione è la storia di un successo, anche se molti cittadini classificherebbero solo a malincuore la propria patria in questi termini. È un dato di fatto che a livello economico la Svizzera ha tratto enormi vantaggi dall’immigrazione – in particolare nel quadro della libera circolazione – senza peraltro aver accusato gravi effetti collaterali. La quota di persone occupate titolari di un passaporto UE equivale ad esempio a quella degli indigeni, la percentuale di laureati è addirittura leggermente superiore. Visto che a lungo termine il principio della libera circolazione circoscritta all’area UE non sarà in grado di soddisfare la domanda di forza lavoro vien da chiedersi – in una prospettiva più remota – come la Svizzera intenda definire i propri confini nei confronti della migrazione del lavoro da Paesi terzi. Forse estendendo la libera circolazione anche ad essi? In tal caso l’entrata nel mercato del lavoro dipenderebbe soltanto da un contratto di lavoro. Oppure bisognerebbe prendere spunto dal sistema anglosassone e optare per un accesso selettivo? Come in Canada, con gli opportuni requisiti (di solito sulla base di un sistema a punti) si potrebbe così iniziare la ricerca di un impiego. Oppure rimaniamo fedeli all’attuale sistema di contingentamento con la prova della necessità? La necessità ulteriore dovrebbe essere soddisfatta con un aumento dei contingenti, che manco a dirlo scatenerebbe regolarmente discussioni politiche. Per fronteggiare le sfide di un futuro connesso e febbrile l’ultima variante sembra la meno promettente. Ragione sufficiente per iniziare a riflettere sulle alternative.

Il presente testo è stato pubblicato per la prima volta in lingua tedesca nell’allegato di giugno alla rivista specialistica «Schweizer Monat». Con il titolo «Abbattere le frontiere!» ci interroghiamo su come superare le fasi di stallo in politica, economia e cultura.