Politicamente parlando, due anni fa la Francia era in un vicolo cieco. François Hollande dava un’immagine mesta di Presidente. In una rara combinazione di goffaggine e sconvenienza aveva saputo danneggiare non solo il suo retaggio, bensì pure il partito socialistica e l’intera compagine politica. Sul piano economico l’Esagono sembrava diretto verso la recessione. E a buona ragione: la spesa pubblica era l’unica grandezza a registrare un aumento. La produttività era ferma al palo, utili aziendali e investimenti si assottigliavano, il tasso di disoccupazione aveva superato il 10 per cento, un giovane su quattro non trovava lavoro. Nella popolazione l’amarezza era tangibile; la populista di destra Marine Le Pen faceva già le prove generali per la sua entrata all’Eliseo.

Poi le cose hanno preso un’altra piega. L’allora ministro dell’economia Emmanuel Macron ha intravisto nella crisi una cosiddetta «window of opportunity» e non se l’è lasciata sfuggire. Abbandonato il capo dello Stato sull’orlo del baratro, ha fondato il suo movimento, ridotto in frantumi il centro, cancellato dallo schermo un’incompetente Marine Le Pen in un duello televisivo rivelatosi poi decisivo e infine è diventato Presidente, guadagnandosi subito l’appellativo di «Jupiter», mediante il quale i suoi detrattori non potrebbero lodarlo meglio. Nel frattempo è fuori dubbio che Macron non soltanto ha sfruttato la propria opportunità personale di carriera, ma continua ad aprire nuove brecce per promuovere riforme incisive e cruciali per il Paese. Con un’eccezionale rapidità ha trasformato la Francia in un enorme cantiere. Deregolamentare il mercato del lavoro? Esautorare i sindacati? Dare un nuovo volto alla sicurezza sociale? Rinnovare il sistema educativo? Dare spolvero alla fiscalità delle imprese e incentivare la competitività? Rinsaldare l’asse franco-tedesco e ridare slancio all’Unione europea? Per tutto questo ha già dato luce verde, e in serbo ha innumerevoli altri progetti.

Macron non soltanto ha sfruttato la propria opportunità personale di carriera, ma continua ad aprire nuove brecce per promuovere riforme incisive e cruciali per il Paese. (Wikimedia Commons)

Macron non riuscirà a centrare tutti i suoi obiettivi. E non mancano inoltre le ragioni per guardare alla sua agenda e al suo stile politico con una certa preoccupazione: il suo statalismo tecnocratico, la sua arringa per un’ulteriore armonizzazione in Europa, il suo atteggiamento insofferente e poco aperto nei confronti della stampa. Eppure, questa presidenza è il meglio che potesse capitare a una Francia claudicante. E che sia effettivamente successo non è né un miracolo né un’ovvietà. Con il senno di poi è sempre facile spiegare perché si sia aperta la prima finestra di opportunità che bisognava cogliere al volo, ma difficilmente una simile trama di influssi socio-politici può essere intessuta a priori in maniera razionale e deliberata.

Sul pianto dell’offerta questo particolare momento ha visto la sua origine nell’intelligenza tattica dell‘«imprenditore politico» Macron. Sul fronte della domanda si è invece nutrito del «ras le bol» della popolazione, vale a dire della sensazione di aver superato i limiti del sopportabile. Concretamente, le ragioni spaziano da un malcontento maturato per decenni nei confronti di un sistema politico disfunzionale e screditato a livello personale, alla stagnazione economica accompagnata dall’impoverimento del ceto medio, fino all’umiliazione dovuta alla perdita di importanza geopolitica del Paese e alla costante minaccia del terrorismo. Formulato in maniera grossolana: il carro era così impantanato da riuscire a provocare la reazione della società.

Una boccata d’aria fresca!
Proprio in una situazione così intricata a volte si assiste da parte della collettività al superamento del «dilemma del prigioniero», vale a dire della disastrosa situazione di ipotetici tornaconti in cui le riforme sono bloccate dagli interessi individuali, sebbene la loro attuazione comporterebbe degli indubbi vantaggi per tutti. «Sotto il giogo della necessità ognuno china docilmente il capo», scriveva il filosofo tedesco Wilhelm von Humboldt alla fine del XVIII secolo nella sua opera «I limiti dell’attività dello Stato». Interpretava il «principio di necessità» – a differenza della mera utilità (potenziale) – essenzialmente come un ferreo criterio di legittimazione generale per l’intervento dello Stato.

L‘attuale caso della Francia ben si presta allo studio e all’analisi al bivio tra teorie economiche e filosofia sociale. Le domande fondamentali di questo programma di ricerca sono: da dove proviene la ricchezza delle nazioni e come si sviluppano nella società le istituzioni di cui ha assolutamente bisogno? Alla prima ha già risposto nel XVIII secolo il filosofo morale scozzese Adam Smith, che viene considerato tra l’altro il padre fondatore della moderna economia. La ricchezza si basa sul principio della divisione del lavoro e sull’incremento della produttività che ne deriva. Alla seconda stanno tuttora cercando di dare risposta soprattutto i sostenitori della moderna economia evolutiva e delle istituzioni.

Le istituzioni formali – costituzioni, leggi, norme, regolamentazioni – vengono impiantate scientemente sul terreno politico; quelle informali invece – regole che incanalano le azioni, usi e costumi, mentalità, convinzioni diffuse, il consenso fondamentale che la società ha sui suoi valori – si sviluppano in modo spontaneo. Eppure tra istituzioni formali e informali esiste uno stretto legame; le istituzioni formali si innestano su quelle informali. Dotare ad esempio uno Stato di una costituzione che non sia ancorata negli usi e supportata dalle convenzioni locali serve a ben poco; spesso viene semplicemente ignorata e genera conflitti che durano anni. Avvalorano questa tesi i casi in cui dopo una guerra le forze di occupazione (come gli Stati Uniti) hanno imposto a un Paese sconfitto (come l’Iraq) un sistema politico incompatibile con la sua cultura, con l’apparato normativo retto dalla tradizione e con il livello di sviluppo precedente il conflitto. Viceversa, la Storia insegna che molti tentativi riusciti di sfruttare una simile «ora zero» come finestra aperta alle opportunità e momento costituente sono invece attecchiti sul substrato preesistente, con particolare attenzione agli usi e ai costumi radicati e all’impianto legislativo originario. Due ottimi esempi sono la Germania e il Giappone dopo la seconda Guerra mondiale; ambedue poggiavano su una forte tradizione che ha potuto essere portata avanti sotto la guida degli Alleati.

La «path-dependence» e le sue insidie
Al di là dell’ora zero, nella normalità del quotidiano, la capacità di un Paese di ridefinirsi costantemente e adattare con delle riforme le proprie istituzioni formali alle mutate esigenze, dipende dalle preferenze e dalle convinzioni dei cittadini, espresse nelle votazioni e comunque manifestate anche nel dibattito pubblico: una sorta di «codice morale», come definito da Douglass C. North, storico dell’economia e massimo esponente della corrente istituzionalista, uno dei premi Nobel per l’economia del 1993. Queste convinzioni, linfa delle istituzioni informali, mutano con estrema lentezza. Nella loro evoluzione dipendono in larga misura, analogamente alle istituzioni formali, dal percorso tracciato in precedenza, ossia da scelte anteriori, che possono pertanto avere ripercussioni sia positive che negative. Gli effetti sono propizi ad esempio quando nelle strutture di pensiero mature si sviluppa un’etica commerciale che predispone il terreno ad un’economia di mercato basilare per il benessere collettivo. Si tratta delle virtù borghesi («bourgeois virtues») e della loro accettazione sociale generalizzata («bourgeois dignity»), di cui parlava l’eminente storica dell’economia Deirdre McCloskey, sostenendo che il loro sviluppo nei Paesi Bassi del XVIII secolo segnerebbe la nascita vera e propria del mondo moderno.

Dove mancano tali premesse la formazione di istituzioni adatte non è esclusa a priori, ma avviene in modo meno lineare. È la conseguenza di scossoni esterni del sistema economico o politico sufficientemente gravi da indurre il Governo, i consiglieri, le cerchie maggiormente influenti e la popolazione tutta a capire che le attuali istituzioni non adempiono più il loro scopo. Disattendere le aspettative in questo modo spalanca appunto una «finestra di opportunità» per rimodellare le convinzioni, che a loro volta potranno dare la stura a un adeguamento delle istituzioni formali. Nel migliore dei casi si giunge a un rafforzamento reciproco: l’adattamento delle convinzioni permette una riforma istituzionale il cui successo cementa le nuove convinzioni, che a loro volta promuovono un ulteriore miglioramento delle istituzioni, e così di seguito. Una simbiosi di questo genere può far scattare un cambiamento reale, generalizzato e che si autoalimenta.

Questo processo non può essere controllato o guidato con precisione, ma ci sono scenari e comportamenti che lo favoriscono. Trae ad esempio ampio beneficio dalla fermezza politica. Basta che lo scossone esterno chiami in causa eccellenti «imprenditori politici» come Macron, vale a dire personalità che si muovono come innovatori sul «mercato» della politica e scardinano il sistema incrostato e fallimentare con nuovi «prodotti» politici, ossia idee, narrazioni e metodologie. In analogia con i modelli imprenditoriali della teoria economica, sul mercato politico ci si può immaginare un pioniere alla Joseph Schumpeter, intrinsecamente motivato, posseduto dalla sua missione, dapprima sconvolgente per gli equilibri del sistema, ma fautore di un suo innalzamento qualitativo. Non deve forzatamente trattarsi di una persona singola, può essere anche un nuovo raggruppamento ideologico, un partito, un movimento, un think tank o un qualsiasi altro attore politico. Oppure si evoca un astuto arbitraggista politico come Israel Kirzner, incline piuttosto a stabilizzare il sistema, che individua nessi contenutistici e il loro potenziale politico, in un certo qual modo da sempre a disposizione di tutti, senza che nessuno li abbia mai messi a frutto. Ad Emmanuel Macron e a «La République en marche» si addice decisamente meglio il modello di Schumpeter.

Una leadership come quella interpretata dal Presidente francese presuppone in primo luogo una certa capacità cognitiva per poter individuare esattamente i passi falsi che hanno paralizzato il Paese e attuare le riforme atte a sbloccare la situazione. In secondo luogo, bisogna essere esperti coordinatori e persuadere un numero sufficiente di decisori ed elettori oppure animarli alla collaborazione, se necessario anche con degli accordi compensatori. Occorrono inoltre: buona adattabilità per affrontare gli imprevisti con creatività e trovare soluzioni; spiccata forza d’immaginazione per anticipare le mosse altrui in situazioni negoziali o conflittuali; e non da ultimo possedere un’autorità morale possibilmente incontestata. Ovviamente anche altri pregi possono essere utili, ad esempio una particolare sensibilità per il timing, pazienza, perseveranza, lungimiranza – e a livello personale anche una pelle bella dura. E a quanto pare, Macron li avrebbe tutti.
In aggiunta, bisogna vedere se l’imprenditore politico e i suoi consiglieri hanno il tatto di scegliere la strategia di comunicazione adeguata. In alcuni casi è preferibile presentare il proprio progetto con dovizia di particolari, corredarlo di fatti e renderlo plausibile razionalmente. In altri casi, invece, una figura politica si scava la fossa con le proprie mani se rende subito pubblico il proprio programma. A volte si raggiunge la meta con maggior facilità lasciando nell’ombra alcune pagine della propria agenda, in modo che non sia possibile risalire con certezza all’origine di alcune ripercussioni temporaneamente necessarie e dolorose della propria politica – anche solo per il fatto che chi vuole restare a galla e smuovere le acque deve evitare di diventare il bersaglio delle critiche.

Il politologo Nils Karlson ha definito «machiavellica» questa strategia – certo poco simpatica, ma spesso efficace – secondo l’opera di Niccolò Machiavelli, su cui si basano in fondo tutte le teorie politologiche sull’esercizio del potere. Oltre a un’intelligenza acuta essa presuppone un’innegabile predisposizione alla leadership, che la contraddistingue dalla strategia razionale e basata sui fatti di ispirazione «popperiana» – dal filosofo Karl Popper, studioso del progresso della conoscenza oggettiva e fautore di riforme costantemente rivedibili –, ma anche da quella legata ai nuovi costrutti della metacognizione «kuhniana», elaborata dallo storico e filosofo della scienza Thomas Kuhn, che ha descritto il processo di cambiamento improvviso di paradigma. Tuttavia, come scrive Karlson nel suo ultimo libro «Statecraft and Liberal Reform in Advanced Democracies», si tratta di strategie alla cui elaborazione e realizzazione può collaborare attivamente anche il mondo scientifico.

Qual è la strategia più appropriata?
A seconda della situazione e dell’interlocutore possono risultare adeguati approcci diversi, e a volte è addirittura necessario abbinarne alcuni, anche se con un simile mix si corre il rischio di inciampare in contraddizioni e perdere credibilità. Il Presidente francese siede al tavolo di questo gioco e, come possiamo notare, le sue mosse sono astute. Macron punta sull’informazione e con il suo Governo si adopera per chiarire gli obiettivi di ogni singola riforma. Ha inoltre creato una narrazione propria in grado di superare le spaccature della società, permettere una nuova coesione e animare i cittadini alla partecipazione politica. Ha diffuso lo slogan «En marche» al di là delle vecchie separazioni partitiche; esige il pluralismo e la virtù di sopportare i disaccordi («En même temps»); ha integrato nuove forme di partecipazione politica in rete facendo in tal modo il tentativo, tanto necessario quanto ambizioso, di intessere nel sistema gerarchico centralizzato della Francia anche quei processi di divulgazione spontanea della conoscenza, altrimenti appannaggio di strutture federali e movimenti popolari. Sembra quasi che Macron sia andato a leggere Humboldt: «Per dare avvio alla transizione dallo stato attuale a quello nuovo e appena deciso, è bene che ogni riforma, per quanto possibile, parta dalle idee e dalle riflessioni della gente.»

La Francia ha poco tempo, ma molto da perdere. Determinante sarà riuscire ad avviare un processo capace di autoalimentarsi. Solo se il consenso popolare conquistato da Macron nella primavera del 2017 sarà ricompensato da successi tangibili, soprattutto in campo economico, sarà confermata, rafforzata e cementata la convinzione necessaria per proseguire il lavoro di riforma delle istituzioni formali. A quanto pare lui ne è consapevole; come dimostrano la foga e l’urgenza nello spalancare il maggior numero di finestre possibile. Se queste nuove «windows of opportunity» si chiudono senza aver permesso di sfruttare in maniera produttiva le nuove prospettive, potrebbe passare molto tempo prima che qualcuno osi riaprirle.

Karen Horn è docente di storia delle idee economiche, autrice indipendente e redattrice capo nonché coeditrice della rivista «Perspektiven der Wirtschaftspolitik».

Il presente testo è stato pubblicato per la prima volta in lingua tedesca nell’allegato di giugno alla rivista specialistica «Schweizer Monat». Con il titolo «Abbattere le frontiere!» ci interroghiamo su come superare le fasi di stallo in politica, economia e cultura.