Plusvalore, Podcast
Il valore del digitale supera di gran lunga il suo contributo alla produzione
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Marco Salvi
2’000 franchi al mese per rinunciare ad Internet
Plusvalore, PodcastIl valore del digitale supera di gran lunga il suo contributo alla produzione
Ce lo sentiamo ripetere quotidianamente: la digitalizzazione porta nuovi modi di produrre, investire, consumare e interagire. Ma al di là del baccano mediatico, qual è l’importanza concreta del settore digitale rispetto ai settori tradizionali dell’economia? E quale il suo valore per la nostra vita quotidiana?
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Saturati con la digitalizzazione
Prima di rispondere a queste domande è importante distinguere tra «settore digitale» e «economia digitale». Quest’ultima ingloba oramai l’insieme dell’economia perché non vi è un’attività – dall’agricoltura all’insegnamento – che faccia oggi a meno di tecnologie digitali. Un recente studio olandese mostrava ad esempio che ben l’86% delle imprese ha una presenza online. Il settore digitale invece è più ristretto. Comprende le attività basilari della digitalizzazione, i prodotti e i servizi delle TIC (le tecnologie dell’informatica e della comunicazione), le piattaforme online e le attività ad esse legate, quali l’economia partecipativa.
Ebbene, secondo una nuova pubblicazione del Fondo Monetario Internazionale, il settore digitale ammonterebbe a solo il 5% delle economie avanzate, se misurato in termini di valore aggiunto, reddito o occupazione. La Svizzera sarebbe tra i paesi più digitalizzati, con un contributo al PIL del settore digitale pari all’8%, simile quindi a quello di banche e assicurazioni.
Gratuito, ma di valore
Queste misure dell’impronta produttiva della digitalizzazione ne sottovalutano però il valore per i consumatori poiché molte delle transazioni digitali – da Facebook a Google – sono gratuite e quindi non contribuiscono direttamente all’aumento del PIL.
In una serie di esperimenti, studiosi del MIT di Boston hanno valutato il risarcimento necessario per indurre i consumatori a rinunciare ai servizi online. Stimano che ci vorrebbero in media ben 14’000 dollari per indurre gli utenti a rinunciare per un solo anno ai servizi dei motori di ricerca. L’email è la seconda categoria di beni digitali più apprezzati, con un «valore di rinuncio» pari a 8’400 dollari, seguita dalle mappe digitali. In tutto, servirebbero ben 25’000 dollari – pari a duemila franchi al mese – per farci rinunciare a tutti i servizi di Internet, a riprova del fatto che il benessere procurato dal mondo virtuale è ormai enorme, e va ben al di là del plusvalore di produzione.
Marco Salvi
I robot sono dappertutto, fuorché nelle statistiche
Plusvalore, Podcast
L’andamento recente delle diverse misure di produttività non segnala cambiamenti repentini delle strutture produttive causate dalla digitalizzazione. Anzi, in Svizzera la produttività del lavoro ristagna. Fino ad oggi, la Rivoluzione industriale 4.0 è stata quindi meno rivoluzionaria di quelle precedenti.
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Marco Salvi
I robot sono dappertutto, fuorché nelle statistiche
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L’uscita roboante – è il caso di dirlo – di «Blade Runner 2049» nei cinema di mezzo mondo mi sembra un pretesto sufficiente per riparlare di tecnologia. Motivo centrale del film è la somiglianza tra umani e macchine, quest’ultime oramai in grado anche di procreare. Ad appena 32 anni da questa data fatidica, è forse già possibile rilevare l’impatto di robot, intelligenza artificiale o digitalizzazione che dir si voglia sulla nostra realtà economica?
Per gli economisti, la produttività è la misura statistica più adatta per rispondere a questa domanda. Essa valuta il rapporto tra il valore dei beni creati e le quantità di lavoro o capitale impiegate nella loro produzione. Un’accelerazione del progresso tecnologico alla «Blade Runner» dovrebbe necessariamente essere accompagnata da un forte aumento della produttività del lavoro, con un numero minore di impiegati umani in grado di generare il valore aggiunto attuale. In fondo, è proprio per questo che si costruiscono macchine.
Ebbene, l’andamento recente delle diverse misure di produttività non segnala cambiamenti repentini delle strutture produttive. Anzi, in Svizzera la produttività del lavoro ristagna. Secondo dati del Seco, essa è aumentata fra il 2007 e il 2015 soltanto dello 0,2 percento all’anno, ben al di sotto dei 1,5 percento dei due decenni precedenti. Questo pattern si osserva in tutte le economie più avanzate. Il rallentamento è particolarmente forte se paragonato ai tassi di crescita del XIX secolo o delle «Trente Glorieuses» (1946-1975). In termini di produttività, la Rivoluzione industriale 4.0 sarebbe quindi molto meno rivoluzionaria di quelle precedenti.
Questo fenomeno interroga gli economisti. Per gli uni, esso si spiegherebbe con i costi sempre più elevati dell’innovazione. Se negli anni Settanta erano bastati a Steve Jobs un garage e un tocco di genio per rivoluzionare il settore dei personal computers, oggi cambiamenti di simile levatura richiedono un esercito di costosi ricercatori, avvocati e specialisti del marketing. Secondo altri esperti invece, innovazioni fondamentali come Internet o i Big data non avrebbero ancora permeato in profondità tutti i settori dell’economia. Non sarebbe quindi che una questione di tempo per vederne l’effetto anche sulla produttività. Ma vi è anche chi – alla luce delle statistiche – mette in dubbio la portata effettiva di queste innovazioni tecnologiche che tanto nuove non sarebbero. Per intenderci: Se rapportate a invenzioni come il telefono o il computer, i Big data somigliano un po’ al sequel di un film di successo.
Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 6 novembre 2017 del programma «Plusvalore».
Per gentile concessione di «RSI Rete due».
Marco Salvi
David Ricardo, président
Plusvalore
Ha di che preoccupare ogni buon economista il fatto che al primo turno delle elezioni presidenziali francesi ben il 40 percento degli elettori abbia votato per due candidati, Marine Le Pen et Jean-Luc Mélenchon, i quali promettevano una politica improntata a un nazionalismo economico puro e duro, fondamentalmente opposta agli scambi commerciali internazionali.
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Ha di che preoccupare ogni buon economista il fatto che al primo turno delle elezioni presidenziali francesi ben il 40 percento degli elettori abbia votato per due candidati, Marine Le Pen et Jean-Luc Mélenchon, i quali promettevano una politica improntata a un nazionalismo economico puro e duro, fondamentalmente opposta agli scambi commerciali internazionali.
Il voto francese avrebbe certamente preoccupato David Ricardo, che con la pubblicazione avvenuta esattamente 200 anni fa del suo libro “On the Principles of Political Economy and Taxation”, poneva più di ogni altro le basi intellettuali per la difesa del commercio internazionale. In quest’opera Ricardo enunciava per la prima volta un concetto diventato oramai indispensabile per capire i benefici della globalizzazione: il principio dei vantaggi comparati.
In sostanza, il principio sostiene che ogni nazione, non importa quanto avanzata o povera, produttiva o meno, trae beneficio dal commercio con altri paesi. Alla nazione più produttiva – ai tempi di Ricardo era il Regno Unito – non conviene infatti esportare ogni prodotto, ma soltanto quelli per i quali detiene un vantaggio comparato. Paradossalmente, persino il paese più produttivo avrà ogni interesse a importare beni che sarebbe perfettamente in grado di produrre in modo più efficiente rispetto ai concorrenti esteri. Allo stesso modo, anche ai paesi con livelli di produttività inferiori su tutti i fronti converrà specializzarsi nell’esportazione di quei beni per i quali la differenza di produttività con le altre nazioni è minore. In parole povere, con il principio dei vantaggi comparati Ricardo spiega come sia sempre opportuno specializzarsi nell’attività che svolgiamo meno peggio delle altre.
Nel corso degli ultimi 200 anni, innumerevoli economisti hanno chiarito, approfondito e anche relativizzato il concetto ricardiano dei vantaggi comparati. A un livello fondamentale però il messaggio è rimasto lo stesso: è nell’interesse di tutte le nazioni, persino delle più povere, commerciare tra di loro. Il voto francese ci ricorda che nel corso di questi due secoli gli economisti non sono riusciti a convincere gran parte del pubblico. Ma non disperiamo.
Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 24 aprile 2017 del programma «Plusvalore». Per gentile concessione di «RSI Rete due».