Plusvalore
Per molti ricercatori e ricercatrici, rimanere esclusi dal principale «mercato» europeo della ricerca non è un’opzione
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Marco Salvi
«Horizon Europe»: non è solo questione di soldi
PlusvalorePer molti ricercatori e ricercatrici, rimanere esclusi dal principale «mercato» europeo della ricerca non è un’opzione
«Horizon Europe», il programma quadro dell’Unione europea per la ricerca e l’innovazione, è uno dei grandi successi dell’UE. Non c’è programma al mondo che promuova la cooperazione transnazionale nella ricerca su una scala altrettanto ampia. Horizon dispone di stanziamenti sostanziali (quasi 100 miliardi di euro su un periodo di 6 anni), e i suoi numerosi programmi coprono l’intera catena dell’innovazione; dall’idea iniziale per la ricerca di base ai nuovi prodotti e servizi.
Così, quando il 22 giugno 2021 l’UE ha informato la Svizzera che non sarebbe più considerata quale partecipante pienamente associato all’attuale programma, ma solo come paese terzo, l’apprensione nel settore della ricerca è stata subito grande. Queste inquietudini non si sono ancora placate.
Tra il 2014 e il 2020, le partecipazioni svizzere a Horizon sono state più di cinquemila. Spesso gli istituti svizzeri vi hanno assunto un ruolo leader: i Politecnici federali, ad esempio, nel 45 percento dei casi. Il Consiglio federale ha promesso di compensare i finanziamenti europei con fondi interni. Ma un recente sondaggio rivelava che l’88% degli istituti universitari svizzeri non considera queste soluzioni di ripiego come equivalenti.
Infatti, l’importanza di Horizon va ormai ben oltre la capacità di mobilizzare finanziamenti. La partecipazione a un programma è diventata un segnale ambito dai ricercatori – un sigillo di approvazione della comunità scientifica. Studi empirici mostrano che chi riceve il sostegno del Consiglio Europeo della Ricerca (ERC), o meglio ancora ne dirige un progetto di ricerca, ne ricava spesso una spinta importante alla carriera.
I ricercatori sono una categoria professionale molto mobile a livello internazionale. La «caccia» ai talenti scientifici si è intensificata. Inoltre, nella ricerca diventa sempre più importante potere fare rete. Lo sottolinea il fatto che la proporzione di pubblicazioni scientifiche con più co-autori è aumentata notevolmente negli ultimi anni. Le collaborazioni di ricerca contribuiscono all’attrattiva di un’università per ricercatori altamente qualificati e mobili. Non sorprende quindi che ben il 75% degli istituti universitari svizzeri intervistati ha dichiarato di non essere più ugualmente attraente come datore di lavoro senza la partecipazione a Horizon Europe.
Insomma, bisogna riconoscerlo: con Horizon l’UE è riuscita a creare un «mercato» internazionale della ricerca altamente competitivo. Non sarà facile per le università svizzere trovare sostituti adeguati. Per molti ricercatori, soprattutto per i migliori, rimanerne esclusi non è un’opzione.
Questo podcast è stato pubblicato il 7.2.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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Le forze della concorrenza costringono anche gli innovatori
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Marco Salvi
A chi approfitta la Regina degli scacchi?
PlusvaloreLe forze della concorrenza costringono anche gli innovatori
Qualche anno fa erano in pochi a scommettere sul futuro degli scacchi. Vittima collaterale della fine della guerra fredda per gli uni; gioco reso obsoleto dal progresso tecnologico per gli altri, gli scacchi sembravano oramai in lenta via di estinzione. Dimenticato dai media e abbandonato dagli sponsor, il nobil giuoco faticava a adattarsi ai nuovi usi sociali del tempo libero.
O almeno così sembrava, finché il lockdown e una serie TV di successo non lo hanno bruscamente fatto tornare di moda. Uscita su Netflix a ottobre del 2020, La regina degli scacchi è diventata un cult in pochissimo tempo, registrando visualizzazioni da record. A fine anno la serie era tra le più gettonate in ben 92 paesi.
Questo successo ha avuto un effetto trainante su tutto l’ecosistema scacchistico. E non parlo solo delle vendite di scacchiere, introvabili lo scorso Natale. Chess.com, la principale piattaforma online al mondo, ha registrato da ottobre più di sei milioni di nuovi utenti. Gli scacchi sono attualmente la tendenza più in crescita nel settore del gaming, tanto che su Twitch, la piattaforma di streaming di videogiochi di proprietà di Amazon, alcune partite hanno recentemente attirato centinaia di migliaia di spettatori in diretta.
Un gioco centenario, rilanciato in versione online da un’unica serie TV? Dietro al nuovo boom degli scacchi si cela anche un insegnamento economico importante: gli imprenditori-innovatori spesso generano profitti ben in eccesso di quelli che riescono direttamente a monetizzare per il proprio tornaconto.
Questo è particolarmente vero per quanto riguarda il progresso tecnologico. Come stimato alcuni anni fa da William Nordhaus, premio Nobel di economia nel 2018, la parte del plusvalore catturata dai produttori-innovatori è assai modesta, in media attorno al due percento. In altre parole, Nordhaus stima che il 98 percento dei benefici sociali (valutati in termini di maggior produttività) del progresso tecnologico non vengono appropriati direttamente da chi ne è all’origine. Le forze della concorrenza costringono anche gli innovatori di maggior successo a versare gran parte dei benefici delle loro innovazioni sotto forma di riduzione dei prezzi, espansione della produzione e miglioramenti della qualità.
Allo stesso modo, mentre la Regina degli Scacchi è riuscita a rinvigorire l’interesse per un gioco centenario, saranno gli streamer di Twitch e le piattaforme di gioco online ad approfittarne – anche per il piacere di noi giocatori.
Questo podcast è stato pubblicato il 08.03.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Il vaccino anti-Covid è anche una vittoria dei mercati
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L’impatto positivo della globalizzazione nella lotta contro la pandemia
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Marco Salvi
Il vaccino anti-Covid è anche una vittoria dei mercati
PlusvaloreL’impatto positivo della globalizzazione nella lotta contro la pandemia
Nelle ultime settimane, due società di biotecnologia, la statunitense Moderna e la tedesca BioNtech (quest’ultima in collaborazione con il gigante farmaceutico americano Pfizer)hanno annunciato risultati incoraggianti riguardante l’efficacia dei loro vaccini contro il Covid-19, vaccini attualmente in fase avanzata di sviluppo. Certo, è ancora troppo presto per dichiarare vittorianella lotta contro la pandemia e per celebrare trionfi, proprio mentrein Svizzera e in altri paesi si registra un numero record di decessi da Covid.Eppure, la storia di questi due vaccini illustra in modo positivo alcuni concetti economici che alle nostre latitudini troppo spesso vengono trattati unicamente in chiave critica.
La globalizzazione dapprima. Questo vaccino ne è per molti versi unesempio particolarmente emblematico: ricerca e sviluppo negli Stati Uniti e in Germania, produzione che avverrà in parte in Svizzera, test clinici per misurarne l’efficacia e valutarne i rischi svolti in mezzo mondo. E la globalizzazione va qui di pari passo conl’immigrazione: I fondatori della BioNtech, UğurŞahin e Özlem Türeci, sono una coppia di migranti turchi. Il padre di Şahinera un Gastarbeiter, operaio della Ford. E immigrato lo eragià il fondatore della Pfizer, Karl Pfizer, che – quasi due secoli fa –aveva lasciato il Baden-Württenberg per Brooklyn.
Ilsuccesso del vaccino è però anche quello dei mercati, e più particolarmente del «venture capital», l’apporto di capitale per finanziare l’avvio di attività insettori ad alto potenziale– ma anche ad alto rischio. Sia BioNTech che Modernapuntavano da oramai un decennio su unatecnologia genetica che a lungo ha suscitato speranze enormi, ma che finora si era scontrata con ostacoli biologici insormontabili. Tanto che dallasua fondazione, avvenuta nel 2010, a oggi Moderna non ha commercializzato un solo prodotto, accumulando perdite pari a un miliardo e mezzo di dollari.
Ciononostante,al momento dell’entrata in borsa, avvenuta nel 2018, Modernaera stata valutata a ben 7,5 miliardi di dollari. Ciò aveva portati alcuni critici del «venture capital» – tra i quali troviamo anche l’influente economista Mariana Mazzucato – a farne un ennesimosimbolodegli eccessi del capitalismo. Oggiinvece il lungo fiato degli investitori si rivela lungimirante e la loro pazienza giustamente ripagata.Se davveroil mercato dei capitali fosse orientato verso guadagni a corto termine, il settore delle biotecnologie non esisterebbe nemmeno.
Questo podcast è stato pubblicato il 23.11.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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La pandemia di Covid-19 sta avendo gravi ripercussioni economiche, e nelle ultime settimane il Consiglio federale ha adottato numerose misure che cercano di mitigarne gli effetti. Ad esempio, sono state messe a disposizione delle imprese, in modo rapido e non-burocratico, ingenti liquidità mentre il ricorso alla disoccupazione parziale è stato…
La pandemia di Covid-19 sta avendo gravi ripercussioni economiche, e nelle ultime settimane il Consiglio federale ha adottato numerose misure che cercano di mitigarne gli effetti. Ad esempio, sono state messe a disposizione delle imprese, in modo rapido e non-burocratico, ingenti liquidità mentre il ricorso alla disoccupazione parziale è stato facilitato. Ciononostante, sono oggi in tanti – tra i quali parecchi economisti – a chiedere misure e pacchetti di ben più ampio respiro. Così, servirebbero pagamenti a fondo perso per salvare tutte le imprese in difficoltà, garantendo non solo i salari, ma anche il pagamento di interessi o affitti, e addirittura di un minimo di utili aziendali.
Per i fautori del «bailout» generalizzato, le misure coercitive dello stato hanno causato un danno economico alle imprese interessate; pertanto lo stato è tenuto al risarcimento di tutti i danni. Ma la logica dell’argomento è traballante. Se avessimo rinunciato a qualsiasi «lockdown», è molto probabile che la società ne avrebbe patito enormi sofferenze e l’economia ingenti danni. Eppure, secondo il criterio precedente, lo stato non sarebbe stato responsabile di nulla.
Serve quindi ricordare che tra i principi più importanti della nostra democrazia vi è quello che prevede che non si possa dedurre alcun obbligo generale di risarcimento da decisioni politiche – fatta eccezione di quelli definiti nella Costituzione federale, la quale fissa chiari limiti all’esproprio. Se, a mo’ di esempio, questo non fosse il caso, a seguito dell’adozione dell’iniziativa sulle abitazioni secondarie si sarebbe dovuto procedere all’indennizzo generale di tutti i proprietari di terreni nelle regioni turistiche.
Ma vi sono anche solidi motivi economici che ci inducono a guardare con un occhio critico i piani di salvataggio a tappetto accennati poc’anzi. Passata la pandemia, non ritorneremo all’economia di prima. Quei consumatori che negli ultimi mesi hanno imparato ad apprezzare tutti i vantaggi dell’e-commerce non si ripresenteranno nei negozi. Gli entusiasti del smart working difficilmente vorranno riadattarsi ai cubiculi degli «open space». Ebbene, questa grande trasformazione non sarà possibile senza l’impiego di risorse e di investimenti – insomma, senza la mobilizzazione di capitale. Non ha molto senso quindi impegnare una parte ingente di queste risorse scarse per aiuti finanziari statali miranti, che lo si voglia o no, a preservare un mondo oramai già obsoleto.
Questo podcast è stato pubblicato il 04.05.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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Il telelavoro era già in crescita prima della pandemia, ma nelle ultime settimane la sua diffusione è stata – per forza maggiore – fortemente accelerata. Mentre l’anno scorso solo il 5% degli occupati svolgeva più del 50% dei propri compiti lavorativi da casa con il computer, al momento almeno un…
Il telelavoro era già in crescita prima della pandemia, ma nelle ultime settimane la sua diffusione è stata – per forza maggiore – fortemente accelerata. Mentre l’anno scorso solo il 5% degli occupati svolgeva più del 50% dei propri compiti lavorativi da casa con il computer, al momento almeno un quarto degli occupati è costretto a lavorare unicamente da casa.
Ma in che misura lo «smart working» perdurerà dopo che la pandemia sarà passata? Ora che molte aziende (e i loro dipendenti) si sono adattate alle nuove condizioni, non si tornerà alla situazione precedente. Del resto, anche in tempi normali il telelavoro offre alcuni indubbi vantaggi. L’assenza di vincoli orari facilita ad esempio la conciliazione tra famiglia e lavoro.
Ovviamente, se – come ora – le scuole sono chiuse, le condizioni per il lavoro «smart» da casa non sono ideali. Ma persino nella difficile situazione attuale sono in molti ad apprezzare il tempo risparmiato evitando il quotidiano tragitto casa-lavoro.
Il telelavoro ha però anche i suoi limiti. Molte imprese non lo vedono di buon occhio, non sono tanto per la mancanza di controllo quanto per le difficoltà di coordinare il telelavoro. Nelle nostre aziende la produzione in team rimane essenziale. Il telelavoro è invece più adatto ad un tipo di produzione individuale. In molte professioni la produttività del lavoro dipende però dall’uso di macchine e impianti molto specializzati. Insomma, non si può ricreare un laboratorio o una fabbrica in ogni casa.
Secondo nuove stime di Avenir Suisse, in Svizzera un terzo circa delle professioni potrebbe in teoria essere svolta da casa. Il telelavoro è più facile nei servizi, soprattutto nelle professioni maggiormente qualificate: il 37% dei lavoratori altamente qualificati svolge una professione con possibilità di telelavoro, mentre tra i meno qualificati la percentuale è solo del 10%.
In alcuni settori come la ristorazione, il turismo, i servizi alle persone, l’industria, il telelavoro non è oggi un’opzione, e non lo sarà probabilmente mai. Ma il progresso tecnologico e l’evoluzione dell’economia, orientata maggiormente ai servizi e al «knowledge worker», rendono il telelavoro sempre più possibile.
Certo, passato il periodo di confino saremo ben contenti di ritrovare in carne e ossa i nostri colleghi di lavoro – o almeno la gran parte di loro. Sono però convinto che almeno una giornata di telelavoro alla settimana diventerà prima o poi una consuetudine di molti posti di lavoro. E tanto meglio così.
Questo podcast è stato pubblicato il 20.04.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
In un momento di transizione tecnologica come quello attuale, sono in molti a chiedersi quali saranno le forme future del lavoro. Fino ad ora, intelligenze artificiali, robot e economia digitale non hanno sconvolto l’organizzazione del lavoro. La figura tradizionale del dipendente a tempo pieno, alla ricerca di una carriera lineare, con regolari promozioni e aumenti salariali, è ancora molto diffusa.
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Eppure, per molte persone, e in modo particolare per i giovani, il modello standard sta perdendo attrattività. Cresce l’interesse per modalità più flessibili; interesse che va di pari passo con le esigenze di una migliore conciliazione della vita professionale e di quella familiare, nonché con il desiderio di far fruttare le proprie competenze in ambiti di lavoro variegati.
Per intravvedere il futuro del lavoro conviene allora guardare al presente di un settore che da sempre è stato all’avanguardia: parliamo del settore artistico. La musica ad esempio, è stata una delle prime attività economiche globalizzate. Si stima ad esempio che ben 30% dei compositori dell’epoca classica (attivi cioè dalla metà del 17° alla metà del 19° secolo) siano deceduti in un paese diverso da quello in cui erano nati, e che il 45% di essi abbia passato almeno due anni della propria vita lavorativa all’estero – una caratteristica questa oggi comune a molti percorsi professionali, non solo a quelli degli artisti.
Così possiamo speculare che il lavoro futuro in parte ricalcherà l’odierna organizzazione del settore artistico, ad esempio:
una produzione non legata a un posto fisso (fabbrica o ufficio), ma spesso in movimento
l’assenza di un singolo datore di lavoro, sostituito da più committenti
la diversificazione delle forme di reddito, dalla vendita della propria produzione, all’insegnamento, agli incontri (pagati) con mecenati
il lavoro in teams, formati per un progetto dato e per un periodo limitato.
L’aspetto più distintivo del settore artistico risiede però nell’importanza data all’essere autori. Confidiamo quindi che, in futuro, non solo gli artisti ma anche «normali dipendenti» vorranno sempre più definire autonomamente i contenuti del proprio lavoro – rinunciando magari a parte del salario per perseguire il sogno dell’«autoralità».
I robot sono dappertutto, fuorché nelle statistiche
Plusvalore, Podcast
L’andamento recente delle diverse misure di produttività non segnala cambiamenti repentini delle strutture produttive causate dalla digitalizzazione. Anzi, in Svizzera la produttività del lavoro ristagna. Fino ad oggi, la Rivoluzione industriale 4.0 è stata quindi meno rivoluzionaria di quelle precedenti.
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Marco Salvi
I robot sono dappertutto, fuorché nelle statistiche
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L’uscita roboante – è il caso di dirlo – di «Blade Runner 2049» nei cinema di mezzo mondo mi sembra un pretesto sufficiente per riparlare di tecnologia. Motivo centrale del film è la somiglianza tra umani e macchine, quest’ultime oramai in grado anche di procreare. Ad appena 32 anni da questa data fatidica, è forse già possibile rilevare l’impatto di robot, intelligenza artificiale o digitalizzazione che dir si voglia sulla nostra realtà economica?
Per gli economisti, la produttività è la misura statistica più adatta per rispondere a questa domanda. Essa valuta il rapporto tra il valore dei beni creati e le quantità di lavoro o capitale impiegate nella loro produzione. Un’accelerazione del progresso tecnologico alla «Blade Runner» dovrebbe necessariamente essere accompagnata da un forte aumento della produttività del lavoro, con un numero minore di impiegati umani in grado di generare il valore aggiunto attuale. In fondo, è proprio per questo che si costruiscono macchine.
Ebbene, l’andamento recente delle diverse misure di produttività non segnala cambiamenti repentini delle strutture produttive. Anzi, in Svizzera la produttività del lavoro ristagna. Secondo dati del Seco, essa è aumentata fra il 2007 e il 2015 soltanto dello 0,2 percento all’anno, ben al di sotto dei 1,5 percento dei due decenni precedenti. Questo pattern si osserva in tutte le economie più avanzate. Il rallentamento è particolarmente forte se paragonato ai tassi di crescita del XIX secolo o delle «Trente Glorieuses» (1946-1975). In termini di produttività, la Rivoluzione industriale 4.0 sarebbe quindi molto meno rivoluzionaria di quelle precedenti.
Questo fenomeno interroga gli economisti. Per gli uni, esso si spiegherebbe con i costi sempre più elevati dell’innovazione. Se negli anni Settanta erano bastati a Steve Jobs un garage e un tocco di genio per rivoluzionare il settore dei personal computers, oggi cambiamenti di simile levatura richiedono un esercito di costosi ricercatori, avvocati e specialisti del marketing. Secondo altri esperti invece, innovazioni fondamentali come Internet o i Big data non avrebbero ancora permeato in profondità tutti i settori dell’economia. Non sarebbe quindi che una questione di tempo per vederne l’effetto anche sulla produttività. Ma vi è anche chi – alla luce delle statistiche – mette in dubbio la portata effettiva di queste innovazioni tecnologiche che tanto nuove non sarebbero. Per intenderci: Se rapportate a invenzioni come il telefono o il computer, i Big data somigliano un po’ al sequel di un film di successo.
Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 6 novembre 2017 del programma «Plusvalore».
Per gentile concessione di «RSI Rete due».
Marco Salvi
La Grande Sostituzione non ci sarà
Plusvalore
In occasione del primo maggio non sono mancate le profezie sulla fine prossima del lavoro. Ma una visione pessimistica del futuro del lavoro è davvero giustificata? Ciò che si constata è che la Grande Sosituzione non c'è stata e che, nonostante l'introduzione di centinaia di migliaia di sofisticatissime macchine umane dell'ultima generazione, in tutta logica non ci sarà.
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In occasione del primo maggio non sono mancate le profezie sulla fine prossima del lavoro. Secondo alcuni oratori – e persino secondo qualche cronista di Plusvalore – presto non resterà più nulla da celebrare poiché robot e intelligenza artificiale avranno fatto la festa al lavoro umano. Nel migliore dei casi questa Grande Sostituzione manderà molti di noi in pensione anticipata, liberandoci dall’obbligo di guadagnare il pane con il sudore della fronte. Alla peggio, toccherà ritirarci ai margini del mondo, appena tollerati dalle intelligenze digitali, un po’ come quelle tribù di cacciatori-raccoglitori che oggi ancora sussistono ai confini della nostra civiltà. Così, sostengono alcuni, “sarebbe venuto il momento di ripensare l’intero sistema economico”.
Davvero? Si giustifica una visione talmente pessimistica del futuro del lavoro? Scendiamo un attimo dalle pedane imbandierate per dare un’occhiata alle statistiche. Nel 2016 un’impresa svizzera su cinque faticava a trovare personale qualificato, mentre attualmente il tasso di disoccupazione non raggiunge il 4%. Più del 96% degli svizzeri e delle svizzere che desiderano lavorare, può farlo. Ma c’è di più: chi si preoccupa di venire rimpiazzato presto o tardi dai robot, a maggior ragione dovrebbe temere coloro che già oggi sono perfettamente in grado di sostituirci: ovvero, altri umani.
Vent’anni fa vi erano in Svizzera quattro milioni di attivi. Nel frattempo più di un milione di persone hanno fatto il loro ingresso nel mercato del lavoro. Tra questi troviamo giovani, stranieri e molte donne. Ma non per questo chi era attivo vent’anni fa ha perso il posto, travolto da un’ondata di lavoro femminile. Anzi, chi era attivo nel 1997 (e non è ancora andato in pensione) molto probabilmente ha beneficiato di discreti aumenti salariali, a ulteriore riprova del fatto che il lavoro non è diventato più scarso.
Certo, questa evoluzione positiva non ha nulla di scontato. Servono continui investimenti nella formazione e capacità di adattamento. Non ha senso però presupporre una quantità fissa, e quindi esauribile, di compiti da svolgere. È invece giocoforza constatare che la Grande Sostituzione non c’è stata e che, in tutta logica, non ci sarà – nonostante l’introduzione di centinaia di migliaia di sofisticatissime macchine umane dell’ultima generazione.
Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 8 maggio 2017 del programma «Plusvalore». Per gentile concessione di «RSI Rete due».
Marco Salvi
Il valore di un orario di lavoro flessibile
Plusvalore
Uber è una delle ditte più discusse, ammirate e allo stesso tempo odiate del pianeta. Fornisce un servizio taxi tramite un'app che mette in collegamento diretto passeggeri e autisti, questi ultimi spesso non professionisti. Presente oramai a livello mondiale, opera anche in quattro città svizzere. Qui come altrove, Uber viene contestata per l’impiego di lavoro flessibile. Un autista può decidere infatti in ogni momento se accettare o meno la richiesta di un cliente. Inoltre, la remunerazione di una corsa può variare a dipendenza della domanda.
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Uber è una delle ditte più discusse, ammirate e allo stesso tempo odiate del pianeta. Fornisce un servizio taxi tramite un’app che mette in collegamento diretto passeggeri e autisti, questi ultimi spesso non professionisti. Presente oramai a livello mondiale, opera anche in quattro città svizzere. Qui come altrove, Uber viene contestata per l’impiego di lavoro flessibile. Un autista può decidere infatti in ogni momento se accettare o meno la richiesta di un cliente. Inoltre, la remunerazione di una corsa può variare a dipendenza della domanda.
Questa flessibilità preoccupa i sindacati che la considerano sintomo di nuova forma di precariato. Ma come la valutano gli autisti stessi? A ben guardare, la possibilità di scegliere i propri orari sembrerebbe andare a tutto vantaggio degli impiegati piuttosto che dei datori di lavoro. Le aziende preferiscono di regola presenze fisse, sia perché possono così meglio monitorare il lavoro dei propri dipendenti, sia perché spesso i clienti vanno serviti a orari determinati.
In un nuovo studio, quattro economisti californiani analizzano il comportamento in tempo reale di ben un milione di autisti Uber negli Stati Uniti. La versatilità della piattaforma tecnologica di Uber permette ai ricercatori di stimare il cosiddetto «salario di riserva», cioè il salario minimo necessario a indurre l’autista a uscire dal garage.
La ricerca mostra che gli autisti Uber preferiscono lavorare a tempo parziale per poche ore alla settimana, in prevalenza di sera o il sabato pomeriggio. La possibilità di fornire prestazioni in modo flessibile riveste per loro un notevole valore economico. I ricercatori stimano che se gli autisti Uber dovessero fornire le stesse prestazioni ad orari predeterminati, essi richiederebbero un indennizzo supplementare pari in media al 40% del reddito attuale. Senza la possibilità di decidere in maniera autonoma quando e quanto guidare, due terzi di loro preferirebbero rimanere a casa, rinunciando a questa fonte ausiliare di reddito.
Gli economisti americani documentano così il valore per i dipendenti di un orario di lavoro adattabile ai propri bisogni, con possibilità di reagire in modo immediato a imprevisti. Certo, Uber e le altre piattaforme della sharing economy non offrono prospettive di carriera solide a lungo termine. Ciononostante esse potrebbero rappresentare un importante complemento di reddito, specie per i giovani e le persone meno abbienti. A condizione però di preservarne la flessibilità.
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Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 10 aprile 2017 del programma «Plusvalore».
Per gentile concessione di «RSI Rete due».