Il Dr. Marco Salvi è Adjunct Fellow presso Avenir Suisse. Egli si occupa principalmente di questioni legate al mercato del lavoro, alla politica fiscale, all’uguaglianza tra uomo e donna e di temi regionali della Svizzera latina. Ha studiato economia politica ed econometria presso l’Università di Zurigo e ha ottenuto il dottorato all’EPFL. Marco Salvi è Docente di economia.
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Dopo il sì al «matrimonio per tutti» è ora di rimuovere un altro ostacolo alla vita coniugale: quello della tassazione congiunta dei redditi
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Marco Salvi
Tante vie portano all’imposizione individuale
PlusvaloreDopo il sì al «matrimonio per tutti» è ora di rimuovere un altro ostacolo alla vita coniugale: quello della tassazione congiunta dei redditi
Gli Svizzeri hanno recentemente detto di sì al «matrimonio per tutti» e hanno così fatto un passo supplementare verso le pari opportunità. Tuttavia, vi sono ulteriori ostacoli da rimuovere in un aspetto importante della vita coniugale: quello della tassazione. Oggi, la tassazione congiunta dei redditi delle coppie sposate fa sì che il reddito delle donne – nella stragrande maggioranza dei casi, sono loro a portare a casa il secondo reddito – venga tassato di più di quanto non sarebbe il caso con un’imposizione individuale. Questo svantaggio fiscale può anche tradursi in una penalizzazione del matrimonio rispetto al concubinato, specialmente se entrambi i partner guadagnano un importo simile. L’introduzione dell’imposizione individuale quindi non solo abolirebbe le disparità di trattamento tra le coppie sposate e quelle non sposate, ma migliorerebbe pure la parità di genere dal lato fiscale.
E non sono solo io a dirlo, ma un nuovo rapporto in materia, pubblicato qualche settimana fa dall’Amministrazione federale delle contribuzioni (AFC). Il rapporto è lungo e dettagliato: infatti, benché il principio fondamentale dell’imposizione individuale – quello di «una persona, una dichiarazione fiscale» – sia semplice, la sua applicazione concreta lo è molto meno. Come tenere conto di redditi prodotti in comune, quali certi redditi da risparmio? E che ne è delle deduzioni?
Ma come in ogni riforma fiscale, si tratta in primo luogo di trovare una soluzione che minimizzi il numero dei potenziali perdenti; di coloro insomma che, a riforma attuata, si ritroverebbero a pagare più imposte di adesso. Il rapporto mostra che un passaggio «indolore» all’imposizione individuale, cioè senza praticamente perdenti rispetto alla situazione attuale, è possibile… ma costa. Esso stima le perdite fiscali a circa un miliardo e mezzo di franchi l’anno, perdite che dovrebbe venire poi compensate da aumenti di altre imposte.
Dal lato dei benefici, l’introduzione della tassazione individuale inciterebbe 300 000 donne ad aumentare del 20 percento le ore lavorate. Questo aumento dell’occupazione femminile migliorerebbe le opportunità di carriera, come pure la sicurezza finanziaria delle donne durante la vecchiaia.
L’analisi degli economisti dell’AFC evidenzia insomma che non esiste un modello unico di tassazione individuale. La scelta tra i vari modelli è fondamentalmente politica. Ma indipendentemente da queste scelte, è indubitabile che l’introduzione della tassazione individuale sarebbe un altro passo importante verso una maggiore uguaglianza di opportunità tra uomini e donne.
Questo podcast è stato pubblicato il 18.10.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Marco Salvi
Valore locativo – l’imposta incompresa
Plusvalore
Un progetto di legge vuole abolire la tassazione del valore locativo. Una buona idea?
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Marco Salvi
Valore locativo – l’imposta incompresa
PlusvaloreUn progetto di legge vuole abolire la tassazione del valore locativo. Una buona idea?
È da decenni oramai che l’ abolizione della tassazione del valore locativo viene annunciata come imminente – e questa volta sarà forse quella buona. Un progetto al riguardo verrà discusso nella sessione autunnale delle Camere federali. Secondo questa proposta, in futuro non verrà più tassato il valore locativo della proprietà primaria occupata dal proprietario. Allo stesso tempo, non sarà più possibile dedurre dal proprio reddito imponibile gli interessi ipotecari e le spese di manutenzione.
Il problema principale del reddito locativo è che si tratta di un concetto difficile da spiegare. Io ci provo: esso rappresenta il reddito in natura che il proprietario di una casa paga a se stesso per l’ uso della casa. Chi affitta una casa e ne trae reddito, vede questo reddito imposto normalmente. L’imposizione del valore locativo garantisce così l’ uguaglianza di trattamento fiscale tra gli immobili occupati dal proprietario e quelli in affitto.
In termini economici il valore locativo è di notevole entità. Quasi il 40% delle Svizzere e degli Svizzeri vive nella propria casa. Uno studio del 2014 stimava che il valore locativo rappresenta circa il 7% del prodotto interno lordo (PIL), cioè circa 50 miliardi di franchi all’ anno. Dal punto di vista delle entrate fiscali, l’importanza è minore perché il valore locativo può essere ridotto con la deduzione degli interessi ipotecari e dei costi di manutenzione. Ciononostante, parliamo di qualche miliardo di franchi all’anno che finiscono nell’erario di Confederazione, Cantoni e Comuni a titolo dell’imposizione del valore locativo.
Alcuni ritengono che il sistema attuale favorisca l’indebitamento. Non ne sono così sicuro. L’indebitamento ipotecario degli Svizzeri è sì fra i più alti al mondo – quasi mezzo milione per proprietario. Ma non dimentichiamo che a fronte di questi debiti stanno attivi immobiliari del valore medio superiore al milione. Se raffrontiamo gli uni agli altri, l’indebitamento ipotecario degli Svizzeri è nella norma.
Al momento, il trattamento fiscale degli immobili residenziali occupati dai proprietari è fondamentalmente simile a quello di tutti gli altri tipi d’investimento. Meritano le case proprie una soluzione fiscale completamente diversa? Se il valore locativo è difficile da capire, lo è anche la ragione per cui si dovrebbe ora a tutti i costi creare una nuova eccezione.
Questo podcast è stato pubblicato il 4.10.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Questa crisi è femminile. Che le donne siano state più colpite dalla contrazione economica che ha accompagnato la pandemia da Covid-19 lo si è detto e ripetuto, tanto che i social media hanno coniato un neologismo, quello della «she-cession», derivata dalla parola inglese «recession» e dal pronome femminile.
Ma cosa dicono i dati? Secondo un’analisi del Fondo Monetario Internazionale (FMI), durante il primo lockdown nella primavera del 2020, in due terzi dei paesi studiati l’occupazione femminile è stata più severamente colpita dalla crisi di quella maschile. Anche in Svizzera, si è allora registrato un tasso di occupazione delle donne maggiormente in ripiego rispetto a quello degli uomini.
Sono due le ragioni principali per questa reazione asimmetrica:
La prima è dovuta alla concentrazione dell’impiego femminile nel settore dei servizi. Le donne sono tradizionalmente sovrarappresentate nella ristorazione, nel commercio al dettaglio e nelle attività culturali – settori questi che hanno sofferto maggiormente durante il lockdown. Nell’industria invece, dove l’impatto della crisi in Svizzera si è fatto meno sentire, sono gli uomini ad essere in maggioranza.
Inoltre, le donne si sono assunte una quota maggiore delle cure supplementari ai figli, rese necessarie dalle chiusure delle scuole e dalle messe in quarantena. Secondo un sondaggio commissionato dall’Ufficio federale per l’uguaglianza di genere, nel maggio 2020, il 37% delle madri (con figli sotto i 16 anni) dichiarava di avere ridotto le proprie attività lavorative a causa delle maggiori esigenze di cura dei figli, contro il 25% dei padri.
La recessione al femminile, fortunatamente, è stata di breve durata. Già a partire dall’estate dell’anno scorso, il tasso di occupazione ha recuperato il terreno perso, e ciò è avvenuto più velocemente per le donne che per gli uomini. Inoltre, il tasso di disoccupazione femminile è sempre stato inferiore a quello maschile. Nel complesso, il numero totale di ore lavorate retribuite è diminuito allo stesso modo per entrambi i sessi.
La «she-cession», anche se breve, ha messo in evidenza la reattività dell’impiego femminile alla (mancata) disponibilità di strutture di accoglienza. Ciò può essere interpretato in maniera negativa, quale un ulteriore espressione delle disparità tra i sessi. Ma mostra pure che incentivi fiscali adeguati – quali ad esempio maggiori deduzioni per le cure esterne o il passaggio all’imposizione individuale dei redditi – indurrebbero molte donne ad aumentare la loro partecipazione al mercato del lavoro.
Questo podcast è stato pubblicato il 20.09.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Benché la Svizzera non sia membro dell’UE, la nostra economia è molto integrata a quella dell’Unione. Secondo uno studio del Centro di ricerca congiunturale del Politecnico di Zurigo di qualche anno fa, la Svizzera sarebbe più integrata al mercato interno UE della maggioranza degli stati membri stessi, Italia, Francia e Germania comprese. Se si considerano gli scambi commerciali, il movimento di capitali e la migrazione, solo Belgio e Irlanda avrebbero un grado di interconnessione ancora maggiore.
La decisione del Consiglio Federale a fine maggio di interrompere i negoziati sull’Accordo quadro istituzionale – preferendo puntare sullo status quo – potrebbe portare a un allentamento significativo di questi rapporti? Considerato che in termini di regolamentazione il mercato interno europeo continua ad evolvere e che, secondo l’attuale dottrina di Bruxelles, senza un Accordo quadro istituzionale gli accordi bilaterali attuali non saranno aggiornati, il pericolo sembra più che reale.
Le prime crepe si sono già prontamente manifestate durante l’estate. Da fine giugno la Svizzera viene considerata come paese terzo a livello di ricerca scientifica, con conseguenze dirette per le collaborazioni più prestigiose che non saranno più finanziate da fondi europei. Altro effetto immediato: l’accesso dei prodotti medtech svizzeri al mercato interno dell’unione è diventato più difficile e più costoso, mentre rimane irrisolto il contenzioso riguardo alla riconoscenza borsistica.
Altre gatte da pelare sono dietro all’angolo. L’UE può decidere se le leggi sulla protezione dei dati all’estero sono riconosciute come equivalenti e se quindi non siano necessarie ulteriori misure di protezione per i flussi di dati transfrontalieri. La legge svizzera sulla protezione dei dati è stata classificata come adeguata dall’UE nel lontano 2000. Resta tutto da vedere se l’UE continuerà a riconoscere la legge svizzera come equivalente. Nel caso contrario, le imprese svizzere potrebbero vedersi vietata l’elaborazione dei dati relativi ai clienti residenti nell’Unione.
Incertezze aleggiano pure sul rinnovo di accordi sugli ostacoli tecnici al commercio, sui trasporti aerei e terrestri e sulla cooperazione in materia di facilitazione e sicurezza doganali. Nessuno di questi contenziosi ha di per sé la capacità di rimettere in questione in modo fondamentale le relazioni economiche tra la Svizzera e l’UE. Ma si sa, si può anche morire di mille piccole ferite.
Questo podcast è stato pubblicato il 06.09.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
La decisione dei ministri delle finanze del G7, in riunione la settimana scorsa a Londra, di introdurre un tasso d’imposizione minimo sul beneficio delle società multinazionali è stata accolta con inquietudine dagli ambienti economici svizzeri. Non è tanto l’aliquota minima del 15 percento a preoccupare. Essa non supera di molto quanto già oggi in vigore in quei cantoni che contano una presenza numerica rilevante di imprese multinazionali. Di portata ben maggiore è invece la decisione presa a Londra di modificare fondamentalmente il modo di imporre i profitti, con il rischio di rendere obsoleto un sistema globale di tassazione cresciuto organicamente nell’arco di oramai un secolo.
In effetti, sono pochi oggi a ricordare che quasi tutti gli accordi internazionali vigenti in materia di fiscalità hanno un antenato comune: il modello di convenzione sviluppato nel primo dopoguerra a Ginevra dalla Società delle Nazioni, l’antenato delle Nazioni Unite. Allora – come oggi – si trattava di evitare la doppia imposizione dei profitti delle imprese, spesso tassati sia alla fonte (cioè nel paese dove vengono generati) che nel paese di residenza dell’impresa e dei suoi proprietari. Questo problema di doppia imposizione, nefasto agli investimenti e quindi allo sviluppo economico, fu risolto dando la precedenza all’imposizione dei benefici alla fonte.
Con il passare del tempo, questo principio fondamentale ha incoraggiato molti paesi – tra cui la Svizzera – a offrire tassi preferenziali a imprese internazionali qualora esse decidessero di spostare la creazione di valore nel paese in questione. Da un lato ciò ha indubbiamente stimolato gli investimenti. Dall’altro, il sistema ha incoraggiato pratiche di «profit shifting», ovvero di trasferimento puramente nozionale di profitti da un paese all’altro, senza corrispondenza economica tangibile.
Ciò ha fatto nascere l’idea, presentata al G7, di imporre le imprese non dove i profitti sono creati ma bensì dove l’azienda fa le sue vendite, con il presupposto che questo limiterebbe le capacità di «shifting». Purtroppo, questo cambiamento di paradigma non garantisce per nulla che si eviti la (nefasta) doppia imposizione. Inoltre, esso avvantaggia chiaramente i paesi più grandi, che dispongono di mercati importanti, a scapito di quelli più piccoli.
Difficile invece giudicare l’impatto effettivo sulle entrate fiscali per i paesi che si sentono più lesi dal sistema oggi in vigore, primi fra tutti gli Stati Uniti. A livello globale, il gettito dell’imposta sui benefici delle imprese è rimasto più o meno costante, e non è per niente detto che i nuovi piani del G7 faranno aumentare gli introiti in modo significativo. Poca cosa, comunque, se raffrontata al rischio creato dall’abbandono dei principi centenari fissati nei trattati modello ginevrini, trattati che hanno contribuito fortemente al processo di globalizzazione dell’economia mondiale.
Questo podcast è stato pubblicato il14.06.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
L’abbandono repentino dei negoziati per un accordo quadro con l’UE, annunciato la settimana scorsa dal Consiglio Federale, è stato già ampiamento commentato. Per gli uni si tratta di una decisione storica, di portata simile a quella del Brexit per il Regno Unito. Secondo gli altri invece le conseguenze di un non-accordo rimarranno impercettibili alla stragrande maggioranza dei cittadini svizzeri.
Difficile oggi dire chi abbia ragione, anche se temo che la verità sia più vicina ai primi che ai secondi. Mi pare però chiaro che questa decisione si possa inserire in una tendenza isolazionistica risentita anche altrove, tendenza che paradossalmente trova le sue origini nel paese che spesso viene rappresentato (a torto) come il motore della globalizzazione: ovvero gli Stati Uniti.
O questa perlomeno è la tesi dell’economista americano Adam Posen, esposta con brio in un recente articolo nella prestigiosa rivista «Foreign Affairs». A riprova della sua tesi, Posen sottolinea come il rapporto commercio estero/PIL sia cresciuto negli USA più lentamente che in molti altri paesi – passando dal 20% nel 1990 al 30% nel 2008 – rimanendo però sempre ben al di sotto della media globale. Questo rapporto è poi sceso a partire dalla crisi finanziaria, e non si è ancora ripreso.
Il revival del protezionismo precede anche lo «shock cinese» conseguente all’ingresso nel 2001 della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Secondo una tesi sostenuta sia da Trump che dal suo successore Biden, i lavoratori americani ne avrebbero sofferto gravemente gli effetti, soprattutto nell’industria. Gli economisti stimano invece che la concorrenza cinese abbia causato la perdita di 130 000 posti di lavoro nell’industria all’anno: una bazzecola se paragonata al turnover del mercato del lavoro USA, dove si contano annualmente 60 milioni di disdette di contratto di lavoro.
Anche qui i paralleli con la situazione svizzera sono manifesti. Da noi lo shock non è stato quello cinese, ma piuttosto quello legato alla libera circolazione e maggiore integrazione istituzionale con l’UE. E se negli USA lo scetticismo rispetto al commercio e agli investimenti internazionali è stato accompagnato all’interno da una politica di stampo neoliberista, tra gli oppositori più accaniti all’accordo quadro con l’UE si trovano parecchi fautori del meno Stato.
Per Posen le tendenze protezionistiche ancora non sono maggioritarie a livello internazionale. In Asia o buona parte dell’Europa, la globalizzazione degli scambi e l’integrazione dei mercati proseguono senza troppi inghippi. Esse sono accompagnate da un rafforzamento dello stato sociale, non dal suo smantellamento. Ma la nostalgia per un’economia che non c’è più – e per le politiche che la sostenevano – oramai non si può più ignorare.
Questo podcast è stato pubblicato il 31.05.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Negli ultimi anni, sono state numerose le denunce delle condizioni di lavoro di chi cerca di sbancare il lunario nella «gig economy» – l’economia dei lavoretti procurati su piattaforme online: consegne a domicilio, utilizzo della propria auto come servizio taxi, o riparazioni casalinghe svolte di volta in volta su richiesta di clienti. A queste preoccupazioni si sono aggiunte quelle per l’esternalizzazione di dipendenti, poi più o meno costretti a lavorare in subappalto per la stessa ditta. Tutti in coro a denunciare nuove modalità di lavoro «atipiche», caratterizzate da un’indipendenza fittizia e una sicurezza dell’impiego minima.
Ma quale è l’impatto effettivo di queste forme di impiego sull’occupazione in Svizzera? Per tentare di quantificare queste attività è utile guardare all’evoluzione dei cosiddetti lavoratori autonomi senza dipendenti, una categoria che appunto include i collaboratori freelance, ma anche i classici liberi professionisti.
Ebbene, un’analisi dei dati della Rilevazione sulle forze di lavoro (RIFOS) non trova alcuna conferma della maggiore prevalenza di forme d’impiego «non-standard» nel nostro paese. Al contrario, in Svizzera il lavoro autonomo sarebbe piuttosto in ritirata. Sebbene rispetto al 2001 si contino oggi 14 000 lavoratori autonomi in più, durante lo stesso periodo i salariati sono aumentati di oltre 760 000 unità. Vi è stato quindi un declino relativo del lavoro autonomo; declino che si registra in tutti i gruppi professionali.
E che ne è dei redditi? Con circa 48 franchi all’ora, il salario degli indipendenti autonomi è superiore alla media. Tuttavia, la distribuzione di questi redditi è ineguale: sono sovrarappresentati sia nelle fasce di reddito più basse che in quelle più elevate. Ciononostante, il 67% si dice molto soddisfatto del proprio lavoro. Solo il 6% non trova contentezza alla propria situazione lavorativa e preferirebbe passare ad un lavoro dipendente. Questo a riprova che il lavoro autonomo offre anche benefici non-monetari, quali l’indipendenza e flessibilità.
L’inchiesta mostra infine che i lavoratori autonomi senza dipendenti formano un gruppo molto eterogeneo. In questo senso, si tratta di una forma di lavoro davvero atipica. Riguardo ai numeri però, nelle statistiche dell’occupazione il boom della «gig economy» ancora non si vede.
Questo podcast è stato pubblicato il17.05.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
La pandemia da Coronavirus e i suoi effetti sul mercato del lavoro potrebbero aggravare la disoccupazione tecnologica? Secondo un recente sondaggio del World Economic Forum (WEF), l’80 percento delle grandi imprese prevede di accelerare a corto termine il processo di robotizzazione e automatizzazione. Quasi la metà di esse prevede che questo processo porterà alla soppressione di posti di lavoro. È forse ora di lanciare un’offensiva di formazione continua su larga scala anche nel nostro paese?
Penso bisogni rispondere a questi importanti interrogativi in maniera differenziata. Non è da ieri che il progresso tecnologico contribuisce a trasformare il mercato del lavoro svizzero. Basti osservare il cambiamento dei profili e dei curriculi richiesti e l’impennata della domanda di personale altamente qualificato. Se nel 1996 650 000 occupati esercitavano una professione accademica, nel 2019 erano già 1,25 milioni. Le categorie professionali con qualifiche intermedie hanno invece segnato una flessione, primi fra tutti gli artigiani. In linea generale, negli ultimi 25 anni le prospettive di carriera dei lavoratori con apprendistato professionale ma senza specializzazione di livello terziario sono peggiorate.
Eppure, tutti questi cambiamenti non hanno portato ha un aumento della disoccupazione. Questo lo si deve anche alla capacità degli occupati a formarsi e specializzarsi. In linea di principio, la Svizzera ha un’ottima offerta di formazione continua e un elevato tasso di adesione, per cui una promozione generale in tal senso non mi sembra necessaria.
La propensione alla formazione continua e allo studio informale dipende tuttavia molto dal livello di istruzione. Paradossalmente, maggiori già sono le qualifiche, più elevata è l’attività formativa. Insomma: chi già sa, vuole sapere di più. In questi termini, la postformazione non colma il divario educativo tra i gruppi, ma anzi lo esacerba. Così, determinate fasce di lavoratori non partecipano del tutto alla formazione permanente, mettendo in pericolo la loro impiegabilità a lungo termine. Questo segmento dovrebbe essere avvicinato in modo mirato alle opportunità di riqualifica.
Strumenti particolarmente adatti in tal senso sono i buoni di postformazione e i prestiti per le riqualificazioni di lunga durata. Altri strumenti invece, come le deduzioni fiscali delle spese per la formazione continua non si prestano a sostenere la riconversione professionale poiché vanno principalmente a vantaggio di persone con salari elevati, che peraltro non denotano carenze motivazionali in campo formativo.
Questo podcast è stato pubblicato il 03.05.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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L’invecchiamento della popolazione è una causa principale dell’aumento delle disparità patrimoniali
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Marco Salvi
Più anziani – e disuguali
PlusvaloreL’invecchiamento della popolazione è una causa principale dell’aumento delle disparità patrimoniali
In Svizzera la distribuzione dei salari è assai uniforme. Ad esempio, se consideriamo gli occupati a tempo pieno, la differenza tra bassi e alti salari è da noi meno marcata che in quasi tutti i paesi membri dell’OCSE, il club dei paesi ricchi. Per quanto riguarda invece la distribuzione della ricchezza, ovvero del patrimonio economico (il quale ingloba la totalità degli attivi finanziari e immobiliari), la Svizzera si distingue per una disuguaglianza più pronunciata della media, anche se le statistiche al riguardo sono parecchio lacunose.
È però indiscutibile che le disparità di ricchezza sono aumentate negli ultimi 20 anni. Questo aumento si manifesta molto concretamente a chi oggi vuole acquistare una casa. Se nel 2000 per acquistare una casa media bisognava sborsare circa 7 volte il salario annuale, ora ne sono necessari più di dieci. Il prezzo delle case è salito durante gli ultimi vent’anni molto più velocemente dei redditi, il che tendenzialmente ha accentuato le differenze patrimoniali tra chi è proprietario e chi è rimasto inquilino.
Ma quali le ragioni profondi di questa evoluzione, del resto per nulla specifica al nostro paese? Una risposta la fornisce un gruppo di economisti americani che ha recentemente studiato l’effetto dell’evoluzione demografica sul risparmio.¹ La loro conclusione: nella maggioranza dei paesi, l’aumento delle disuguaglianze di patrimonio può essere ricondotto direttamente all’invecchiamento della popolazione.
Patrimonio e i risparmi, ancora più di salari e redditi, hanno infatti una forte componente demografica. La situazione di una trentenne – che ha accumulato ancora pochi risparmi, ma ha davanti una lunga carriera professionale – è all’opposto di quella del sessantenne che si avvicina piano piano al pensionamento, e quindi subirà presto una diminuzione drastica dei redditi da lavoro, ma che può contare su risparmi ben più sostanziosi.
Ebbene, con l’invecchiamento della popolazione è fortemente aumento il numero di quest’ultimi a scapito dei primi. L’abbondanza di risparmi ha fatto crollare i tassi d’interesse e salire i prezzi immobiliari. E con essi anche le disuguaglianze di ricchezza.
¹Adrien Auclert, Hannes Malmberg, Frédéric Martenet e Matthew Rognlie (2020). «Demographics, Wealth, and Global Imbalances in the Twenty-First Century».
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Un sorprendente rilievo dell’Ufficio federale di Statistica
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Marco Salvi
La povertà non si può ridurre a un solo numero
PlusvaloreUn sorprendente rilievo dell’Ufficio federale di Statistica
Qualche settimana fa, un rilievo dell’Ufficio federale di Statistica mi ha sconcertato: in Svizzera, nel 2019, ben il 20% della popolazione non poteva permettersi una spesa imprevista di 2500 franchi. A giudicare dalle numerose reazioni indignate sui social media, non ero il solo a trovare questo fatto sorprendente: ma com’è possibile che nella ricca Svizzera ciò sia sufficiente a mettere in difficoltà finanziarie un quinto della popolazione?
Prima di svelare «l’inghippo», vengo subito alle conclusioni: la povertà è un fenomeno complesso e sfaccettato che non si può ridurre a un singolo dato numerico, sconcertante o meno. Gli specialisti lo sanno da tempo, ed è proprio per questo che l’Ufficio federale di Statistica non solo misura la povertà reddituale ma cerca anche di rilevare le cosiddette «deprivazioni materiali», tra le quali appunto la capacità di far fronte a spese impreviste.
Che il reddito spesso non basti a identificare ricchi e poveri lo dimostra la situazione dei pensionati. Mentre il 17% ha un reddito inferiore alla soglia di povertà, appena il 3% giudica la propria situazione finanziaria «poco soddisfacente». Questo divario si spiega in gran parte con la mancata presa in considerazione della situazione patrimoniale dei senior, spesso più favorevole. La statistica della povertà fa ad esempio fatica a valutare precisamente il livello di vita di chi abita nella propria casa.
La situazione è inversa per quanto riguardo le «deprivazioni materiali»: qui sono i giovani sotto i 25 anni a patirne più frequentemente, mentre il loro tasso di povertà reddituale è nella media. Ciò si spiega con il fatto che mentre il sostegno dei genitori al reddito dei giovani viene conteggiato nelle statistiche sulla povertà di reddito, non lo è per quanto riguarda la famigerata domanda sulle spese impreviste, dove anzi si specifica esplicitamente che va escluso l’eventuale sostegno dei famigliari.
Forse, il modo migliore per giudicare della diffusione della povertà in Svizzera rimane il paragone con altri paesi. E qui la situazione è senza dubbio assai favorevole, sia per quanto riguardo il reddito che le deprivazioni materiali. Nel confronto europeo, il tasso di deprivazione materiale in Svizzera è nettamente inferiore alla media e i valori di tutti i paesi limitrofi sono pari o superiori al nostro.
Questo podcast è stato pubblicato il 05.04.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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Un cambiamento nel nostro mercato immobiliare
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Marco Salvi
In aumento lo sfitto – ma è un problema?
PlusvaloreUn cambiamento nel nostro mercato immobiliare
Da qualche anno è in forte aumento il numero di appartamenti e case vuote: il famigerato sfitto. Questo andamento si osserva sia a livello regionale che nazionale: in Ticino, a metà 2020, poco meno di un appartamento su 35 era vuoto; in Svizzera quasi uno su 50. Bisogna risalire alla metà degli anni Settanta per ritrovare livelli di sfitto analoghi. Ma mentre la relativa abbondanza di abitazioni vuote era in passato il contraccolpo di recessioni e crisi economiche, durante lo scorso decennio lo sfitto è andato a mano a mano crescendo nonostante una situazione congiunturale piuttosto favorevole. Come mai?
Come per molti altri fenomeni economici recenti anche l’aumento dello sfitto è una conseguenza più o meno diretta dei bassi tassi d’interesse, o più precisamente dell’abbondanza di risparmio che ha caratterizzato gli ultimi decenni. La disponibilità di capitale a buon mercato non solo ha favorito la costruzione di nuove abitazioni, ma ha anche diminuito per i proprietari i costi di opportunità legati allo sfitto. Insomma, quando il capitale è abbondante lo si può anche «sprecare», utilizzandolo al di sotto della capacità massima.
Meno convincente è invece la tesi secondo la quale l’esubero di alloggi sarebbe dovuto a un comportamento poco razionale di investitori istituzionali alle prese con una carenza di opportunità d’investimento alternative. Certo, è vero che sul mercato svizzero casse pensioni, assicurazioni e società immobiliari hanno aumentato le proprie quote di mercato. Se il risparmio, prima di essere trasformato in mattone, transita sempre più dalle casse pensioni, lo si deve anche alla politica monetaria macroprudenziale di Banca Nazionale Svizzera e FINMA. Infatti, nonostante tassi ipotecari bassissimi, i piccoli investitori privati faticano a trovare finanziamenti adeguati a causa del forte inasprimento della regolamentazione in materia di prestiti ipotecari. E sono obbligati di lasciare il terreno agli investitori istituzionali.
Ma lo sfitto, va ricordato, ha anche i suoi lati positivi. Ad approfittarne di più sono gli inquilini – pur sempre la maggioranza della popolazione svizzera. Gli affitti dei nuovi appartamenti sono ormai in calo da quattro anni a livello nazionale. E in molte regioni, tra le quali il Ticino, chi oggi cerca casa può offrirsi il lusso di scegliere tra un’offerta variegata. Una vera rarità per il nostro mercato immobiliare che nel passato spesso aveva sorriso soprattutto a chi la casa già ce l’ha.
Questo podcast è stato pubblicato il 22.03.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Un’economia con priorità al «locale» non aiuterà
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Marco Salvi
Combattere il virus protezionistico
PlusvaloreUn’economia con priorità al «locale» non aiuterà
Con il diffondersi a livello planetario del coronavirus si è rafforzato il protezionismo, quella politica economica volta a proteggere l’economia nazionale dalla concorrenza estera. Questa tendenza si delineava in realtà da tempo. Negli ultimi dieci anni, il numero di nuove misureprotezionistiche è aumentato in tutto il mondo. Il volume del commercio internazionaleè rimastoin crescita, ma con ritmi rallentati.Se prendiamo come misura il rapporto tra flussi commerciali e prodotto interno lordo (PIL), il processo di globalizzazione ha raggiunto il suo apice già nel 2008. Da allora ci troviamo in una nuova era commerciale, talvolta chiamata«slowbalization».
Preoccupazioni riguardanti la sicurezza nazionale e la salute pubblica stanno fornendo nuoviargomenti ai protezionisti, anche se è accertato che il virus non si diffonde tramitelo scambio di merci. Responsabili politici e leader aziendali si stanno ora chiedendo se le «supply chains»–e cioè le catene di fornitura globali– non siano state allungate troppo. In un clima politico in cui la cooperazione internazionale è ridotta al minimo, sono in molti a volerelimitarele interdipendenze economiche.Persino in Svizzera, uno dei paesi più globalizzati al mondo e che più approfitta dalla divisione internazionale del lavoro, vi sono voci prominenti che sognano di un’economia con priorità al «locale».
Bisogna resistere a queste tendenze in modo fermo e deciso.Rincorrere il sogno autarchicoporterà a notevoli perdite di reddito, non solo per le aziende, ma anche per noi consumatori, con pochi benefici in termini di sicurezza. Anzi, i recenti divieti di esportazione di materiale medico di protezionehanno contribuito a fare aumentare prezzi a livello mondiale, accentuando cosìcarenze e scarsità. A livello agricolo, l‘accento politico portato in Svizzera sul grado di autosufficienza non contribuisce ad aumentare la sicurezza dell’approvvigionamento del paese.Intensificare la produzione di derrate alimentari in Svizzera non sarebbe possibile senza un aumento delle importazioni di concimi, mangimi concentrati, prodotti fitosanitario trattori– tutti beni che la Svizzera non produce.
Meglio diversificare e moltiplicare l’accesso alle fonti di approvvigionamento e concludere nuovi accordi di libero scambio, ad esempio con il Mercosur, il mercato comune dell’America Latina.Avere più fonti d’approvvigionamento e di diffusione rimane la migliore strategia per aumentare la resilienza della nostra economia. Le catene di approvvigionamento globalisono in realtà più robuste diquelle nazionaliperché possono riparare gli anelli rotti, sostituendo una fonte in un paese colpito con una fonte alternativa in un altro paese.È proprio perché le pandemie sono fenomeni globaliche la collaborazione spontanea tra aziende e consumatori in tutti i paesi èoggi più preziosa che mai.
Questo podcast è stato pubblicato il 18.05.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Le forze della concorrenza costringono anche gli innovatori
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Marco Salvi
A chi approfitta la Regina degli scacchi?
PlusvaloreLe forze della concorrenza costringono anche gli innovatori
Qualche anno fa erano in pochi a scommettere sul futuro degli scacchi. Vittima collaterale della fine della guerra fredda per gli uni; gioco reso obsoleto dal progresso tecnologico per gli altri, gli scacchi sembravano oramai in lenta via di estinzione. Dimenticato dai media e abbandonato dagli sponsor, il nobil giuoco faticava a adattarsi ai nuovi usi sociali del tempo libero.
O almeno così sembrava, finché il lockdown e una serie TV di successo non lo hanno bruscamente fatto tornare di moda. Uscita su Netflix a ottobre del 2020, La regina degli scacchi è diventata un cult in pochissimo tempo, registrando visualizzazioni da record. A fine anno la serie era tra le più gettonate in ben 92 paesi.
Questo successo ha avuto un effetto trainante su tutto l’ecosistema scacchistico. E non parlo solo delle vendite di scacchiere, introvabili lo scorso Natale. Chess.com, la principale piattaforma online al mondo, ha registrato da ottobre più di sei milioni di nuovi utenti. Gli scacchi sono attualmente la tendenza più in crescita nel settore del gaming, tanto che su Twitch, la piattaforma di streaming di videogiochi di proprietà di Amazon, alcune partite hanno recentemente attirato centinaia di migliaia di spettatori in diretta.
Un gioco centenario, rilanciato in versione online da un’unica serie TV? Dietro al nuovo boom degli scacchi si cela anche un insegnamento economico importante: gli imprenditori-innovatori spesso generano profitti ben in eccesso di quelli che riescono direttamente a monetizzare per il proprio tornaconto.
Questo è particolarmente vero per quanto riguarda il progresso tecnologico. Come stimato alcuni anni fa da William Nordhaus, premio Nobel di economia nel 2018, la parte del plusvalore catturata dai produttori-innovatori è assai modesta, in media attorno al due percento. In altre parole, Nordhaus stima che il 98 percento dei benefici sociali (valutati in termini di maggior produttività) del progresso tecnologico non vengono appropriati direttamente da chi ne è all’origine. Le forze della concorrenza costringono anche gli innovatori di maggior successo a versare gran parte dei benefici delle loro innovazioni sotto forma di riduzione dei prezzi, espansione della produzione e miglioramenti della qualità.
Allo stesso modo, mentre la Regina degli Scacchi è riuscita a rinvigorire l’interesse per un gioco centenario, saranno gli streamer di Twitch e le piattaforme di gioco online ad approfittarne – anche per il piacere di noi giocatori.
Questo podcast è stato pubblicato il 08.03.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Davvero in crescita il divario tra ricchi e poveri?
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Marco Salvi
Pandemia e disuguaglianze
PlusvaloreDavvero in crescita il divario tra ricchi e poveri?
È oramai opinione comune che la pandemia di Covid-19 stia accentuando le disuguaglianze, sia a livello nazionale che a livello globale. Ciò è indubitabile per quanto riguarda le disuguaglianze di salute: la probabilità di contrarre una forma severa o addirittura letale della malattia non è la stessa per ognuno; i rischi sono fortemente concentrati nelle fasce d’età più anziane. Che ne è però delle disuguaglianze economiche? Certo, l’economia è in recessione, ma davvero cresce il divario tra ricchi e poveri?
In Svizzera i dati sono ancora lacunosi. Un recente sondaggio della SSR registrava un calo del 20 percento per i redditi inferiori ai 4000 franchi, diminuzione concentrata tra i giovani occupati. I redditi medi e superiori sarebbero invece solo in leggero ribasso rispetto a un anno fa. Oltre un terzo dei posti a basso salario si concentra nei comparti del commercio al dettaglio, della gastronomia e dell’ospitalità alberghiera, settori questi maggiormente colpiti dai lockdowns. Dall’altro canto non va dimenticato che questi settori hanno potuto fino ad ora contare su aiuti statali più generosi. Bisogner à quindi attendere i resoconti statistici ufficiali per stabilire una diagnosi affidabile sull’andamento dei redditi dopo tasse e delle disuguaglianze post-fisco nel nostro paese.
E a livello globale? Anche qui i dati sono ancora provvisori, ma sembrerebbe che si contino più decessi (in rapporto alla popolazione) nei paesi ricchi che in quelli poveri o emergenti – e ciò malgrado sistemi sanitari più avanzati e un apparato amministrativo ben più esteso e sofisticato. Secondo una recente analisi di Angus Deaton, già premio Nobel di economia, i paesi con il più gran numero di decessi da Covid (tra i quali figurano la Spagna, il Regno Unito o il Belgio) hanno anche subito un declino più marcato dell’attività economica e dei redditi. Di conseguenza, almeno fino ad ora, il reddito medio pro capite è diminuito maggiormente nei paesi ricchi – più colpiti dalla pandemia – che in quelli poveri e emergenti.
Insomma, la pandemia ha peggiorato la situazione di moltissime persone, in Svizzera e nel mondo. Quasi certamente c’è stato un aumento della povertà globale. Ma questo non implica ancora nulla delle disuguaglianze economiche.
Questo podcast è stato pubblicato il 08.02.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
La settimana scorsa è stata pubblicata la tradizionale analisi Vox dell’istituto di ricerca bernese GfS riguardante le votazioni popolari del 29 novembre 2020. Condotta su un campione di tremila persone, l’analisi cerca di approfondire le motivazioni dei votanti. Secondo lo…
La settimana scorsa è stata pubblicata la tradizionale analisi Vox dell’istituto di ricerca bernese GfSriguardante le votazioni popolari del 29 novembre 2020. Condottasu un campione di tremila persone,l’analisicerca di approfondire le motivazioni dei votanti. Secondo lo studio,l‘iniziativa popolare “Per imprese responsabili”, fallita per la mancata maggioranza dei cantoni, ha ottenuto quella dei voti grazie al forte sostegno della sinistra, dei giovani, delle zone urbane e delle persone con formazione superiore impiegate a tempo parziale.Il divario di genere è statomolto più marcato del solito: se avessero votato soltanto le donne, l’iniziativa sarebbe stata approvata al 57%.
Ma il risultato più interessante dello studio èsecondo me un altro. Mentre il sondaggio attesta un altissimo livello di fiducia nelle organizzazioni di aiuto allo sviluppo e di difesa dei diritti umani, la percezione dell’agire delle imprese multinazionali è tutt’altro che positiva. Quasi la metà degli elettori e delle elettrici esprime livelli molto bassi di fiducianelle imprese, con note tra lo zero e il quattro. La sfiducia dei votanti non si limita quindi alle imprese attivenell’estrazione delle materie prime; essa si estende all’intero gruppo delle multinazionali svizzere.
Eppure, c‘è parecchio di buono nella ondata di globalizzazione pacifica del commercio, degli investimenti e dei flussi migratori degli ultimi decenni. Nello spazio di una generazione, più di un miliardo di persone sono uscite da una situazione di povertà estrema. Grazie alla rapida crescita economica in Asia (e più recentemente in molti paesi africani) siamo stati testimoni di una riduzione delle disuguaglianzesenza precedenti in tempo di pace. Questi risultati dovrebbe influenzare il nostro giudizio morale su uno degli attori chiavi della globalizzazione – le multinazionali appunto.
La globalizzazione non è immaginabile senza imprese transfrontaliere. Nei paesi più poveri, esseforniscono spesso l’unico canale affidabile per finanziare investimenti a lungo termine egiocano un ruolo cruciale nella diffusione delle conoscenze e delle buone pratiche di gestione –per citare solo alcuni aspetti evidenziati negli ultimi anni dagli economisti dello sviluppo. Tanto che mi sento di affermare che nel nostro paese,le multinazionali,dal punto di vista morale,sonooramai decisamente sottovalutate.
Questo podcast è stato pubblicato il 25.01.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
La Svizzera fatica a integrare i rifugiati sul mercato del lavoro
Plusvalore
Le barriere al loro impiego rimangono elevate
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Marco Salvi
La Svizzera fatica a integrare i rifugiati sul mercato del lavoro
PlusvaloreLe barriere al loro impiego rimangono elevate
Con l’incedere della pandemia è diminuito ulteriormente il numero di richieste d’asilo in Svizzera. Mentre nel 2016 si contavano quasi 40’000 nuove richieste, l’anno scorso esse sono state poco più di 10’000. Dal punto di vista politico, il tema– sul quale negli ultimi duedecennielettrici ed elettori sono stati chiamati a votare ben una dozzina di volte – non è più prioritario.
Eppure, molte sfide rimangono. Fra le più importanti vi è quella dell’integrazione dei rifugiati sul mercato del lavoro. Se in confronto internazionale il mercato del lavoro svizzero è tradizionalmente tra i migliori per quanto riguarda il tasso di occupazione, non si può dirne altrettanto per quello dei rifugiati, una categoria a dire il vero molto eterogeneache inglobarichiedenti l’asilo, persone ammesse a titolo provvisorio e rifugiati riconosciuti.
Le cifre disponibili sono lacunose e i confronti difficili, ma si stima che il tasso di occupazione dei rifugiati raggiungerebbe il 20% tre anni dopo l’entrata nel paese, e si attesterebbe dopo dieci anni di soggiornotra il 30% e il 60%a dipendenza della categoria. Ciò contrasta sia con il tasso d’occupazione dei residenti (tuttora superiore all’80%), che con rilievi fatti in altri paesi. In Germania, ad esempio, il tasso di occupazione dopo dieci anni è quasi alla pari con la popolazione residente. In Canada, dopo solo un anno dall’entrata nel paese, 50% dei rifugiati ha un posto di lavoro.
Come mai questi risultati tutto sommato deludenti? Di recentealcuni economisti svizzeri hanno cercato di accertarne empiricamentele cause. Tra i fattori determinanti,essi rivelanoi limiti posti dalla legge alla mobilità intercantonale dei rifugiati,la durata delle procedure – fonte d’incertezze per i potenziali datori di lavoro –e i meccanismi che assegnano in modo aleatorio i rifugiati ai cantoni, meccanismi che non tengono conto di affinità linguistiche o professionali preesistenti. Le differenze tra i cantoni nelle prestazioni dell’aiuto socialee nelle misure d’integrazione avrebbero invece un impatto trascurabile sull’occupazione. Rimane invece ancora tutto da studiare l’impatto creato dall’introduzione di salari minimi obbligatori o l’ampliamento dei contratti collettivi di lavoro sulle prospettive d’impiego dei rifugiati. L’ipotesi che questi meccanismi per nulla favoriscano l’integrazione sul mercato del lavoro, creando invece ulteriori barriere all’impiegodei rifugiati, non mi pare però strampalata.
Questo podcast è stato pubblicato il 11.01.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
In linea di massima, i bilanci delle economie domestiche negli ultimi anni si sono continuamente rafforzati.
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Marco Salvi
Gli svizzeri sono davvero sovraindebitati?
PlusvaloreIn linea di massima, i bilanci delle economie domestiche negli ultimi anni si sono continuamente rafforzati.
A differenza dei nostri vicini, in Svizzera non è tanto l’indebitamento pubblico a far discutere economisti e mondo politico quanto piuttosto l’indebitamento privato, il 95 percento del quale è costituito da prestiti ipotecari. Così, nonostante il basso tasso di proprietari, ci ritroviamo tra i primi al mondo per quanto riguarda l’indebitamento immobiliare, con in media più di mezzo milione di franchi di debito per proprietario. Ma anche rispetto al PIL (la somma di tutti i redditi guadagnati in un anno), il nostro livello di indebitamento è quasi due volte superiore alla media della zona euro.
Ecco un altro motivo d’angoscia per chi già dubita della stabilità della nostra economia? Penso di no – e ciò per due buone ragioni. Il debito ipotecario va prima di tutto raffrontato non tanto al reddito quanto al valore degli immobili poiché questo rapporto misura al meglio il rischio di perdite per il settore bancario. E da noi, se le ipoteche sono da record, i prezzi degli immobili lo sono ancora di più. Tanto che il rapporto prestito/valore nell’ultimo decennio è sceso di ben dieci punti percentuali, e con esso sono diminuiti i rischi sistemici legati all’indebitamento privato.
I segnali sono ancora più chiari se consideriamo l’onere finanziario legato al pagamento degli interessi ipotecari. Mentre all’inizio degli anni Novanta le economie domestiche spendevano il 10 per cento del reddito per il pagamento degli interessi, alla fine del 2019 questo dato era solo del 2 per cento. La ragione è presto individuata: il calo dei tassi d’interesse ha fortemente ridotto il costo del debito.
Certo, la situazione è meno rosea per i nuovi proprietari. Ma questi rappresentano solo una piccola parte dell’insieme dei proprietari. In linea di massima, i bilanci delle economie domestiche negli ultimi anni si sono continuamente rafforzati.
Paradossalmente, la pandemia contribuisce a questo miglioramento poiché al momento si osserva un forte aumento dei risparmi. Ragione in più per mantenere un atteggiamento sereno rispetto all’indebitamento privato degli Svizzeri. Anche perché i problemi veri al momento non mancano.
Questo podcast è stato pubblicato il 07.12.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.