Il protezionismo va di moda, non soltanto in ambito commerciale, ma anche negli investimenti diretti esteri, che sono oggetto di sguardi sempre più critici. In Svizzera, ad esempio, chiamando in causa la «sicurezza nazionale» si chiede l’istituzione di un sistema di controlli statali. Anziché prendere decisioni autonome, le imprese dovrebbero dapprima attendere le delibere di autorità preposte. Questa tendenza alla rinazionalizzazione in termini di politica economica è in parte motivata dall’aumento di attività d’investimento da parte della Cina. L’analisi dei dati attuali mostra tuttavia che a fine 2016 la parte del leone degli investimenti in aziende rossocrociate era ascrivibile all’Europa occidentale (60%) nonché a Stati Uniti e Canada (24%). I proprietari dell’area asiatica arrivavano al 12%, e il 3% soltanto di tutte le transazioni effettuate dal 2014 al 2017 era riconducibile ad imprese cinesi.

I controlli sugli investimenti non sono efficaci

All’estero, parecchi paesi hanno introdotto questo tipo di controlli, ma la loro efficacia è contestata: gli organi di controllo sono raramente indipendenti e possono rappresentare una scorciatoia per attività di lobbying. I costi generati da un’autorità svizzera di screening sarebbero invece ingenti. Se la Svizzera avesse introdotto le regole discusse attualmente a livello europeo, nel biennio 2016- 2017 si sarebbero dovute controllare non meno di 180 acquisizioni estere (ovvero il 46%). Va inoltre ricordato che già oggi l’accesso per gli investimenti esteri al mercato svizzero è lungi dall’essere «privo di barriere» e che già esistono meccanismi di salvaguardia. Ad esempio lo Stato si arroga in qualsiasi momento il diritto di espropriazione per ragioni di sicurezza nazionale, e per quanto riguarda il suo carattere restrittivo, la Lex Koller non ha assolutamente rivali sul piano internazionale.

Salvaguardare la libera concorrenza

È invece corretto affermare che gl’investimenti diretti esteri sono un motore determinante per la nostra prosperità. Aumentati del fattore 24 dal 1985 ad oggi, hanno permesso alla Svizzera di avanzare per importanza al quarto posto come piazza d’investimento dei Paesi dell’OCSE. Visto che spesso gl’investimenti diretti esteri interessano aziende innovative, essi contribuiscono in larga misura ad incrementare la produttività, l’occupazione e il gettito fiscale. Considerato che il flusso di capitali, tecnologie e imprenditorialità al di là dei confini nazionali è un elemento imprescindibile del nostro ordinamento economico, bisognerebbe favorire e non reprimere l’apertura del Paese verso gl’investitori stranieri.

I pericoli conseguenti allo spionaggio industriale e alla violazione della proprietà intellettuale non vanno ignorate. La nazionalità degli investitori è tuttavia un fattore troppo impreciso di minaccia, anche se il raggiungimento di un «level playing field» con l’estero – non da ultimo con la Cina – è un obiettivo auspicabile. Più concreti invece sono i rischi legati alle concentrazioni aziendali in seguito all’acquisto. Avenir Suisse si batte pertanto per un rafforzamento dei controlli anticartellistici – finora poco efficaci – sulle manovre di fusione.