In che misura possiamo affermare che la crisi pandemica rappresenta uno spartiacque per l’economia e il mercato del lavoro elvetico? Quali cambiamenti hanno un carattere temporaneo, quali invece sono permanenti? Lo Stato sociale e in particolare l’assicurazione contro la disoccupazione o la legge sul lavoro devono essere modificati? Queste le domande poste al centro dell’ultimo studio pubblicato da Avenir Suisse.
Pochi licenziamenti, ma forte calo delle ore lavorate
Uno sguardo agli indicatori tipici del mercato del lavoro evidenzia un impatto sorprendentemente contenuto del Covid-19: il tasso di attività ha segnato una flessione temporanea soltanto durante il primo lockdown e l’aumento di 0,8 punti percentuali della disoccupazione nel 2020 è stato relativamente moderato.
Tuttavia, il 2020 ha registrato un calo del volume di lavoro – vale a dire la somma delle ore effettivamente destinate all’attività produttiva – del 3,7%, una flessione decisamente più marcata rispetto ai passati periodi di recessione. La contrazione non ha toccato tutti in maniera uniforme: secondo gli autori dello studio, Marco Salvi e Valérie Müller, ad accusare maggiormente il colpo della pandemia sul mercato del lavoro sono stati i giovani adulti, i liberi professionisti e i dipendenti part-time. Il neologismo «she-cession», che descrive una recessione prevalentemente sulle spalle delle donne, non ha trovato grande conferma nella realtà lavorativa svizzera. La pandemia ha tuttavia confermato chiaramente che l’occupazione femminile è molto più reattiva e suscettibile alle crisi congiunturali.
Il lavoro ridotto ha salvato 120 000 impieghi
Durante il primo lockdown, fino a un quarto degli occupati ha beneficiato del lavoro ridotto. Secondo l’analisi, senza questo strumento sarebbero spariti 120 000 impieghi e la disoccupazione avrebbe raggiunto quota 5,5% (a fronte del 3,3%). Tuttavia, ogni cosa ha il suo prezzo: oltre a costi nell’ordine di miliardi, il lavoro ridotto rischia sempre più di rimandare a più tardi la disoccupazione e di mantenere a caro prezzo lo status quo strutturale. Alla luce di quanto esposto va considerato con occhio critico, oltre all’aumento a 24 mesi della durata di riscossione del lavoro ridotto, soprattutto l’incremento dell’indennità al 100% della perdita di guadagno per redditi bassi. L’estensione del periodo di riscossione fino a 180 indennità giornaliere da inizio pandemia ha invece contribuito ad allungare la disoccupazione.
Nel 2020 gli stipendi non hanno subito flessioni, al contrario: al netto dell’inflazione il livello salariale è aumentato dell’1,5% rispetto all’anno precedente. Al momento non ci sono segnali che indichino un esacerbarsi delle disparità retributive. L’analisi dei dati ufficiali mostra che anche nelle classi più basse i salari sono aumentati. Anche i servizi dell’assistenza sociale non hanno segnalato alcun deterioramento delle condizioni economiche delle famiglie a basso reddito.
Dar seguito alle richieste di flessibilizzazione normativa
E che ne è del telelavoro? Mentre i sindacati temono tuttora che impatti negativamente sui dipendenti, la stragrande maggioranza dei lavoratori ha invece reagito al cambiamento in modo da positivo a molto positivo. Anche se la gente continuerà a privilegiare l’home office pure quando ci saremo lasciati la pandemia alle spalle, il lavoro in presenza rimane insostituibile, soprattutto per i giovani, coloro che cambiano posto di lavoro e le persone attente alla carriera. Saranno principalmente posti con qualifiche superiori e nei grandi centri ad approfittarne. L’attuale legge sul lavoro costituisce un ostacolo alla flessibilizzazione, raggruppa infatti concetti e termini tipici dell’era industriale e resi ormai obsoleti dalla tecnologia, dai nuovi contenuti del lavoro e dalle abitudini dei lavoratori.