Negli ultimi anni, sono state numerose le denunce delle condizioni di lavoro di chi cerca di sbancare il lunario nella «gig economy» – l’economia dei lavoretti procurati su piattaforme online: consegne a domicilio, utilizzo della propria auto come servizio taxi, o riparazioni casalinghe svolte di volta in volta su richiesta di clienti. A queste preoccupazioni si sono aggiunte quelle per l’esternalizzazione di dipendenti, poi più o meno costretti a lavorare in subappalto per la stessa ditta. Tutti in coro a denunciare nuove modalità di lavoro «atipiche», caratterizzate da un’indipendenza fittizia e una sicurezza dell’impiego minima.
Ma quale è l’impatto effettivo di queste forme di impiego sull’occupazione in Svizzera? Per tentare di quantificare queste attività è utile guardare all’evoluzione dei cosiddetti lavoratori autonomi senza dipendenti, una categoria che appunto include i collaboratori freelance, ma anche i classici liberi professionisti.
Ebbene, un’analisi dei dati della Rilevazione sulle forze di lavoro (RIFOS) non trova alcuna conferma della maggiore prevalenza di forme d’impiego «non-standard» nel nostro paese. Al contrario, in Svizzera il lavoro autonomo sarebbe piuttosto in ritirata. Sebbene rispetto al 2001 si contino oggi 14 000 lavoratori autonomi in più, durante lo stesso periodo i salariati sono aumentati di oltre 760 000 unità. Vi è stato quindi un declino relativo del lavoro autonomo; declino che si registra in tutti i gruppi professionali.
E che ne è dei redditi? Con circa 48 franchi all’ora, il salario degli indipendenti autonomi è superiore alla media. Tuttavia, la distribuzione di questi redditi è ineguale: sono sovrarappresentati sia nelle fasce di reddito più basse che in quelle più elevate. Ciononostante, il 67% si dice molto soddisfatto del proprio lavoro. Solo il 6% non trova contentezza alla propria situazione lavorativa e preferirebbe passare ad un lavoro dipendente. Questo a riprova che il lavoro autonomo offre anche benefici non-monetari, quali l’indipendenza e flessibilità.
L’inchiesta mostra infine che i lavoratori autonomi senza dipendenti formano un gruppo molto eterogeneo. In questo senso, si tratta di una forma di lavoro davvero atipica. Riguardo ai numeri però, nelle statistiche dell’occupazione il boom della «gig economy» ancora non si vede.
Questo podcast è stato pubblicato il17.05.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
La pandemia da Coronavirus e i suoi effetti sul mercato del lavoro potrebbero aggravare la disoccupazione tecnologica? Secondo un recente sondaggio del World Economic Forum (WEF), l’80 percento delle grandi imprese prevede di accelerare a corto termine il processo di robotizzazione e automatizzazione. Quasi la metà di esse prevede che questo processo porterà alla soppressione di posti di lavoro. È forse ora di lanciare un’offensiva di formazione continua su larga scala anche nel nostro paese?
Penso bisogni rispondere a questi importanti interrogativi in maniera differenziata. Non è da ieri che il progresso tecnologico contribuisce a trasformare il mercato del lavoro svizzero. Basti osservare il cambiamento dei profili e dei curriculi richiesti e l’impennata della domanda di personale altamente qualificato. Se nel 1996 650 000 occupati esercitavano una professione accademica, nel 2019 erano già 1,25 milioni. Le categorie professionali con qualifiche intermedie hanno invece segnato una flessione, primi fra tutti gli artigiani. In linea generale, negli ultimi 25 anni le prospettive di carriera dei lavoratori con apprendistato professionale ma senza specializzazione di livello terziario sono peggiorate.
Eppure, tutti questi cambiamenti non hanno portato ha un aumento della disoccupazione. Questo lo si deve anche alla capacità degli occupati a formarsi e specializzarsi. In linea di principio, la Svizzera ha un’ottima offerta di formazione continua e un elevato tasso di adesione, per cui una promozione generale in tal senso non mi sembra necessaria.
La propensione alla formazione continua e allo studio informale dipende tuttavia molto dal livello di istruzione. Paradossalmente, maggiori già sono le qualifiche, più elevata è l’attività formativa. Insomma: chi già sa, vuole sapere di più. In questi termini, la postformazione non colma il divario educativo tra i gruppi, ma anzi lo esacerba. Così, determinate fasce di lavoratori non partecipano del tutto alla formazione permanente, mettendo in pericolo la loro impiegabilità a lungo termine. Questo segmento dovrebbe essere avvicinato in modo mirato alle opportunità di riqualifica.
Strumenti particolarmente adatti in tal senso sono i buoni di postformazione e i prestiti per le riqualificazioni di lunga durata. Altri strumenti invece, come le deduzioni fiscali delle spese per la formazione continua non si prestano a sostenere la riconversione professionale poiché vanno principalmente a vantaggio di persone con salari elevati, che peraltro non denotano carenze motivazionali in campo formativo.
Questo podcast è stato pubblicato il 03.05.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
L’invecchiamento della popolazione è una causa principale dell’aumento delle disparità patrimoniali
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Marco Salvi
Più anziani – e disuguali
PlusvaloreL’invecchiamento della popolazione è una causa principale dell’aumento delle disparità patrimoniali
In Svizzera la distribuzione dei salari è assai uniforme. Ad esempio, se consideriamo gli occupati a tempo pieno, la differenza tra bassi e alti salari è da noi meno marcata che in quasi tutti i paesi membri dell’OCSE, il club dei paesi ricchi. Per quanto riguarda invece la distribuzione della ricchezza, ovvero del patrimonio economico (il quale ingloba la totalità degli attivi finanziari e immobiliari), la Svizzera si distingue per una disuguaglianza più pronunciata della media, anche se le statistiche al riguardo sono parecchio lacunose.
È però indiscutibile che le disparità di ricchezza sono aumentate negli ultimi 20 anni. Questo aumento si manifesta molto concretamente a chi oggi vuole acquistare una casa. Se nel 2000 per acquistare una casa media bisognava sborsare circa 7 volte il salario annuale, ora ne sono necessari più di dieci. Il prezzo delle case è salito durante gli ultimi vent’anni molto più velocemente dei redditi, il che tendenzialmente ha accentuato le differenze patrimoniali tra chi è proprietario e chi è rimasto inquilino.
Ma quali le ragioni profondi di questa evoluzione, del resto per nulla specifica al nostro paese? Una risposta la fornisce un gruppo di economisti americani che ha recentemente studiato l’effetto dell’evoluzione demografica sul risparmio.¹ La loro conclusione: nella maggioranza dei paesi, l’aumento delle disuguaglianze di patrimonio può essere ricondotto direttamente all’invecchiamento della popolazione.
Patrimonio e i risparmi, ancora più di salari e redditi, hanno infatti una forte componente demografica. La situazione di una trentenne – che ha accumulato ancora pochi risparmi, ma ha davanti una lunga carriera professionale – è all’opposto di quella del sessantenne che si avvicina piano piano al pensionamento, e quindi subirà presto una diminuzione drastica dei redditi da lavoro, ma che può contare su risparmi ben più sostanziosi.
Ebbene, con l’invecchiamento della popolazione è fortemente aumento il numero di quest’ultimi a scapito dei primi. L’abbondanza di risparmi ha fatto crollare i tassi d’interesse e salire i prezzi immobiliari. E con essi anche le disuguaglianze di ricchezza.
¹Adrien Auclert, Hannes Malmberg, Frédéric Martenet e Matthew Rognlie (2020). «Demographics, Wealth, and Global Imbalances in the Twenty-First Century».
Plusvalore
Un sorprendente rilievo dell’Ufficio federale di Statistica
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Marco Salvi
La povertà non si può ridurre a un solo numero
PlusvaloreUn sorprendente rilievo dell’Ufficio federale di Statistica
Qualche settimana fa, un rilievo dell’Ufficio federale di Statistica mi ha sconcertato: in Svizzera, nel 2019, ben il 20% della popolazione non poteva permettersi una spesa imprevista di 2500 franchi. A giudicare dalle numerose reazioni indignate sui social media, non ero il solo a trovare questo fatto sorprendente: ma com’è possibile che nella ricca Svizzera ciò sia sufficiente a mettere in difficoltà finanziarie un quinto della popolazione?
Prima di svelare «l’inghippo», vengo subito alle conclusioni: la povertà è un fenomeno complesso e sfaccettato che non si può ridurre a un singolo dato numerico, sconcertante o meno. Gli specialisti lo sanno da tempo, ed è proprio per questo che l’Ufficio federale di Statistica non solo misura la povertà reddituale ma cerca anche di rilevare le cosiddette «deprivazioni materiali», tra le quali appunto la capacità di far fronte a spese impreviste.
Che il reddito spesso non basti a identificare ricchi e poveri lo dimostra la situazione dei pensionati. Mentre il 17% ha un reddito inferiore alla soglia di povertà, appena il 3% giudica la propria situazione finanziaria «poco soddisfacente». Questo divario si spiega in gran parte con la mancata presa in considerazione della situazione patrimoniale dei senior, spesso più favorevole. La statistica della povertà fa ad esempio fatica a valutare precisamente il livello di vita di chi abita nella propria casa.
La situazione è inversa per quanto riguardo le «deprivazioni materiali»: qui sono i giovani sotto i 25 anni a patirne più frequentemente, mentre il loro tasso di povertà reddituale è nella media. Ciò si spiega con il fatto che mentre il sostegno dei genitori al reddito dei giovani viene conteggiato nelle statistiche sulla povertà di reddito, non lo è per quanto riguarda la famigerata domanda sulle spese impreviste, dove anzi si specifica esplicitamente che va escluso l’eventuale sostegno dei famigliari.
Forse, il modo migliore per giudicare della diffusione della povertà in Svizzera rimane il paragone con altri paesi. E qui la situazione è senza dubbio assai favorevole, sia per quanto riguardo il reddito che le deprivazioni materiali. Nel confronto europeo, il tasso di deprivazione materiale in Svizzera è nettamente inferiore alla media e i valori di tutti i paesi limitrofi sono pari o superiori al nostro.
Questo podcast è stato pubblicato il 05.04.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Un cambiamento nel nostro mercato immobiliare
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Marco Salvi
In aumento lo sfitto – ma è un problema?
PlusvaloreUn cambiamento nel nostro mercato immobiliare
Da qualche anno è in forte aumento il numero di appartamenti e case vuote: il famigerato sfitto. Questo andamento si osserva sia a livello regionale che nazionale: in Ticino, a metà 2020, poco meno di un appartamento su 35 era vuoto; in Svizzera quasi uno su 50. Bisogna risalire alla metà degli anni Settanta per ritrovare livelli di sfitto analoghi. Ma mentre la relativa abbondanza di abitazioni vuote era in passato il contraccolpo di recessioni e crisi economiche, durante lo scorso decennio lo sfitto è andato a mano a mano crescendo nonostante una situazione congiunturale piuttosto favorevole. Come mai?
Come per molti altri fenomeni economici recenti anche l’aumento dello sfitto è una conseguenza più o meno diretta dei bassi tassi d’interesse, o più precisamente dell’abbondanza di risparmio che ha caratterizzato gli ultimi decenni. La disponibilità di capitale a buon mercato non solo ha favorito la costruzione di nuove abitazioni, ma ha anche diminuito per i proprietari i costi di opportunità legati allo sfitto. Insomma, quando il capitale è abbondante lo si può anche «sprecare», utilizzandolo al di sotto della capacità massima.
Meno convincente è invece la tesi secondo la quale l’esubero di alloggi sarebbe dovuto a un comportamento poco razionale di investitori istituzionali alle prese con una carenza di opportunità d’investimento alternative. Certo, è vero che sul mercato svizzero casse pensioni, assicurazioni e società immobiliari hanno aumentato le proprie quote di mercato. Se il risparmio, prima di essere trasformato in mattone, transita sempre più dalle casse pensioni, lo si deve anche alla politica monetaria macroprudenziale di Banca Nazionale Svizzera e FINMA. Infatti, nonostante tassi ipotecari bassissimi, i piccoli investitori privati faticano a trovare finanziamenti adeguati a causa del forte inasprimento della regolamentazione in materia di prestiti ipotecari. E sono obbligati di lasciare il terreno agli investitori istituzionali.
Ma lo sfitto, va ricordato, ha anche i suoi lati positivi. Ad approfittarne di più sono gli inquilini – pur sempre la maggioranza della popolazione svizzera. Gli affitti dei nuovi appartamenti sono ormai in calo da quattro anni a livello nazionale. E in molte regioni, tra le quali il Ticino, chi oggi cerca casa può offrirsi il lusso di scegliere tra un’offerta variegata. Una vera rarità per il nostro mercato immobiliare che nel passato spesso aveva sorriso soprattutto a chi la casa già ce l’ha.
Questo podcast è stato pubblicato il 22.03.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Un’economia con priorità al «locale» non aiuterà
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Marco Salvi
Combattere il virus protezionistico
PlusvaloreUn’economia con priorità al «locale» non aiuterà
Con il diffondersi a livello planetario del coronavirus si è rafforzato il protezionismo, quella politica economica volta a proteggere l’economia nazionale dalla concorrenza estera. Questa tendenza si delineava in realtà da tempo. Negli ultimi dieci anni, il numero di nuove misureprotezionistiche è aumentato in tutto il mondo. Il volume del commercio internazionaleè rimastoin crescita, ma con ritmi rallentati.Se prendiamo come misura il rapporto tra flussi commerciali e prodotto interno lordo (PIL), il processo di globalizzazione ha raggiunto il suo apice già nel 2008. Da allora ci troviamo in una nuova era commerciale, talvolta chiamata«slowbalization».
Preoccupazioni riguardanti la sicurezza nazionale e la salute pubblica stanno fornendo nuoviargomenti ai protezionisti, anche se è accertato che il virus non si diffonde tramitelo scambio di merci. Responsabili politici e leader aziendali si stanno ora chiedendo se le «supply chains»–e cioè le catene di fornitura globali– non siano state allungate troppo. In un clima politico in cui la cooperazione internazionale è ridotta al minimo, sono in molti a volerelimitarele interdipendenze economiche.Persino in Svizzera, uno dei paesi più globalizzati al mondo e che più approfitta dalla divisione internazionale del lavoro, vi sono voci prominenti che sognano di un’economia con priorità al «locale».
Bisogna resistere a queste tendenze in modo fermo e deciso.Rincorrere il sogno autarchicoporterà a notevoli perdite di reddito, non solo per le aziende, ma anche per noi consumatori, con pochi benefici in termini di sicurezza. Anzi, i recenti divieti di esportazione di materiale medico di protezionehanno contribuito a fare aumentare prezzi a livello mondiale, accentuando cosìcarenze e scarsità. A livello agricolo, l‘accento politico portato in Svizzera sul grado di autosufficienza non contribuisce ad aumentare la sicurezza dell’approvvigionamento del paese.Intensificare la produzione di derrate alimentari in Svizzera non sarebbe possibile senza un aumento delle importazioni di concimi, mangimi concentrati, prodotti fitosanitario trattori– tutti beni che la Svizzera non produce.
Meglio diversificare e moltiplicare l’accesso alle fonti di approvvigionamento e concludere nuovi accordi di libero scambio, ad esempio con il Mercosur, il mercato comune dell’America Latina.Avere più fonti d’approvvigionamento e di diffusione rimane la migliore strategia per aumentare la resilienza della nostra economia. Le catene di approvvigionamento globalisono in realtà più robuste diquelle nazionaliperché possono riparare gli anelli rotti, sostituendo una fonte in un paese colpito con una fonte alternativa in un altro paese.È proprio perché le pandemie sono fenomeni globaliche la collaborazione spontanea tra aziende e consumatori in tutti i paesi èoggi più preziosa che mai.
Questo podcast è stato pubblicato il 18.05.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Le forze della concorrenza costringono anche gli innovatori
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Marco Salvi
A chi approfitta la Regina degli scacchi?
PlusvaloreLe forze della concorrenza costringono anche gli innovatori
Qualche anno fa erano in pochi a scommettere sul futuro degli scacchi. Vittima collaterale della fine della guerra fredda per gli uni; gioco reso obsoleto dal progresso tecnologico per gli altri, gli scacchi sembravano oramai in lenta via di estinzione. Dimenticato dai media e abbandonato dagli sponsor, il nobil giuoco faticava a adattarsi ai nuovi usi sociali del tempo libero.
O almeno così sembrava, finché il lockdown e una serie TV di successo non lo hanno bruscamente fatto tornare di moda. Uscita su Netflix a ottobre del 2020, La regina degli scacchi è diventata un cult in pochissimo tempo, registrando visualizzazioni da record. A fine anno la serie era tra le più gettonate in ben 92 paesi.
Questo successo ha avuto un effetto trainante su tutto l’ecosistema scacchistico. E non parlo solo delle vendite di scacchiere, introvabili lo scorso Natale. Chess.com, la principale piattaforma online al mondo, ha registrato da ottobre più di sei milioni di nuovi utenti. Gli scacchi sono attualmente la tendenza più in crescita nel settore del gaming, tanto che su Twitch, la piattaforma di streaming di videogiochi di proprietà di Amazon, alcune partite hanno recentemente attirato centinaia di migliaia di spettatori in diretta.
Un gioco centenario, rilanciato in versione online da un’unica serie TV? Dietro al nuovo boom degli scacchi si cela anche un insegnamento economico importante: gli imprenditori-innovatori spesso generano profitti ben in eccesso di quelli che riescono direttamente a monetizzare per il proprio tornaconto.
Questo è particolarmente vero per quanto riguarda il progresso tecnologico. Come stimato alcuni anni fa da William Nordhaus, premio Nobel di economia nel 2018, la parte del plusvalore catturata dai produttori-innovatori è assai modesta, in media attorno al due percento. In altre parole, Nordhaus stima che il 98 percento dei benefici sociali (valutati in termini di maggior produttività) del progresso tecnologico non vengono appropriati direttamente da chi ne è all’origine. Le forze della concorrenza costringono anche gli innovatori di maggior successo a versare gran parte dei benefici delle loro innovazioni sotto forma di riduzione dei prezzi, espansione della produzione e miglioramenti della qualità.
Allo stesso modo, mentre la Regina degli Scacchi è riuscita a rinvigorire l’interesse per un gioco centenario, saranno gli streamer di Twitch e le piattaforme di gioco online ad approfittarne – anche per il piacere di noi giocatori.
Questo podcast è stato pubblicato il 08.03.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Davvero in crescita il divario tra ricchi e poveri?
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Marco Salvi
Pandemia e disuguaglianze
PlusvaloreDavvero in crescita il divario tra ricchi e poveri?
È oramai opinione comune che la pandemia di Covid-19 stia accentuando le disuguaglianze, sia a livello nazionale che a livello globale. Ciò è indubitabile per quanto riguarda le disuguaglianze di salute: la probabilità di contrarre una forma severa o addirittura letale della malattia non è la stessa per ognuno; i rischi sono fortemente concentrati nelle fasce d’età più anziane. Che ne è però delle disuguaglianze economiche? Certo, l’economia è in recessione, ma davvero cresce il divario tra ricchi e poveri?
In Svizzera i dati sono ancora lacunosi. Un recente sondaggio della SSR registrava un calo del 20 percento per i redditi inferiori ai 4000 franchi, diminuzione concentrata tra i giovani occupati. I redditi medi e superiori sarebbero invece solo in leggero ribasso rispetto a un anno fa. Oltre un terzo dei posti a basso salario si concentra nei comparti del commercio al dettaglio, della gastronomia e dell’ospitalità alberghiera, settori questi maggiormente colpiti dai lockdowns. Dall’altro canto non va dimenticato che questi settori hanno potuto fino ad ora contare su aiuti statali più generosi. Bisogner à quindi attendere i resoconti statistici ufficiali per stabilire una diagnosi affidabile sull’andamento dei redditi dopo tasse e delle disuguaglianze post-fisco nel nostro paese.
E a livello globale? Anche qui i dati sono ancora provvisori, ma sembrerebbe che si contino più decessi (in rapporto alla popolazione) nei paesi ricchi che in quelli poveri o emergenti – e ciò malgrado sistemi sanitari più avanzati e un apparato amministrativo ben più esteso e sofisticato. Secondo una recente analisi di Angus Deaton, già premio Nobel di economia, i paesi con il più gran numero di decessi da Covid (tra i quali figurano la Spagna, il Regno Unito o il Belgio) hanno anche subito un declino più marcato dell’attività economica e dei redditi. Di conseguenza, almeno fino ad ora, il reddito medio pro capite è diminuito maggiormente nei paesi ricchi – più colpiti dalla pandemia – che in quelli poveri e emergenti.
Insomma, la pandemia ha peggiorato la situazione di moltissime persone, in Svizzera e nel mondo. Quasi certamente c’è stato un aumento della povertà globale. Ma questo non implica ancora nulla delle disuguaglianze economiche.
Questo podcast è stato pubblicato il 08.02.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
La settimana scorsa è stata pubblicata la tradizionale analisi Vox dell’istituto di ricerca bernese GfS riguardante le votazioni popolari del 29 novembre 2020. Condotta su un campione di tremila persone, l’analisi cerca di approfondire le motivazioni dei votanti. Secondo lo…
La settimana scorsa è stata pubblicata la tradizionale analisi Vox dell’istituto di ricerca bernese GfSriguardante le votazioni popolari del 29 novembre 2020. Condottasu un campione di tremila persone,l’analisicerca di approfondire le motivazioni dei votanti. Secondo lo studio,l‘iniziativa popolare “Per imprese responsabili”, fallita per la mancata maggioranza dei cantoni, ha ottenuto quella dei voti grazie al forte sostegno della sinistra, dei giovani, delle zone urbane e delle persone con formazione superiore impiegate a tempo parziale.Il divario di genere è statomolto più marcato del solito: se avessero votato soltanto le donne, l’iniziativa sarebbe stata approvata al 57%.
Ma il risultato più interessante dello studio èsecondo me un altro. Mentre il sondaggio attesta un altissimo livello di fiducia nelle organizzazioni di aiuto allo sviluppo e di difesa dei diritti umani, la percezione dell’agire delle imprese multinazionali è tutt’altro che positiva. Quasi la metà degli elettori e delle elettrici esprime livelli molto bassi di fiducianelle imprese, con note tra lo zero e il quattro. La sfiducia dei votanti non si limita quindi alle imprese attivenell’estrazione delle materie prime; essa si estende all’intero gruppo delle multinazionali svizzere.
Eppure, c‘è parecchio di buono nella ondata di globalizzazione pacifica del commercio, degli investimenti e dei flussi migratori degli ultimi decenni. Nello spazio di una generazione, più di un miliardo di persone sono uscite da una situazione di povertà estrema. Grazie alla rapida crescita economica in Asia (e più recentemente in molti paesi africani) siamo stati testimoni di una riduzione delle disuguaglianzesenza precedenti in tempo di pace. Questi risultati dovrebbe influenzare il nostro giudizio morale su uno degli attori chiavi della globalizzazione – le multinazionali appunto.
La globalizzazione non è immaginabile senza imprese transfrontaliere. Nei paesi più poveri, esseforniscono spesso l’unico canale affidabile per finanziare investimenti a lungo termine egiocano un ruolo cruciale nella diffusione delle conoscenze e delle buone pratiche di gestione –per citare solo alcuni aspetti evidenziati negli ultimi anni dagli economisti dello sviluppo. Tanto che mi sento di affermare che nel nostro paese,le multinazionali,dal punto di vista morale,sonooramai decisamente sottovalutate.
Questo podcast è stato pubblicato il 25.01.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
La Svizzera fatica a integrare i rifugiati sul mercato del lavoro
Plusvalore
Le barriere al loro impiego rimangono elevate
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Marco Salvi
La Svizzera fatica a integrare i rifugiati sul mercato del lavoro
PlusvaloreLe barriere al loro impiego rimangono elevate
Con l’incedere della pandemia è diminuito ulteriormente il numero di richieste d’asilo in Svizzera. Mentre nel 2016 si contavano quasi 40’000 nuove richieste, l’anno scorso esse sono state poco più di 10’000. Dal punto di vista politico, il tema– sul quale negli ultimi duedecennielettrici ed elettori sono stati chiamati a votare ben una dozzina di volte – non è più prioritario.
Eppure, molte sfide rimangono. Fra le più importanti vi è quella dell’integrazione dei rifugiati sul mercato del lavoro. Se in confronto internazionale il mercato del lavoro svizzero è tradizionalmente tra i migliori per quanto riguarda il tasso di occupazione, non si può dirne altrettanto per quello dei rifugiati, una categoria a dire il vero molto eterogeneache inglobarichiedenti l’asilo, persone ammesse a titolo provvisorio e rifugiati riconosciuti.
Le cifre disponibili sono lacunose e i confronti difficili, ma si stima che il tasso di occupazione dei rifugiati raggiungerebbe il 20% tre anni dopo l’entrata nel paese, e si attesterebbe dopo dieci anni di soggiornotra il 30% e il 60%a dipendenza della categoria. Ciò contrasta sia con il tasso d’occupazione dei residenti (tuttora superiore all’80%), che con rilievi fatti in altri paesi. In Germania, ad esempio, il tasso di occupazione dopo dieci anni è quasi alla pari con la popolazione residente. In Canada, dopo solo un anno dall’entrata nel paese, 50% dei rifugiati ha un posto di lavoro.
Come mai questi risultati tutto sommato deludenti? Di recentealcuni economisti svizzeri hanno cercato di accertarne empiricamentele cause. Tra i fattori determinanti,essi rivelanoi limiti posti dalla legge alla mobilità intercantonale dei rifugiati,la durata delle procedure – fonte d’incertezze per i potenziali datori di lavoro –e i meccanismi che assegnano in modo aleatorio i rifugiati ai cantoni, meccanismi che non tengono conto di affinità linguistiche o professionali preesistenti. Le differenze tra i cantoni nelle prestazioni dell’aiuto socialee nelle misure d’integrazione avrebbero invece un impatto trascurabile sull’occupazione. Rimane invece ancora tutto da studiare l’impatto creato dall’introduzione di salari minimi obbligatori o l’ampliamento dei contratti collettivi di lavoro sulle prospettive d’impiego dei rifugiati. L’ipotesi che questi meccanismi per nulla favoriscano l’integrazione sul mercato del lavoro, creando invece ulteriori barriere all’impiegodei rifugiati, non mi pare però strampalata.
Questo podcast è stato pubblicato il 11.01.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
In linea di massima, i bilanci delle economie domestiche negli ultimi anni si sono continuamente rafforzati.
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Marco Salvi
Gli svizzeri sono davvero sovraindebitati?
PlusvaloreIn linea di massima, i bilanci delle economie domestiche negli ultimi anni si sono continuamente rafforzati.
A differenza dei nostri vicini, in Svizzera non è tanto l’indebitamento pubblico a far discutere economisti e mondo politico quanto piuttosto l’indebitamento privato, il 95 percento del quale è costituito da prestiti ipotecari. Così, nonostante il basso tasso di proprietari, ci ritroviamo tra i primi al mondo per quanto riguarda l’indebitamento immobiliare, con in media più di mezzo milione di franchi di debito per proprietario. Ma anche rispetto al PIL (la somma di tutti i redditi guadagnati in un anno), il nostro livello di indebitamento è quasi due volte superiore alla media della zona euro.
Ecco un altro motivo d’angoscia per chi già dubita della stabilità della nostra economia? Penso di no – e ciò per due buone ragioni. Il debito ipotecario va prima di tutto raffrontato non tanto al reddito quanto al valore degli immobili poiché questo rapporto misura al meglio il rischio di perdite per il settore bancario. E da noi, se le ipoteche sono da record, i prezzi degli immobili lo sono ancora di più. Tanto che il rapporto prestito/valore nell’ultimo decennio è sceso di ben dieci punti percentuali, e con esso sono diminuiti i rischi sistemici legati all’indebitamento privato.
I segnali sono ancora più chiari se consideriamo l’onere finanziario legato al pagamento degli interessi ipotecari. Mentre all’inizio degli anni Novanta le economie domestiche spendevano il 10 per cento del reddito per il pagamento degli interessi, alla fine del 2019 questo dato era solo del 2 per cento. La ragione è presto individuata: il calo dei tassi d’interesse ha fortemente ridotto il costo del debito.
Certo, la situazione è meno rosea per i nuovi proprietari. Ma questi rappresentano solo una piccola parte dell’insieme dei proprietari. In linea di massima, i bilanci delle economie domestiche negli ultimi anni si sono continuamente rafforzati.
Paradossalmente, la pandemia contribuisce a questo miglioramento poiché al momento si osserva un forte aumento dei risparmi. Ragione in più per mantenere un atteggiamento sereno rispetto all’indebitamento privato degli Svizzeri. Anche perché i problemi veri al momento non mancano.
Questo podcast è stato pubblicato il 07.12.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Il vaccino anti-Covid è anche una vittoria dei mercati
Plusvalore
L’impatto positivo della globalizzazione nella lotta contro la pandemia
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Marco Salvi
Il vaccino anti-Covid è anche una vittoria dei mercati
PlusvaloreL’impatto positivo della globalizzazione nella lotta contro la pandemia
Nelle ultime settimane, due società di biotecnologia, la statunitense Moderna e la tedesca BioNtech (quest’ultima in collaborazione con il gigante farmaceutico americano Pfizer)hanno annunciato risultati incoraggianti riguardante l’efficacia dei loro vaccini contro il Covid-19, vaccini attualmente in fase avanzata di sviluppo. Certo, è ancora troppo presto per dichiarare vittorianella lotta contro la pandemia e per celebrare trionfi, proprio mentrein Svizzera e in altri paesi si registra un numero record di decessi da Covid.Eppure, la storia di questi due vaccini illustra in modo positivo alcuni concetti economici che alle nostre latitudini troppo spesso vengono trattati unicamente in chiave critica.
La globalizzazione dapprima. Questo vaccino ne è per molti versi unesempio particolarmente emblematico: ricerca e sviluppo negli Stati Uniti e in Germania, produzione che avverrà in parte in Svizzera, test clinici per misurarne l’efficacia e valutarne i rischi svolti in mezzo mondo. E la globalizzazione va qui di pari passo conl’immigrazione: I fondatori della BioNtech, UğurŞahin e Özlem Türeci, sono una coppia di migranti turchi. Il padre di Şahinera un Gastarbeiter, operaio della Ford. E immigrato lo eragià il fondatore della Pfizer, Karl Pfizer, che – quasi due secoli fa –aveva lasciato il Baden-Württenberg per Brooklyn.
Ilsuccesso del vaccino è però anche quello dei mercati, e più particolarmente del «venture capital», l’apporto di capitale per finanziare l’avvio di attività insettori ad alto potenziale– ma anche ad alto rischio. Sia BioNTech che Modernapuntavano da oramai un decennio su unatecnologia genetica che a lungo ha suscitato speranze enormi, ma che finora si era scontrata con ostacoli biologici insormontabili. Tanto che dallasua fondazione, avvenuta nel 2010, a oggi Moderna non ha commercializzato un solo prodotto, accumulando perdite pari a un miliardo e mezzo di dollari.
Ciononostante,al momento dell’entrata in borsa, avvenuta nel 2018, Modernaera stata valutata a ben 7,5 miliardi di dollari. Ciò aveva portati alcuni critici del «venture capital» – tra i quali troviamo anche l’influente economista Mariana Mazzucato – a farne un ennesimosimbolodegli eccessi del capitalismo. Oggiinvece il lungo fiato degli investitori si rivela lungimirante e la loro pazienza giustamente ripagata.Se davveroil mercato dei capitali fosse orientato verso guadagni a corto termine, il settore delle biotecnologie non esisterebbe nemmeno.
Questo podcast è stato pubblicato il 23.11.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Uno strumento efficace ma ad uso temporaneo
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Marco Salvi
Gli effetti a lungo termine del lavoro ridotto
PlusvaloreUno strumento efficace ma ad uso temporaneo
Mentre in primavera si temeva che la crisi del covid-19avrebbe avuto un impatto devastante sull’economia svizzera, durante l’estate sono state smentite le previsioni più cupe. Certo, con l’arrivo ad ottobre di una secondaondata, le prospettive sono ora nuovamente riviste al ribasso. Ciononostante, le tracce lasciate dalla pandemia sul mercato del lavoro si sono rivelate meno gravi di quanto si temesse inizialmente. In effetti, malgrado l’aumento del tasso di disoccupazione a livello nazionale di quasi un punto percentuale tra febbraio e maggio, non si è superato il 3,4%. Anche il calo del tasso di occupazione – di un punto nel secondo trimestre –è stato tutto sommato contenuto.
Labuona tenuta va sicuramente messa almeno in parte sul conto del lavoro ridotto. Minimizzando l’onere amministrativo,si è potuto garantire il tempestivo pagamento delle indennità. Queste procedure semplificate erano adeguate alla situazione straordinaria, ma non sono state prive di svantaggi: hanno facilitato gli abusi e sono affiorate differenze di trattamento tra le aziende e i settori di attività.
Il Consiglio federale ha deciso a luglio di prolungare la durata massima di percezione dell’indennità per lavoro ridotto da 12 a 18 mesi. Secondo me, questa ulteriore espansione del lavoro ridotto va rivista in chiave più critica. Soluzioni provvisorie non dovrebbero avere carattere permanente. Nonostante i numerosi vantaggi, il lavoro ridotto comporta il rischio di meramente ritardare la disoccupazione – non di evitarla. Gli studi sull’impatto della misura nelle recessioni passate sono inconcludenti: mentre durante la crisi finanziariadel 2008 il lavoro ridotto si è avverato uno strumento efficace, nelle recessioni precedenti lo era stato molto meno.
Il successo del lavoro ridotto dipende quindi dalle particolarità della crisi economica. Se la pandemia si prolungherà, non si potrà a termine evitare un doloroso ma necessarioaggiustamento strutturale. Al momento però, il rischio che il lavoro ridotto non faccia che sostenere artificialmente degli impieghi destinati presto o tardi a sparire, è un rischio che il nostro paese si può ancora permettere di correre.
Questo podcast è stato pubblicato il 09.11.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
In occasione delle votazioni del 27 settembre scorso, Ginevra ha approvato l’introduzione del salario minimo obbligatorio. Sono ora quattro i cantoni, tra qui il Ticino, che già impongono (o presto introdurranno) minimi salariali. Altre iniziative popolari sono in preparazione, ad esempio nelle città di Zurigo e Basilea.
Ciò ravviva un dibattito, oramai centenario, riguardo agli effetti sull’impiego del salario minimo. Per i suoi fautori non vi sarebbe nessun svantaggio da temere; al massimo qualche leggero aumento dei prezzi al consumo o una diminuzione dei profitti delle imprese.
Si tratta però di una visione troppo semplicistica. Certo, l’impatto sull’impiego dipende dal livello del limite salariale imposto. In Svizzera, il 95 percento degli occupati guadagna più di 23 franchi all’ora netti. Un salario minimo al di sotto di questo limite non influenzerebbe drasticamente sulla domanda di lavoro delle imprese e, quindi, sul numero degli impeghi.
Non si tratta però solo di una questione di numeri. Il lavoro non è un bene come un altro – e il salario non è l’unica misura per giudicare dell’attrattività o meno di un posto. Negli ultimi anni, economisti hanno messo in evidenza altri margini di adattamento delle imprese ai salari minimi, al di là quindi della soppressione o meno di posti di lavoro.
Ad esempio, l’imposizione di salari minimi vincolanti può ridurre la tolleranza dei datori di lavoro per errori o ritardi dei propri dipendenti, e tende a creare un clima di lavoro più teso. Vi è anche una riduzione della disponibilità delle aziende a concedere orari flessibili e, più in generale, un adattamento al ribasso dei compensi non-monetari.
Ma è soprattutto il bilancio sociale dei salari minimi che sembra più discutibile. Contrariamente ad altre politiche anti-povertà come l’assistenza sociale o le prestazioni complementari, il salario minimo obbligatorio non tiene conto della situazione economica di chi ne beneficia ed è quindi poco mirato. Studi statunitensi mostrano ad esempio che un numero importante di coloro che ricevono il salario minimo vive in economie domestiche benestanti; sono ad esempio studenti che lavorano part-time nella gastronomia o nel commercio al dettaglio.
Allo stesso tempo, il salario minimo crea un’ulteriore barriera all’entrata sul mercato del lavoro per le persone più vulnerabili, con poche qualifiche professionali. Esse infatti si ritrovano in concorrenza con attivi più produttivi e più qualificati; lavoratori che prima dell’introduzione dei minimi salariali, non avrebbero considerato questi posti di lavoro. Chi prima quindi avrebbe trovato un’occupazione, anche se retribuita meno del salario minimo, si ritrova allora escluso dal mercato del lavoro – a salario zero.
Questo podcast è stato pubblicato il 26.10.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Perché non è davvero incomprensibile che alcune professioni "essenziali" non siano automaticamente tra le meglio retribuite
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Marco Salvi
Il paradosso delle professioni essenziali
PlusvalorePerché non è davvero incomprensibile che alcune professioni "essenziali" non siano automaticamente tra le meglio retribuite
Infermiere, cassiere, fattorini: durante il lockdown, queste professioni – che molti qualificavano di umili, con retribuzioni in genere modeste – si sono improvvisamente rilevate indispensabili. Per tutto il periodo del lockdown, i lavoratori «essenziali» non hanno mai smesso di lavorare, mettendo a volta in pericolo la propria salute per fornire a tutti noi servizi irrinunciabili, nonostante delle paghe spesso al disotto della media.
E subito alcuni ne hanno chiesto a gran voce la rivalutazione salariale, giudicando incomprensibile che mestieri tanto importanti per la nostra società non siano meglio retribuiti, mentre altri, per niente «essenziali» – dal calciatore al professore di economia – portano a casa buste paga ben più sostanziose; quasi a riprova del fatto che nella nostra economia di mercato qualcosa non funziona.
Ma è davvero così incomprensibile che certe professioni «essenziali» non siano automaticamente tra le meglio pagate? No, almeno non per gli economisti e le economiste in ascolto che avranno riconosciuto in questa controversia il classico paradosso dell’acqua e dei diamanti. Comunemente associato ad Adam Smith, il paradosso consiste nell’apparente contraddizione tra il valore di gran lunga inferiore dell’acqua rispetto a quello dei diamanti, nonostante il fatto che l’acqua – al contrario dei diamanti – sia indispensabile all’essere umano.
Il paradosso venne risolto definitivamente più di cent’anni fa dalla cosiddetta «rivoluzione marginalista»: l’acqua costa poco e ha poco valore perché l’offerta ne è abbondante, tanto che il valore marginale (cioè, il valore di un litro in più) è pressoché nullo. I diamanti invece costano molto perché l’offerta ne è limitata e il valore marginale elevato. Ed è quest’ultimo a determinarne il prezzo, così come è il valore marginale del lavoro eseguito a determinare il salario.
Certo, per alcune professioni, questo valore era ancora più elevato del solito durante la pandemia. Se questa dovesse continuare, ci si può aspettare a rivalutazioni salariali. Ma stiamo attenti a cosa auspichiamo: saremmo molto più poveri se tutti i beni essenziali fossero costosi, e solo quelli superflui a buon mercato.
Questo podcast è stato pubblicato il 12.10.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Uno.
Plusvalore
La domanda di alloggi dipende in modo fondamentale dal livello dei redditi
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Marco Salvi
Prezzi immobiliari: un problema fatto in casa
PlusvaloreLa domanda di alloggi dipende in modo fondamentale dal livello dei redditi
È tempo di vendemmie e votazioni – e si torna a discuteredell’impatto dell’immigrazione sul mercato immobiliare svizzero.A prima vista, il rapporto tra i due sembrerebbe facile da stabilire: dall’entrata in vigore della libera circolazione delle persone tra Svizzera e UEnel 2002, i prezzi delle case sono cresciutiin media del 56%, mentre allo stesso tempo la popolazione residente è aumentata del 17%.
Tuttavia, demografia e immigrazionenon sono i soli fattori a determinare prezzi e affitti. Anzi, l’economia urbana ci insegna che non è tanto il numero di abitanti quanto quello delle famiglie a influenzare la domanda di alloggi –essendo ogni appartamento occupato da una sola economia domestica. E da decenni oramai la crescitadel numero delle famiglie supera quella della popolazione. Dal 2000 ad oggi la dimensione media delle economie domestiche in Svizzera è diminuita del 7% ed è ora inferiore a 2 persone.
La domanda di alloggi dipende anchein modo fondamentale dal livello dei redditi. Studi nazionali e internazionali mostrano che la superficie abitata cresce proporzionalmente al reddito.Insomma, l’immigrazione ha avuto sì un effetto sui prezzi, mal’aumento dei redditi e la diminuzione dei tassi d’interesse hanno avuto un impatto ben più determinante. Secondo una nostra stima recente, se la libera circolazione con l’UE non ci fosse stata,il rincaro dal 2002 dei prezzi delle case in Svizzera sarebbero stato del 49% invece che del 56%:
E gli affitti? Contrariamente ai prezzi delle case, determinati da domanda e offerta, essi sono fortemente regolamentati. Secondo il nostro diritto di locazione, l‘aumento della domanda a cui accennavo prima, non è un motivo valido per rivalutare i canoni locativi. Concretamente, ciò significa che la stragrande maggioranza degli inquilini svizzeri –tutti coloro che negli ultimi anni non hanno traslocato –non ha subito pressioni supplementaria causa dall’immigrazione.
Anzi, parecchi locatarihanno approfittato di riduzioni dell’affitto, compliceil tonfo dei tassi ipotecari. Nel complesso,il peso delle spese abitativenei budget delle famiglie è diminuito dall’introduzione della libera circolazione. Secondo dati dell’Ufficio federale di statistica, mai prima d’ora in questo secolo le famiglie hannodevolutouna parte minore del loro reddito all’alloggio: appena il 14% del reddito lordo in media.
Certamente, nelle grandi cittàla carenza di alloggi si fa sempre sentire. Non è però un fenomeno nuovo: da decenni si fatica a trovare un appartamento al centro di Zurigo o di Ginevra. Questa carenzahapiù a che fare con la politica edilizia delle città (che spesso ostacola la costruzione) che con l’immigrazione dall’UE.
In conclusione, un effetto dell’immigrazione sul mercato immobiliare c’è stato, ma di portata ben più limitata di quanto avanzino i critici della libera circolazione. Nei centri invece, la carenza di alloggi rimane un problema «fatto in casa».
Questo podcast è stato pubblicato il 31.08.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
L'influenza dell'economia sulla politica attraverso il lobbismo è sopravvalutata
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Marco Salvi
Ma davvero l’economia controlla la politica?
PlusvaloreL'influenza dell'economia sulla politica attraverso il lobbismo è sopravvalutata
«Influenze nascoste, intrecci problematici, accesso privilegiato»: il sottotitolo di un recente rapporto dell’ONG Transparency International sul lobbismo in Svizzera esprime in modo sintetico il diffuso scetticismo che regna nel nostro paese nei confronti delle attività di lobbying e dei lobbisti stessi, soprattutto se al soldo dell’economia. Le aziende vi sono accusate di cercare costantemente di influire sulla volontà popolare. Secondo il rapporto, esse impegnerebbero «ingenti risorse finanziarie» per esercitare un ascendente persino sulla democrazia diretta – un luogo comune, questo, che i perdenti delle votazioni popolari di ieri non hanno mancato di reiterare.
Dati concreti sul finanziamento della politica da parte dell’economia sono però scarsi. In Svizzera, le normative sul finanziamento dei partiti sono blande rispetto a quelle vigenti in altre nazioni europee o negli Stati Uniti. I pochi dati disponibili consentono ciononostante di trarre alcune conclusioni sull’entità effettiva di queste attività. Ad esempio, secondo un sondaggio dell’associazione Actares, nel 2017 le aziende svizzere quotate in borsa avrebbero versato in totale 5,5 milioni di franchi a partiti, candidati o campagne politiche.
A prima vista, ciò può sembrare una somma ragguardevole. Tuttavia, essa impallidisce al confronto dei budget pubblicitari delle imprese. Già solo la Migros e la Coop, con budget di 250 milioni ciascuno, spendono somme ben più sostanziali per la pubblicità. Nel complesso, le spese pubblicitarie delle aziende svizzere ammontano a cinque miliardi di franchi all’anno. Anche se quindi non conosciamo l’importo esatto speso dall’economia per lobbying e campagne politiche, si può quindi affermare con buona certezza che queste rappresentano solo una frazione delle spese pubblicitarie – questo nonostante il fatto che il diritto svizzero consenta loro di sborsare somme quasi illimitate per attività di lobbying, e senza obblighi di documentazione.
Insomma, se l’economia davvero esercita un’influenza così straordinaria sulla politica federale, come mai le imprese svizzere spendono solo qualche milioncino in attività di lobbying? Beh, forse perché – contrariamente al luogo comune – l’economia il controllo sulla politica non ce l’ha. E le imprese trovano più conveniente investire risorse e tempo nel cercare di convincere consumatori e clienti piuttosto che politici.
Questo podcast è stato pubblicato il 28.09.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Uno.
Plusvalore
Il mercato del lavoro svizzero è uno dei più mobili in termini di salari
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Marco Salvi
La Svizzera rimane un paese di opportunità
PlusvaloreIl mercato del lavoro svizzero è uno dei più mobili in termini di salari
In Svizzera le disparità di reddito sono relativamente contenute, soprattutto se si considera la distribuzione dei salari. Ma c’è una carenza cruciale nel guardare alla distribuzione del reddito o della ricchezza in un dato momento: si tratta di una considerazione puramente statica. Essa dice poco su quello che è probabilmente il criterio di distribuzione più importante: la distribuzione delle opportunità. In altre parole: a chi da noi parte da circostanze modeste, riesce il “cambio di classe”?
Un nuovo studio di Patrick Chuard e Veronica Grassi dell’Università di San Gallo permette per la prima volta di rispondere in modo preciso a questa importante domanda. I ricercatori dell’Università di San Gallo hanno collegato dati salariali dell’AVS, informazioni sulla situazione familiare e elementi del censimento per costituire un quadro abbastanza completo della situazione socio-economica di quasi un milione di persone appartenenti alla generazione X, nate cioè tra il 1967 e il 1984, e dei loro genitori.
Il risultato in una frase: La Svizzera, davvero, è un paese di opportunità. A differenza degli Stati Uniti, un tempo famosi per il “sogno americano” e le carriere da lavapiatti, dove la mobilità sociale ristagna, vi è da noi una correlazione bassa tra il reddito dei figli e quello dei loro genitori. Ad esempio, in Svizzera, un figlio trentenne con un padre nel percento più basso della distribuzione dei salari guadagna all’anno in media solo 12’000 franchi in meno rispetto a un coetaneo con un padre “ricco” (nel 1 percento dei redditi più elevati).
Che dire però della mobilità sociale assoluta? I figli oggi trentenni guadagnano di più dei loro genitori quando avevano la loro età? Questo aspetto della mobilità sociale dipende anche dalla crescita economica: se tutti i salari ristagnano, non c’è mobilità assoluta del reddito, anche se quella relativa rimane invariata.
Ebbene, così non è. In Svizzera, circa il 54 per cento dei trentenni della generazione X guadagna più del loro padre alla loro stessa età, mentre circa l’88 per cento delle figlie guadagna più delle madri. Quest’ultima cifra riflette la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Tuttavia, solo il 18 per cento delle trentenni guadagna più del padre.
Nel complesso, lo studio dimostra che il mercato del lavoro svizzero è molto mobile. Anzi, il nostro è uno dei paesi con la mobilità salariale più elevata. La permeabilità del sistema educativo elvetico è una ragione importante per questo dinamismo. Infatti, benché la scelta del percorso educativo (università o apprendistato) sia molto influenzata dal reddito dei genitori, la posizione relativa delle giovani generazioni nella distribuzione dei salari non dipende tanto dal loro percorso educativo. Un diploma universitario rimane essenziale solo per accedere alla fascia di reddito più alta.
Questo podcast è stato pubblicato il 14.09.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Il Consiglio federale dovrebbe considerare gli "effetti collaterali" della riduzione del lavoro
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Marco Salvi
I rischi del lavoro ridotto
PlusvaloreIl Consiglio federale dovrebbe considerare gli "effetti collaterali" della riduzione del lavoro
Durante il lockdown ben 190’000 aziende hanno richiesto in Svizzera il lavoro ridotto per i propri dipendenti. Si stima che più di un terzo del totale degli occupati avrebbe ricevuto (o riceverà) un’indennità. È inoltre notizia di questi giorni che il Consiglio federale starebbe valutando la possibilità di prolungare la durata massima del lavoro ridotto da 12 a 18 mesi. L’indennità per lavoro ridotto, ricordiamolo, consiste in un versamento della cassa disoccupazione alle imprese pari all’80 percento della perdita di guadagno se esse rinunciano al licenziamento.
Il lavoro ridotto è diventato quindi uno strumento cardine della risposta economica alla crisi creata dalla pandemia e dal conseguente lockdown. Confrontati ad una frenata violentissima e – speriamo – passeggiera della produzione e degli scambi era essenziale evitare uno tsunami di licenziamenti. A differenza dell’indennità di disoccupazione, il lavoro ridotto permette di mantenere la relazione tra impresa e dipendente. Si preservano così know-how e competenze specifiche che altrimenti rischierebbero di andare perse.
Vi è però un rovescio della medaglia. Per le imprese che fanno capo al lavoro ridotto vige un divieto di assunzioni. Chi, ciononostante, assume nuovo personale rischia di vedere compromesso il proprio diritto a percepire le indennità per tutta l’azienda.
Questa condizione è necessaria per evitare gli abusi. Ma essa potrebbe creare serie difficoltà se la crisi economica dovesse perdurare, e se alla disoccupazione parziale si aggiungessero anche ondate di licenziamenti secchi. Poiché molte aziende sono vincolate dagli obblighi del lavoro ridotto e non assumono, chi perde il proprio posto si ritrova su un mercato del lavoro con poca offerta. Alcune ditte sarebbero interessate ad assumere il personale licenziato dai concorrenti, ma non possono farlo prima di uscire dal lavoro ridotto.
Secondo recenti rilievi del Politecnico di Zurigo, mentre i licenziamenti sarebbero in leggero aumento, le nuove assunzioni sarebbero già in forte diminuzione. Speriamo quindi che il Consiglio federale, prima di prolungarne la durata, terrà ben conto degli «effetti collaterali» del lavoro ridotto – uno strumento efficace, ma a doppio taglio.
Questo podcast è stato pubblicato il 15.06.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Nel suo insieme il sistema sociale svizzero fino ad ora ha reagito bene alla crisi
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Marco Salvi
Il ritorno della povertà?
PlusvaloreNel suo insieme il sistema sociale svizzero fino ad ora ha reagito bene alla crisi
Le lunghe file di «sans-papiers» a Ginevra e in altre città svizzere, in attesa di ricevere un aiuto d’urgenza del valore di pochi franchi, hanno rilanciato il dibattito sulla povertà e sulle ripercussioni della pandemia sul nostro stato sociale. Secondo le stime, vi sarebbero attualmente 75’000 «sans-papiers» in Svizzera, ovvero persone senza permesso di lavoro che risiedono illegalmente nel paese. Esse sono spesso prive di copertura sociale. Fino ad ora gestivano autonomamente le proprie necessità, finanziandole con il reddito del lavoro. Venuto questo improvvisamente a mancare, una parte di loro si è ritrovata letteralmente sul lastrico.
Le difficoltà dei “sans-papiers” illustrano la portata di questa crisi e anche la sua novità. L’apparire di un nuovo virus si traduce in una miriade di situazioni impreviste – impreviste anche dal sistema sociale. Queste situazioni richiedono risposte inconsuete, e nel caso specifico è lodevole l’iniziativa del Canton Zurigo di stanziare subito (modesti) aiuti d’emergenza.
Bisogna però diffidare dalle estrapolazioni facili. Il problema dei «sans-papiers» durante il lockdown è stato certamente reale ed urgente, ma anche localizzato e temporaneo. Nel suo insieme il sistema sociale svizzero fino ad ora ha reagito bene alla crisi. Sia i salariati – cioè circa il 90 percento della popolazione attiva – che i pensionati non hanno patito in termini di reddito durante la crisi. Gli introiti mancanti sono stati sostituiti quasi interamente da pagamenti delle assicurazioni sociali, in particolare da quelli dell’assicurazione disoccupazione. E poiché con il lockdown sono parallelamente diminuite le occasioni di consumo, si registra – in Svizzera come in altri paesi – un forte aumento del risparmio; aumento che tra l’altro contribuisce a mantenere bassi i tassi d’interesse.
Finora sono state soprattutto le aziende, in particolare le piccole e medie imprese (PMI), e lo stato stesso ad aver assorbito lo shock economico del virus – come del resto è giusto che sia. In tempi normali gli imprenditori ricevono un premio pari al 6 percento annuo in media storica. Lo stato invece ridistribuisce i rischi che non possono essere assicurati in modo privato – quale appunto il rischio disoccupazione. Insomma, fino ad ora tutti hanno fatto la propria parte. Continueremo così? Ciò dipenderà ovviamente dalla durata della crisi. Speriamo bene.
Questo podcast è stato pubblicato il 01.06.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Uno.