Le critiche e le riserve verso le generazioni incalzanti, più giovani, sono vecchie quasi quanto l’umanità stessa. Sembra invece una novità il fatto di identificare, battezzare e catalogare – anche in termini di mentalità – le nuove «generazioni» : millennials, generazione Y, generazione Z, generazione stage, generazione maybe… e l’elenco potrebbe continuare. La classificazione e la valutazione delle coorti d’età, rapidamente tradotte in «generazioni», tanto per attirare l’attenzione del pubblico quanto per nostalgia, corrisponde ad un’esigenza di inserire le persone in un collettivo, al fine di ottenere una panoramica stereotipata di «come agiscono». Tuttavia, è raro che questo susciti opposizione da parte delle persone che, spesso impropriamente, sono così classificate e sminuite, motivo per cui il tanto atteso dibattito non ha luogo e le etichette apposte alle diverse generazioni persistono. Alla fine ciò che resta sono definizioni onnicomprensive, che certamente permettono ai loro ideatori di creare voci su Wikipedia, ma che sottopongono la maggior parte delle giovani generazioni a una forma di stress legato a questa delimitazione.

Il mondo è cambiato, ma il sistema di valori è rimasto invariato?

Nel corso degli ultimi due o tre decenni, la tendenza ad etichettare le generazioni si è nettamente accentuata. Quando si cerca di categorizzare moralmente, politicamente ed economicamente le classi di età, emergono correnti contrarie, che (almeno in parte) contraddicono le ipotesi formulate. Nella nostra società, inoltre, coesiste una moltitudine di correnti sociali diverse: sta diventando quindi sempre più difficile tracciare confini netti, il che significa che qualsiasi classificazione troppo semplicistica, che mira ad attirare l’attenzione riducendo le generazioni ad uno stereotipo, semplicemente non regge più.

Non c’è da stupirsene, perché il mondo e le condizioni di vita in cui viviamo diventano sempre più opache e in parte contradditorie. Come se non bastasse, anche i pochi punti di riferimento percepiti come costanti in questo complesso mondo in continuo cambiamento si trasformano sempre più rapidamente: la rete globale cresce, l’urbanizzazione procede insieme alla globalizzazione. Il progresso tecnologico, in particolare la digitalizzazione, è in continua evoluzione e non può essere arrestato.

Progetti di vita a lungo tramandati possono essere realizzati, sia grazie alle nuove libertà che ai fattori demografici ed economici: per esempio, negli ultimi 70 anni la speranza di vita di una donna svizzera è aumentata del 50 percento – malgrado questo dato possa sembrare astratto, ha ripercussioni significative sulla previdenza, sul sistema sanitario e sullo stile di vita. Quest’ultimo segue un processo di individualizzazione ormai inarrestabile: in Svizzera oggi il numero di persone che vive in un’economia domestica formata da un singolo individuo è doppio rispetto a 30 anni fa. Le esigenze personali e lo spazio vitale aumentano, la concorrenza con coloro che nutrono aspirazioni simili anche. Tutti questi cambiamenti implicano nuove sfide, grandi e piccole.

Incapacità decisionale?

Con le nuove sfide emergono anche nuove possibilità. E dove gli stili di vita dei cittadini diventano eterogenei, il potenziale di libertà aumenta. Alcune persone si sentono sopraffatte da questi cambiamenti: gli spiriti conservatori, amanti dell’ordine, considerano negative molte di queste libertà, poiché troppo spesso l’individualismo è gemellato con l’egoismo. Perché?

«Per la prima volta nella storia dell’umanità gli individui hanno il privilegio di aspirare a realizzarsi tramite un compito interessante e plasmare la loro vita di conseguenza», afferma Saul Wurman, fondatore dei TEDtalks. Questo non vale solo per la vita privata, bensì anche per quella professionale: la libertà di vivere in modo indipendente è una conquista importante della generazione dei nostri genitori. Ma noi – che ne raccogliamo l’eredità – abbiamo ora il dovere morale di trasformare queste libertà e la confusione che ne risulta in qualcosa di produttivo . Alcuni lo stanno facendo meglio di altri, ma i requisiti in termini di responsabilità individuale e spirito di iniziativa sono aumentati per tutti in ugual misura, non diminuiti. E per le giovani generazioni il fatto di aver imparato molto presto a gestire le nuove incertezze globali è sicuramente un punto di forza. Se la «generazione stage» ha capito una cosa, è che niente è più sicuro dell’incertezza.

Naturalmente è seccante che a causa dell’aumento delle esigenze di flessibilità diminuiscano anche le presunte «sicurezze» – per esempio per quanto concerne la pianificazione del proprio futuro. Il fatto di distaccarsi dalle strutture precedenti, più semplici,  può essere percepito come una pressione non gradita. Ma allo stesso tempo aumenta la nostra resilienza, perché ci adattiamo più rapidamente alle nuove circostanze e siamo psicologicamente più resistenti ai cambiamenti. In un’epoca così frenetica come la nostra, tali capacità di adattamento sono indispensabili. Tuttavia, le persone più anziane ci descrivono spesso come «indecisi», poiché dobbiamo prenderci il tempo di pesare anche ai pro e ai contra delle diverse opzioni che prima non esistevano. La nostra presunta difficoltà nel prendere le decisioni è – da questo punto di vista – un sottoprodotto logico dei mercati delle opportunità in rapida crescita, perché, come dice bene il proverbio, «abbiamo l’imbarazzo della scelta».

Da un progetto di vita unico possono quindi improvvisamente emergerne diversi per ogni fase della vita. Chi vuole reinventarsi ha ancora bisogno di coraggio, certo, ma oggi risulta comunque più facile, perché i modelli sociali sono molto meno restrittivi. Posso decidere di vivere una vita fuori dal comune in un furgoncino VW senza passare per una hippie, o di lanciarmi nella carriera senza essere tacciata di «carrierista». Fare la scelta giusta– paradossalmente – diventa più facile e al tempo stesso più difficile. Perché quando vi sono varie possibilità di scelta bisogna anche fare una selezione più accorta. Ma, onestamente, non è un grande «problema», forse unico nella storia del genere umano? Posso lavorare in ufficio o al bar, posso continuare la mia formazione finché lo ritengo necessario, e dove è possibile posso adattare i parametri del mio posto di lavoro. Posso trascorrere le vacanze in un albergo o cercare un alloggio più personale sul portale Couchsurfing. Posso interessarmi alla cultura o iscrivermi a un club sportivo. Posso fare entrambe le cose oppure nessuna. Ma, di fronte a questa miriade di opzioni devo riflettere bene su cosa voglio davvero – perché sono consapevole che queste scelte avranno conseguenze su di me e sull’ambiente in cui vivo.

Questa presunta «incapacità decisionale» è in realtà una sorta di movimento di emancipazione, perché sempre più decisioni che oggi vanno al di là della semplice questione di sopravvivenza necessitano di una valutazione morale individuale. Compro le banane bio dal discounter? Compro a livello locale? Quale yogurt devo acquistare per sostenere i contadini africani? Prendiamo quotidianamente decisioni per attività sinora percepite come «apolitiche». Pensiamo sempre più spesso in termini di micro-soluzioni, e sempre meno in termini collettivi o politici, o di «grandi passi in avanti».

Apolitici?

I giovani non diventano più indifferenti; a seguito dei cambiamenti globali alcuni temi hanno semplicemente la precedenza su altri, o acquisiscono un’importanza più diretta quando si tratta di commerciare liberamente e di contribuire al miglioramento della vita sociale e della comunità. Accettiamo sempre meno condizioni di vita statiche, che potrebbero essere ammorbidite solo da interventi politici e che le generazioni precedenti hanno spesso dovuto tacitamente «sopportare». Per questo motivo le nostre decisioni al supermercato, sul lavoro o nel nostro gruppo di lettura devono essere sempre ben ponderate.

Il risultato è chiaro: per noi la politica è ovunque, nella stragrande maggioranza delle nostre decisioni, ma sempre meno nella partecipazione alle urne. La politica resta – come appena accennato–principalmente dominata da persone più anziane, in genere uomini. Pertanto continua a funzionare con il vecchio sistema di categorizzazione dei partiti, in cui tutto è politicizzato secondo il principio evangelico «chi non è con me è contro di me». A seguito delle nostre esperienze, questa visione ci appare sempre più estranea. Il fatto che i giovani guardino solo di rado in modo incredulo a fenomeni come Emmanuel Macron, Operazione Libero o i Verdi Liberali, ma altri si sentano profondamente a disagio per l’ascesa di queste forze, mostra che le cose stanno cambiando.

È una buona notizia. Ma è chiaro che se vogliamo garantire il futuro della Svizzera e superare le rigidità del passato – in tutta libertà – dobbiamo progredire nella sfera politica. Le decisioni prese oggi disegneranno i confini delle nostre libertà di domani. Se non vogliamo che la scelta dello yogurt rimanga la decisione più importante della nostra vita, è giunto il momento di impegnarsi attivamente in politica per difendere le nostre aspirazioni.