In occasione delle votazioni del 27 settembre scorso, Ginevra ha approvato l’introduzione del salario minimo obbligatorio. Sono ora quattro i cantoni, tra qui il Ticino, che già impongono (o presto introdurranno) minimi salariali. Altre iniziative popolari sono in preparazione, ad esempio nelle città di Zurigo e Basilea.
Ciò ravviva un dibattito, oramai centenario, riguardo agli effetti sull’impiego del salario minimo. Per i suoi fautori non vi sarebbe nessun svantaggio da temere; al massimo qualche leggero aumento dei prezzi al consumo o una diminuzione dei profitti delle imprese.
Si tratta però di una visione troppo semplicistica. Certo, l’impatto sull’impiego dipende dal livello del limite salariale imposto. In Svizzera, il 95 percento degli occupati guadagna più di 23 franchi all’ora netti. Un salario minimo al di sotto di questo limite non influenzerebbe drasticamente sulla domanda di lavoro delle imprese e, quindi, sul numero degli impeghi.
Non si tratta però solo di una questione di numeri. Il lavoro non è un bene come un altro – e il salario non è l’unica misura per giudicare dell’attrattività o meno di un posto. Negli ultimi anni, economisti hanno messo in evidenza altri margini di adattamento delle imprese ai salari minimi, al di là quindi della soppressione o meno di posti di lavoro.
Ad esempio, l’imposizione di salari minimi vincolanti può ridurre la tolleranza dei datori di lavoro per errori o ritardi dei propri dipendenti, e tende a creare un clima di lavoro più teso. Vi è anche una riduzione della disponibilità delle aziende a concedere orari flessibili e, più in generale, un adattamento al ribasso dei compensi non-monetari.
Ma è soprattutto il bilancio sociale dei salari minimi che sembra più discutibile. Contrariamente ad altre politiche anti-povertà come l’assistenza sociale o le prestazioni complementari, il salario minimo obbligatorio non tiene conto della situazione economica di chi ne beneficia ed è quindi poco mirato. Studi statunitensi mostrano ad esempio che un numero importante di coloro che ricevono il salario minimo vive in economie domestiche benestanti; sono ad esempio studenti che lavorano part-time nella gastronomia o nel commercio al dettaglio.
Allo stesso tempo, il salario minimo crea un’ulteriore barriera all’entrata sul mercato del lavoro per le persone più vulnerabili, con poche qualifiche professionali. Esse infatti si ritrovano in concorrenza con attivi più produttivi e più qualificati; lavoratori che prima dell’introduzione dei minimi salariali, non avrebbero considerato questi posti di lavoro. Chi prima quindi avrebbe trovato un’occupazione, anche se retribuita meno del salario minimo, si ritrova allora escluso dal mercato del lavoro – a salario zero.
Questo podcast è stato pubblicato il 26.10.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.