Plusvalore
Il Consiglio federale dovrebbe considerare gli "effetti collaterali" della riduzione del lavoro
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Marco Salvi
I rischi del lavoro ridotto
PlusvaloreIl Consiglio federale dovrebbe considerare gli "effetti collaterali" della riduzione del lavoro
Durante il lockdown ben 190’000 aziende hanno richiesto in Svizzera il lavoro ridotto per i propri dipendenti. Si stima che più di un terzo del totale degli occupati avrebbe ricevuto (o riceverà) un’indennità. È inoltre notizia di questi giorni che il Consiglio federale starebbe valutando la possibilità di prolungare la durata massima del lavoro ridotto da 12 a 18 mesi. L’indennità per lavoro ridotto, ricordiamolo, consiste in un versamento della cassa disoccupazione alle imprese pari all’80 percento della perdita di guadagno se esse rinunciano al licenziamento.
Il lavoro ridotto è diventato quindi uno strumento cardine della risposta economica alla crisi creata dalla pandemia e dal conseguente lockdown. Confrontati ad una frenata violentissima e – speriamo – passeggiera della produzione e degli scambi era essenziale evitare uno tsunami di licenziamenti. A differenza dell’indennità di disoccupazione, il lavoro ridotto permette di mantenere la relazione tra impresa e dipendente. Si preservano così know-how e competenze specifiche che altrimenti rischierebbero di andare perse.
Vi è però un rovescio della medaglia. Per le imprese che fanno capo al lavoro ridotto vige un divieto di assunzioni. Chi, ciononostante, assume nuovo personale rischia di vedere compromesso il proprio diritto a percepire le indennità per tutta l’azienda.
Questa condizione è necessaria per evitare gli abusi. Ma essa potrebbe creare serie difficoltà se la crisi economica dovesse perdurare, e se alla disoccupazione parziale si aggiungessero anche ondate di licenziamenti secchi. Poiché molte aziende sono vincolate dagli obblighi del lavoro ridotto e non assumono, chi perde il proprio posto si ritrova su un mercato del lavoro con poca offerta. Alcune ditte sarebbero interessate ad assumere il personale licenziato dai concorrenti, ma non possono farlo prima di uscire dal lavoro ridotto.
Secondo recenti rilievi del Politecnico di Zurigo, mentre i licenziamenti sarebbero in leggero aumento, le nuove assunzioni sarebbero già in forte diminuzione. Speriamo quindi che il Consiglio federale, prima di prolungarne la durata, terrà ben conto degli «effetti collaterali» del lavoro ridotto – uno strumento efficace, ma a doppio taglio.
Questo podcast è stato pubblicato il 15.06.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Il telelavoro era già in crescita prima della pandemia, ma nelle ultime settimane la sua diffusione è stata – per forza maggiore – fortemente accelerata. Mentre l’anno scorso solo il 5% degli occupati svolgeva più del 50% dei propri compiti lavorativi da casa con il computer, al momento almeno un…
Il telelavoro era già in crescita prima della pandemia, ma nelle ultime settimane la sua diffusione è stata – per forza maggiore – fortemente accelerata. Mentre l’anno scorso solo il 5% degli occupati svolgeva più del 50% dei propri compiti lavorativi da casa con il computer, al momento almeno un quarto degli occupati è costretto a lavorare unicamente da casa.
Ma in che misura lo «smart working» perdurerà dopo che la pandemia sarà passata? Ora che molte aziende (e i loro dipendenti) si sono adattate alle nuove condizioni, non si tornerà alla situazione precedente. Del resto, anche in tempi normali il telelavoro offre alcuni indubbi vantaggi. L’assenza di vincoli orari facilita ad esempio la conciliazione tra famiglia e lavoro.
Ovviamente, se – come ora – le scuole sono chiuse, le condizioni per il lavoro «smart» da casa non sono ideali. Ma persino nella difficile situazione attuale sono in molti ad apprezzare il tempo risparmiato evitando il quotidiano tragitto casa-lavoro.
Il telelavoro ha però anche i suoi limiti. Molte imprese non lo vedono di buon occhio, non sono tanto per la mancanza di controllo quanto per le difficoltà di coordinare il telelavoro. Nelle nostre aziende la produzione in team rimane essenziale. Il telelavoro è invece più adatto ad un tipo di produzione individuale. In molte professioni la produttività del lavoro dipende però dall’uso di macchine e impianti molto specializzati. Insomma, non si può ricreare un laboratorio o una fabbrica in ogni casa.
Secondo nuove stime di Avenir Suisse, in Svizzera un terzo circa delle professioni potrebbe in teoria essere svolta da casa. Il telelavoro è più facile nei servizi, soprattutto nelle professioni maggiormente qualificate: il 37% dei lavoratori altamente qualificati svolge una professione con possibilità di telelavoro, mentre tra i meno qualificati la percentuale è solo del 10%.
In alcuni settori come la ristorazione, il turismo, i servizi alle persone, l’industria, il telelavoro non è oggi un’opzione, e non lo sarà probabilmente mai. Ma il progresso tecnologico e l’evoluzione dell’economia, orientata maggiormente ai servizi e al «knowledge worker», rendono il telelavoro sempre più possibile.
Certo, passato il periodo di confino saremo ben contenti di ritrovare in carne e ossa i nostri colleghi di lavoro – o almeno la gran parte di loro. Sono però convinto che almeno una giornata di telelavoro alla settimana diventerà prima o poi una consuetudine di molti posti di lavoro. E tanto meglio così.
Questo podcast è stato pubblicato il 20.04.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
In un momento di transizione tecnologica come quello attuale, sono in molti a chiedersi quali saranno le forme future del lavoro. Fino ad ora, intelligenze artificiali, robot e economia digitale non hanno sconvolto l’organizzazione del lavoro. La figura tradizionale del dipendente a tempo pieno, alla ricerca di una carriera lineare, con regolari promozioni e aumenti salariali, è ancora molto diffusa.
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Eppure, per molte persone, e in modo particolare per i giovani, il modello standard sta perdendo attrattività. Cresce l’interesse per modalità più flessibili; interesse che va di pari passo con le esigenze di una migliore conciliazione della vita professionale e di quella familiare, nonché con il desiderio di far fruttare le proprie competenze in ambiti di lavoro variegati.
Per intravvedere il futuro del lavoro conviene allora guardare al presente di un settore che da sempre è stato all’avanguardia: parliamo del settore artistico. La musica ad esempio, è stata una delle prime attività economiche globalizzate. Si stima ad esempio che ben 30% dei compositori dell’epoca classica (attivi cioè dalla metà del 17° alla metà del 19° secolo) siano deceduti in un paese diverso da quello in cui erano nati, e che il 45% di essi abbia passato almeno due anni della propria vita lavorativa all’estero – una caratteristica questa oggi comune a molti percorsi professionali, non solo a quelli degli artisti.
Così possiamo speculare che il lavoro futuro in parte ricalcherà l’odierna organizzazione del settore artistico, ad esempio:
una produzione non legata a un posto fisso (fabbrica o ufficio), ma spesso in movimento
l’assenza di un singolo datore di lavoro, sostituito da più committenti
la diversificazione delle forme di reddito, dalla vendita della propria produzione, all’insegnamento, agli incontri (pagati) con mecenati
il lavoro in teams, formati per un progetto dato e per un periodo limitato.
L’aspetto più distintivo del settore artistico risiede però nell’importanza data all’essere autori. Confidiamo quindi che, in futuro, non solo gli artisti ma anche «normali dipendenti» vorranno sempre più definire autonomamente i contenuti del proprio lavoro – rinunciando magari a parte del salario per perseguire il sogno dell’«autoralità».
Marco Salvi
Il valore di un orario di lavoro flessibile
Plusvalore
Uber è una delle ditte più discusse, ammirate e allo stesso tempo odiate del pianeta. Fornisce un servizio taxi tramite un'app che mette in collegamento diretto passeggeri e autisti, questi ultimi spesso non professionisti. Presente oramai a livello mondiale, opera anche in quattro città svizzere. Qui come altrove, Uber viene contestata per l’impiego di lavoro flessibile. Un autista può decidere infatti in ogni momento se accettare o meno la richiesta di un cliente. Inoltre, la remunerazione di una corsa può variare a dipendenza della domanda.
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Uber è una delle ditte più discusse, ammirate e allo stesso tempo odiate del pianeta. Fornisce un servizio taxi tramite un’app che mette in collegamento diretto passeggeri e autisti, questi ultimi spesso non professionisti. Presente oramai a livello mondiale, opera anche in quattro città svizzere. Qui come altrove, Uber viene contestata per l’impiego di lavoro flessibile. Un autista può decidere infatti in ogni momento se accettare o meno la richiesta di un cliente. Inoltre, la remunerazione di una corsa può variare a dipendenza della domanda.
Questa flessibilità preoccupa i sindacati che la considerano sintomo di nuova forma di precariato. Ma come la valutano gli autisti stessi? A ben guardare, la possibilità di scegliere i propri orari sembrerebbe andare a tutto vantaggio degli impiegati piuttosto che dei datori di lavoro. Le aziende preferiscono di regola presenze fisse, sia perché possono così meglio monitorare il lavoro dei propri dipendenti, sia perché spesso i clienti vanno serviti a orari determinati.
In un nuovo studio, quattro economisti californiani analizzano il comportamento in tempo reale di ben un milione di autisti Uber negli Stati Uniti. La versatilità della piattaforma tecnologica di Uber permette ai ricercatori di stimare il cosiddetto «salario di riserva», cioè il salario minimo necessario a indurre l’autista a uscire dal garage.
La ricerca mostra che gli autisti Uber preferiscono lavorare a tempo parziale per poche ore alla settimana, in prevalenza di sera o il sabato pomeriggio. La possibilità di fornire prestazioni in modo flessibile riveste per loro un notevole valore economico. I ricercatori stimano che se gli autisti Uber dovessero fornire le stesse prestazioni ad orari predeterminati, essi richiederebbero un indennizzo supplementare pari in media al 40% del reddito attuale. Senza la possibilità di decidere in maniera autonoma quando e quanto guidare, due terzi di loro preferirebbero rimanere a casa, rinunciando a questa fonte ausiliare di reddito.
Gli economisti americani documentano così il valore per i dipendenti di un orario di lavoro adattabile ai propri bisogni, con possibilità di reagire in modo immediato a imprevisti. Certo, Uber e le altre piattaforme della sharing economy non offrono prospettive di carriera solide a lungo termine. Ciononostante esse potrebbero rappresentare un importante complemento di reddito, specie per i giovani e le persone meno abbienti. A condizione però di preservarne la flessibilità.
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Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 10 aprile 2017 del programma «Plusvalore».
Per gentile concessione di «RSI Rete due».
Marco Salvi
Parità salariale: ascoltate le economiste
Plusvalore
Il podcast bimensile di Marco Salvi per il programma Plusvalore di Rete Due
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Marco Salvi
Parità salariale: ascoltate le economiste
PlusvaloreIl podcast bimensile di Marco Salvi per il programma Plusvalore di Rete Due
Le donne stanno guadagnando terreno sul mercato del lavoro. In Svizzera, da anni i salari femminili crescono più rapidamente di quelli maschili, complice un livello di formazione sempre più elevato.
Ciononostante i salari femminili rimangono in media del 19% inferiore a quelli maschili. Per molti questo è un indizio sufficiente per presumere una discriminazione generalizzata da parte delle imprese. Tanto che il Parlamento federale dovrà prossimamente esprimersi su un progetto di legge che prevede controlli salariali obbligatori in tutte le aziende con più di 50 dipendenti.
Le intenzioni dei politici sono lodevoli. Purtroppo però queste misure poggiano su un grave errore di diagnosi. Numerosi studi econometrici hanno ormai stabilito che le differenze salariali persistenti tra i sessi non sono da ricondurre a un comportamento discriminante da parte delle imprese. Quest’ultime d’altronde, se davvero le donne fossero sottopagate, avrebbero ogni interesse ad assumere unicamente personale femminile, riducendo così i costi e aumentando gli utili.
La vera sfida della parità sta altrove. Come mostrano le ricerche di Claudia Goldin, già presidente della prestigiosa American Economic Association, bisogna rimuovere gli ostacoli che ancora impediscono di conciliare pienamente carriera e famiglia. In effetti, se per lo stesso livello di formazione e esperienza le differenze salariali tra giovani donne e uomini sono minime, esse si accentuano con l’arrivo dei figli. Non è un caso che le disparità siano particolarmente pronunciate nelle professioni che richiedono maggior flessibilità. In queste professioni, i datori di lavoro sono disposti a versare salari più elevati quale compenso per orari che non si lasciano pianificare in anticipo o per frequenti spostamenti all’estero. I settori che invece permettono di conciliare più facilmente lavoro e famiglia sono in rapida via di femminilizzazione. Tra questi spiccano ovviamente l’insegnamento, ma anche la medicina e la ricerca.
Per completare l’ultima tappa della parità salariale occorre ridurre i costi della flessibilità. Una ripartizione più equa dei compiti famigliari tra i genitori aiuterà, ma non basterà. Per Goldin un ruolo ancora più decisivo lo giocheranno tecnologia e organizzazione del lavoro, quale le possibilità di telelavoro.
Infine non vanno dimenticate diverse misure di politica sociale che faciliterebbero le carriere femminili: dal congedo parentale all’accoglienza della prima infanzia. I controlli obbligatori dei salari, invece, non ne fanno parte.
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Questo contributo è apparso nell’edizione di lunedì 19 settembre 2016 del programma «Plusvalore». Per gentile concessione di «RSI Rete due».