Privatizzazioni, liberalizzazioni, riduzione della pressione fiscale: per molti questi concetti sono diventati obsoleti. Come i rollerblades e le cravatte larghe ricordano tempi passati. La cesura ha avuto luogo al più tardi nel 2008, anno in cui la crisi finanziaria si è acuita. Anche se la Svizzera ha superato quasi illesa la crisi, essa ha segnato profondamente la politica di tutti i giorni. Nessuno più parla di riforme liberali. Il settore finanziario è tenuto a guinzaglio. Nel sistema sanitario si profila un’ ulteriore regolamentazione. Il servizio pubblico è ancora più sacro di prima, e dopo l’accettazione dell’iniziativa sull’immigrazione di massa dell’UDC si ri-burocratizza il mercato del lavoro. Insomma, a sei anni dallo scoppio della crisi, chi si adopera per un’economia di mercato aperta e efficiente gioca in difesa. Sono sempre più numerosi coloro che mettono in dubbio il bisogno di riforme. La Svizzera è vista come l’isola dei beati. Nella politica fiscale persino i politici di destra colgono ogni occasione per lodare, tra i molti vantaggi del paese, «l’onere fiscale moderato». Le statistiche dell’OCSE sull’aliquota fiscale sembrano in apparenza confermarlo: con una quota fiscale del 28,6 percento in rapporto al PIL, la Svizzera nel 2011 si trova sotto la media (34,1 percento). Va quindi tutto bene?
1810 franchi di prelievi sociali per persona
Queste cifre ingannano. Nella statistica dell’OCSE la Svizzera ottiene comparativamente buoni risultati solo perché i contributi obbligatori per la previdenza professionale, la cassa malati obbligatoria e l’assicurazione contro gli infortuni non sono compresi. Queste prestazioni obbligatorie in altri paesi sono finanziate prevalentemente tramite imposte (vedi «Tra oneri e prestazioni: Una bussola fiscale per la Svizzera», Avenir Suisse 2013). In verità l’impatto effettivo dello stato sulconsumo e gli investimenti dei cittadini è maggiore di quanto molti credano, come mostra il grafico 1, che rappresenta a livello aggregato la situazione dei redditi prima e dopo tutti i prelievi. I contributi sociali sollecitano con circa 1810 franchi per adulto al mese il bilancio degli svizzeri in modo maggiore rispetto alle tasse vere e proprie (1610 franchi). In media, una persona adulta deve consegnare circa il 55 percento del reddito sotto forma di tasse, contributi alla previdenza sociale e altre imposte. In altre parole: l’impiego della metà del reddito netto è determinato dallo Stato. Con ciò la Svizzera si differenzia a malapena dai suoi vicini europei.
Ma guardiamo l’asse temporale. Dal 1990 il carico fiscale complessivo è aumentato del 12 percento, andamento da ricondurre prevalentemente all’espansione delle assicurazioni sociali. La Svizzera si è impegnata sempre di più per il «modello a salvadanaio», secondo il quale i cittadini sono tenuti a ridistribuire buona parte del proprio reddito durante la loro vita. Secondo stime di Monika Engler dell’Università di San Gallo, solo un terzo dei trasferimenti ha luogo a livello interpersonale, cioè tra contribuenti diversi. Due terzi dei trasferimenti sono intrapersonali: si tratta di mezzi che poi rifluiscono direttamente a chi li ha pagati, ad esempio tramite le prestazioni dell’AVS o della cassa pensione. In verità, il rimborso dei contributi versati è promesso, ma non è certo. Il valore accumulato delle rendite AVS previste entro il 2035 supera i contributi attesi di 50 fino a 100 miliardi di franchi. Questo disavanzo prevedibile non appare ancora nei conti della Confederazione. Altrettanto elevata dovrebbe essere la lacuna per quanto riguarda il secondo pilastro e le assicurazioni malattia. Di quanto esattamente non lo sa nessuno: dall’ultimo Generational Accounting – una sorta di consuntivo che non considera solo le spese correnti, ma anche quelle future – sono passati almeno dieci anni.
Benessere in pericolo?
Anche in Svizzera l’impronta dello stato non è mai stata così grande come oggi. Per la sinistra, che dopo la crisi finanziaria fiuta opportunità per nuovi obiettivi di ridistribuzione, questo non rappresenta motivo di preoccupazione. Ma come la vede chi non bada solo alla ripartizione della torta, ma anche alla sua produzione? Il denaro deve essere guadagnato, prima di poterlo ridistribuire. Sia per chi confeziona la torta che per chi la distribuisce si pone però la stessa domanda: la costante estensione dell’ambito dei compiti statali va forse a scapito della ricchezza prodotta?
In quei paesi dove l’aliquota fiscale è cresciuta dal 1995, l’aumento del reddito pro capite si è affievolito (vedi grafico 2). In un review della letteratura economica esistente al riguardo, gli economisti Andreas Bergh e Magnus Henrekson analizzano con rigore statistico la relazione tra crescita e estensione dello stato nell’economia. I loro risultati indicano che una quota fiscale maggiore di 10 punti percentuali (per esempio quella della Francia in confronto alla Gran Bretagna) diminuisce la crescita del reddito di quasi l’1 percento all’anno. Nessuna meraviglia quindi che quest’ultima in Svizzera – nonostante la numerosa migrazione – sia stata pari a un modesto 1,1 percento dal 1995.
Il supermodello scandinavo
L’eccezione alla regola è rappresentata dai paesi nordici: essi sono accomunati da un «welfare» di categoria extra, con quote fiscali ben oltre il 50 percento, ma con tassi di crescita del 2 percento e più. Come ci riescono? Un’occhiata alla loro politica economica svela, al di là della ridistribuzione a tappeto, un’economia liberale e competitiva. Campioni nazionali affermati come Saab, Volvo, Ericsson o Nokia sono stati lasciati andare in fallimento o sono stati venduti senza tanti patemi d’animo a investitori stranieri. Vaste parti dell’economia, come il settore delle telecomunicazioni e delle poste, le ferrovie, ma addirittura anche le scuole e parti del sistema sanitario, sono state aperte alla concorrenza. Anche all’interno delle sterminate amministrazioni pubbliche scandinave si punta sempre più su incentivi e trasparenza. Così le prestazioni di funzionari, medici e insegnanti vengono monitorate in modo rigoroso e sistematico. In Svizzera siamo ancora ben lontani da un simile livello di trasparenza.
Un ulteriore contributo importante all’odierna prosperità della Scandinavia lo hanno fornito le sostanziali riforme fiscali degli anni 90. Mentre la Svizzera riflette su un’imposta di successione federale e quindi su un aumento dell’imposizione sul patrimonio, tutti i paesi nordici l’hanno eliminata. Addirittura, con l’imposta sul reddito duale (già proposta per il nostro paese da Avenir Suisse) il reddito da capitale è tassato nei paesi scandinavi a un’aliquota minore di quella vigente per i redditi da lavoro. Se interessi, dividendi e capital gains sono gravati meno dei salari, non è per regalo agli azionisti ma bensì per incentivare il risparmio privato e promuovere le attività d’investimento.
Il contrasto con il nostro sistema tributario non potrebbe essere maggiore. Da noi l’imposta sul reddito grava doppiamente i risparmi: una prima volta quando il reddito viene guadagnato; una seconda volta quando si ricevono i proventi (interessi, dividendi) derivanti da questi risparmi. Come mostrato recentemente da Avenir Suisse, l’interazione fra l’imposta sul reddito e l’imposta patrimoniale può portare a tassi d’imposizione marginali di oltre il 100 percento. In altre parole: chi risparmia un franco in più, ne deve consegnare più di uno al fisco. Solo chi parcheggia tutti i risparmi nel secondo e nel terzo pilastro riesce a sfuggire a questa doppia imposizione.
Conclusione: il peggio di entrambi i sistemi
Con queste considerazioni non vogliamo suggerire che tutte le consuetudini scandinave vadano copiate. Un sistema in cui gli asili sono aperti di notte, i detenuti fanno sci di fondo e i fans dell’heavy metal sono ritenuti «dipendenti» e degni di cura, non è auspicabile in Svizzera. Il federalismo elvetico lascia più spazio alla responsabilità individuale. Il messaggio dal lontano nord è un altro: chi vuole mantenere una forte presenza dello stato sul lungo tempo, non può continuare a ignorare come il valore aggiunto viene creato. O in altre parole: proprio i sostenitori della ridistribuzione dei redditi, se prendono davvero sul serio la loro missione, dovrebbero sostenere pienamente il sistema di libero mercato e di concorrenza perché più efficiente – e quindi impareggiabile creatore di ricchezza. Per chi invece è restio alla ridistribuzione vale: non illudetevi, la pressione fiscale in Svizzera è già notevole. E per entrambi è giunto il momento di recuperare dalla soffitta i pattini in linea e lo spirito riformista della fine degli anni ’90.
Questo articolo è apparso nello «Schweizer Monat» di marzo 2014.