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Non servono comissioni per decidere dell'opportunità di investimenti esteri
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Marco Salvi
Quando sbarcano i cinesi
Plusvalore, PodcastNon servono comissioni per decidere dell'opportunità di investimenti esteri
È notizia di qualche giorno fa: la Bally, già prestigioso marchio della calzatura svizzera, dopo numerosi travagli e cambiamenti di proprietari, è stata acquistata da investitori cinesi. Non si tratta di un caso isolato: la stessa sorte è toccata di recente a Swissport, Gategroup e Syngenta. Quest’ultima rimane addirittura la più importante acquisizione di una ditta estera da parte di investitori cinesi.
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Che ditte «tipicamente» svizzere passino in controllo estero non è certo una novità. L’82% del capitale delle imprese quotate alla borsa elvetica è in mano straniera. Secondo la Banca Nazionale, gli investimenti esteri nel nostro paese raggiungerebbero oramai i 1000 miliardi di franchi. La parte degli investitori cinesi, benché in crescita, rimane marginale.
Gli investimenti dalla Cina creano però un problema supplementare: gli acquirenti sono spesso ditte controllate in maniera più o meno diretta dallo stato cinese. Lo stesso stato non esita a bloccare investimenti simili in Cina, dichiarando numerosi settori di interesse strategico – e quindi «off limits» per investitori svizzeri. Così viene a mancare un importante elemento di reciprocità.
Per rimediare a questa asimmetria, c’è chi da noi richiede maggiore regolamentazione, con l’introduzione di una commissione che giudicherebbe dell’opportunità di tali acquisizioni, valutando criteri di politica industriale e di difesa nazionale. Meccanismi simili esistono negli Stati Uniti e in vari paesi dell’UE.
Questa idea va però respinta. Infatti, analisi empiriche dei meccanismi in vigore all’estero mostrano che in ambito di investimenti industriali, il primato della politica ha un effetto deleterio sulle valutazioni di tutte le imprese di un settore, anche quelle che non sono target di scalate.
Del resto, paradossalmente, la Svizzera è già tra i paesi più restrittivi in materia. Investimenti in cosiddette infrastrutture di base, dall’acqua potabile all’energia, sono riservati a investitori rossocrociati – o allo stato. Non è oggi il caso di chiuderci a riccio. Meglio fare pressione a livello internazionale su una maggiore apertura del mercato cinese. In fondo, è proprio così che funziona la globalizzazione.
Marco Salvi
La Grande Convergenza
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Una convergenza si nota anche a livello mondiale, anche se – è quasi inutile ricordarlo – sussistono ancora profondi divari tra le nazioni.
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Marco Salvi
La Grande Convergenza
Plusvalore, PodcastUna convergenza si nota anche a livello mondiale, anche se – è quasi inutile ricordarlo – sussistono ancora profondi divari tra le nazioni.
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I primi esseri umani anatomicamente moderni sono apparsi 200’000 anni fa; il linguaggio articolato risale a 50’000 anni fa, l’agricoltura a 10’000. A confronto con queste pietre miliari dello sviluppo umano, il processo di crescita economica è invece recentissimo: esso si è innescato solo 200 anni fa in alcune regioni dell’Europa occidentale e in Nord America. Prima del XIX secolo la stragrande maggioranza della popolazione mondiale viveva al minimo livello di sussistenza.
Benché la crescita economica sia un fenomeno recente, profonde divergenze tra i paesi sono apparse ben prima che gli uffici di statistica iniziassero a monitorare sistematicamente l’evoluzione dei redditi. Utilizzando stime desunte da svariate fonti storiche, economisti stanno però ricostruendo a poco a poco quest’aspetto importante del passato dell’umanità. Nuove misure pubblicate la settimana scorsa dall’Università di Groningen in Olanda, forniscono un quadro affidabile, risalente fino al 1870.
Da questi dati risulta che 150 anni fa Regno Unito e Stati Uniti erano chiaramente le due nazioni più ricche, con un reddito pari a circa 2700 dollari all’anno per persona. Con un distacco di circa 30% seguivano paesi dell’Europa nordoccidentale, tra i quali Germania, Francia e Svizzera – a riprova che già allora il nostro paese era tra i più benestanti al mondo. Livelli di reddito comparabili si registravano pure in Argentina e Uruguay.
I nuovi dati mostrano anche come gli Stati Uniti siano sempre riusciti a rimanere in vetta alla classifica del reddito. Dal 1870 a oggi il reddito dell’americano medio è stato moltiplicato per 18 in termini reali. Il distacco con la seconda regione più ricca, l’Europa occidentale, ha raggiunto un picco nel 1950, subito dopo la Seconda guerra mondiale. Da allora le differenze di reddito vanno calando.
Una convergenza si nota anche a livello mondiale, anche se – è quasi inutile ricordarlo – sussistono ancora profondi divari tra le nazioni. In media però, i paesi poveri crescono più rapidamente di quelli ricchi. Se la globalizzazione non rallenterà, si stima che ci vorranno ancora 35 anni per che si dimezzino le differenze di reddito a livello planetario. A voi decidere se la bottiglia è mezza vuota o mezza piena.
Marco Salvi
Tassare di più le multinazionali per alleviare la povertà nel mondo?
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Ma sarebbe un grave errore puntare solo su multinazionali carta…
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Marco Salvi
Tassare di più le multinazionali per alleviare la povertà nel mondo?
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Da anni l’attività fiscale delle imprese multinazionali è al centro dell’attenzione delle autorità fiscali di numerosi paesi. Rivelazioni quali i Lux Leaks, i Panama Papers o, più recentemente, i Paradise Papers hanno messo ulteriormente sotto pressione sia multinazionali che governi. In parte dell’opinione pubblica e tra numerosi attori della società civile, quali ONG e chiese, vi è oramai la ferma impressione che nei paesi in via di sviluppo i profitti delle imprese transnazionali sfuggano quasi totalmente al fisco. Tanto che ne basterebbe la corretta imposizione per mobilitare tutte le risorse di cui questi paesi hanno bisogno per raggiungere i principali obiettivi di sviluppo.
Ma, aldilà della legittimità o meno di tali pratiche di ottimizzazione fiscale – nelle quali, fra l’altro, la Svizzera gioca un ruolo di primo piano -, è possibile quantificare con precisione l’impatto reale nei paesi più poveri del cosiddetto BEPS, ovvero delle strategie delle imprese per erodere la base imponibile?
Secondo le analisi ufficiali effettuate dall’OCSE la perdita di gettito annuale si aggirerebbe tra i 100 e i 240 miliardi di dollari a livello mondiale. Certo, si tratta di un bel gruzzolo. Esso rappresenta però solo dal 4% al 10% delle entrate derivanti dalle imposte sui redditi delle società – e nemmeno l’1% dell’insieme delle entrate fiscali statali.
Inoltre, la stragrande maggioranza di queste mancate entrate non incide sui budget dei paesi poveri, ma bensì di quelli ricchi, primi fra tutti su quello cronicamente deficitario degli Stati Uniti. Nuovi studi indicano che ben un quarto di tutte le perdite di gettito dovute al BEPS andrebbero a scapito dell’erario degli Stati Uniti.
La ragione è semplice: la stragrande maggioranza degli scambi commerciali internazionali avviene ancora tra paesi già industrializzati, non tra quelli ricchi e quelli poveri. Così il commercio tra l’Africa e resto del mondo non rappresenta che 3% degli scambi globali. Vi è quindi poco da «ottimizzare». Del resto, secondo stime della Banca Mondiale, nei paesi più poveri le multinazionali generano in media già il 10% del gettito, mentre nei paesi industrializzati solo il 5% delle entrate è dovuto a questo tipo d’imprese. Grosse differenze invece si riscontrano a livello di tassazione dei redditi delle persone fisiche, specie di quelle più ricche e degli indipendenti, che nei paesi poveri o in via di sviluppo spesso riescono ad evadere il fisco in tutta impunità.
Di fronte ai bisogni ingenti dei paesi più poveri, un aumento anche sostanziale delle imposte pagate dalle multinazionali avrebbe un impatto solo marginale sulla capacità di questi paesi a finanziare il loro sviluppo. Ciò non vuol dire che bisogna abbandonare ogni tentativo di riforma della fiscalità transnazionale. Anzi, vanno sostenute iniziative come quelle dell’OCSE, miranti a contrastare le politiche di pianificazione fiscale aggressiva di certe multinazionali. Ma sarebbe un grave errore puntare solo su questa carta per risolvere i problemi urgenti delle nazioni in via di sviluppo. Solo una solida e duratura crescita economica potrà eradicare la povertà.
Marco Salvi
Un PIL da prendere con le pinzette
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Per misurare le differenze di benessere tra paesi spesso viene…
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Per misurare le differenze di benessere tra paesi spesso viene consultato il PIL per abitante (Prodotto interno lordo), una statistica che misura il valore della produzione creata durante un anno. Da qualche tempo il PIL per abitante viene calcolato regolarmente per tutti i cantoni svizzeri. Ebbene, con 80’000 Franchi all’anno, quello ticinese è fra i più alti: nel 2014 solo sei cantoni facevano meglio. Certo, gli 80’000 Franchi del Ticino sono sempre poca cosa rispetto ai 163’000 del capolista Basilea Città, ma è pur sempre molto di più del fanalino di coda Uri, a quota 51’000 Franchi.
Sarebbe tuttavia affrettato dedurre da questi dati che il Ticino è un cantone più «produttivo» o più ricco della media svizzera. Il PIL per abitante ticinese non può fungere da indicatore della produttività e del benessere dei ticinesi per il semplice motivo che il mercato del lavoro vi è costituito per più di un quarto da frontalieri non-residenti. Poiché questi trasferiscono le rispettive entrate in Italia, vi è in Ticino una differenza notevole fra il valore della produzione attestato dal PIL e il reddito dei residenti.
Meglio quindi prendere il valore aggiunto per ora effettiva di lavoro.
Con 79 Franchi all’ora il Ticino si colloca nella metà inferiore delle principali regioni. Peggio ancora: la crescita marcia sul posto: dal 2008 al 2014 la produttività è cresciuta di un esiguo 0,5 %. La Svizzera orientale, al contrario, nello stesso lasso di tempo ha registrato un incremento della produttività dieci volte superiore.
Non stupisce quindi se, a contrario del PIL, il reddito a disposizione delle famiglie ticinesi sia inferiore alle altre regioni della Svizzera. Rispetto a Zurigo, la regione più ricca, il gap raggiunge un buon 15 Percento. Ma anche questa differenza negativa va interpretata con cautela: secondo uno studio dell’USI, quasi due terzi del divario spariscono se si tiene conto delle differenze di prezzo esistenti. Ad esempio, a sud delle Alpi il livello medio degli affitti è notevolmente inferiore.
Ricapitoliamo. Rispetto alla media nazionale, in Ticino il livello della produttività è minore, cosi come lo sono i redditi – ma non lo è necessariamente quello del benessere perché i consumi costano meno. E se si tenesse conto anche del valore del bel tempo, rimarrebbero poche ragioni per invidiare il livello di vita dei cari zurighesi.
Marco Salvi
I robot sono dappertutto, fuorché nelle statistiche
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L’andamento recente delle diverse misure di produttività non segnala cambiamenti…
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Marco Salvi
I robot sono dappertutto, fuorché nelle statistiche
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L’uscita roboante – è il caso di dirlo – di «Blade Runner 2049» nei cinema di mezzo mondo mi sembra un pretesto sufficiente per riparlare di tecnologia. Motivo centrale del film è la somiglianza tra umani e macchine, quest’ultime oramai in grado anche di procreare. Ad appena 32 anni da questa data fatidica, è forse già possibile rilevare l’impatto di robot, intelligenza artificiale o digitalizzazione che dir si voglia sulla nostra realtà economica?
Per gli economisti, la produttività è la misura statistica più adatta per rispondere a questa domanda. Essa valuta il rapporto tra il valore dei beni creati e le quantità di lavoro o capitale impiegate nella loro produzione. Un’accelerazione del progresso tecnologico alla «Blade Runner» dovrebbe necessariamente essere accompagnata da un forte aumento della produttività del lavoro, con un numero minore di impiegati umani in grado di generare il valore aggiunto attuale. In fondo, è proprio per questo che si costruiscono macchine.
Ebbene, l’andamento recente delle diverse misure di produttività non segnala cambiamenti repentini delle strutture produttive. Anzi, in Svizzera la produttività del lavoro ristagna. Secondo dati del Seco, essa è aumentata fra il 2007 e il 2015 soltanto dello 0,2 percento all’anno, ben al di sotto dei 1,5 percento dei due decenni precedenti. Questo pattern si osserva in tutte le economie più avanzate. Il rallentamento è particolarmente forte se paragonato ai tassi di crescita del XIX secolo o delle «Trente Glorieuses» (1946-1975). In termini di produttività, la Rivoluzione industriale 4.0 sarebbe quindi molto meno rivoluzionaria di quelle precedenti.
Questo fenomeno interroga gli economisti. Per gli uni, esso si spiegherebbe con i costi sempre più elevati dell’innovazione. Se negli anni Settanta erano bastati a Steve Jobs un garage e un tocco di genio per rivoluzionare il settore dei personal computers, oggi cambiamenti di simile levatura richiedono un esercito di costosi ricercatori, avvocati e specialisti del marketing. Secondo altri esperti invece, innovazioni fondamentali come Internet o i Big data non avrebbero ancora permeato in profondità tutti i settori dell’economia. Non sarebbe quindi che una questione di tempo per vederne l’effetto anche sulla produttività. Ma vi è anche chi – alla luce delle statistiche – mette in dubbio la portata effettiva di queste innovazioni tecnologiche che tanto nuove non sarebbero. Per intenderci: Se rapportate a invenzioni come il telefono o il computer, i Big data somigliano un po’ al sequel di un film di successo.
Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 6 novembre 2017 del programma «Plusvalore».
Per gentile concessione di «RSI Rete due».