Il Dr. Marco Salvi è Senior Fellow e responsabile «Società delle pari opportunità» presso Avenir Suisse. Egli si occupa principalmente di questioni legate al mercato del lavoro, alla politica fiscale, all’uguaglianza tra uomo e donna e di temi regionali della Svizzera latina. Ha studiato economia politica ed econometria presso l’Università di Zurigo e ha ottenuto il dottorato all’EPFL. Marco Salvi è Docente di economia.
Nidi d’infanzia e lavoro: quale la relazione?
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In Svizzera, i costi per l’accoglienza della prima infanzia (vale a dire per bambini fino a tre anni) sono in gran parte a carico dei genitori. Nel confronto internazionale, i nostri asili nido sono cari, anzi carissimi: una famiglia con due bambini in età prescolastica spende tra il 15 e…
In Svizzera, i costi per l’accoglienza della prima infanzia (vale a dire per bambini fino a tre anni) sono in gran parte a carico dei genitori. Nel confronto internazionale, i nostri asili nido sono cari, anzi carissimi: una famiglia con due bambini in età prescolastica spende tra il 15 e il 20 percento del reddito per il collocamento dei figli. In altre paesi europei, famiglie che usufruiscono di un servizio analogo spendono al massimo 6 percento. Secondo alcuni economisti, i costi elevati degli asili nido svizzeri scoraggerebbero le giovani madri a riprendere il lavoro a tempo pieno, con conseguenze nefaste sul loro percorso professionale e sulla carriera. I costi sarebbero direttamente responsabili del fatto che in Svizzera la maggioranza delle madri con figli piccoli o lavora a tempo parziale con percentuali molto basse o non lavora del tutto.
Gli effetti sono trascurabili
Una nuova analisi dello studio di consulenza economica INFRAS svolto per conto della Fondazione Jacobs permette di verificare in modo preciso queste ipotesi. Lo studio conferma che con tariffe più abbordabili le famiglie farebbero maggior ricorso ai nidi per l’infanzia. Ad esempio, se i costi medi diminuissero da 90 a 60 franchi, una famiglia su 10 in più manderebbe il proprio bambino all’asilo nido. Gli effetti sull’impiego dell’abbassamento delle tariffe sarebbero invece trascurabili. A livello svizzero, la diminuzione delle tariffe di 30 franchi al giorno inciterebbe appena 7’500 persone supplementari (in stragrande maggioranza donne) a riprendere un lavoro a tempo pieno. Per finanziare questa misura servirebbero però 600 milioni di franchi. In altre parole, lo stato dovrebbe spendere in media ben 80’000 franchi all’anno per indurre un genitore in più a lavorare a tempo pieno.
Come mai un effetto così debole? Oggi la maggior parte della cura dei bambini viene svolta in modo informale da nonni e altri parenti. Asili nido miglior mercato porterebbero in primo luogo a una sostituzione delle cure private con quelle formali, senza però indurre un aumento globale dei tempi di custodia. Al riguardo di questi risultati deludenti, diventa difficile motivare un aumento ulteriore degli aiuti statali alle strutture di accoglienza con supposti effetti positivi sull’impiego femminile. Sappiamo ora che questo effetto è modesto. Rimane però il fatto che le giovani famiglie, appena fanno ricorso a strutture d’accoglienza, devono sopportare un carico finanziario il quale – a seconda dell’orientamento politico – gli uni giudicheranno sostanziale, gli altri eccessivo.
Possiamo affermarlo senza temere di esagerare: l’Unione Europea non fa sognare, e ciò non solo in Svizzera ma anche nei paesi membri. Eppure l’opinione pubblica europea – fatta eccezione per quelle italiana e inglese, di gran lunga le più euroscettiche –, quando interrogata al proposito non esita ad indicarne i benefici. Secondo l’ultimo sondaggio dell’Eurobarometro, 57% degli abitanti dell’UE indicava tra i punti più positivi la libera circolazione delle persone e il mercato unico. Altre pietre miliari dell’integrazione europea, come l’euro, raccolgono invece molto meno consensi.
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Effetti spettacolari
Un ambizioso studio appena pubblicato da un team di economisti della Banca centrale francese ci permette di meglio capire le ragioni di tale sentimento. Intitolato «Les coûts de la non-Europe, revisités» il rapporto quantifica i guadagni in benessere generati dalla libera circolazione di merci e servizi, introdotta nel lontano 1993.Ebbene, la creazione del mercato interno, nel quale le merci possono circolare tra i paesi membri con la stessa facilità con cui si muovono all’interno di un singolo paese, ha avuto effetti spettacolari dal punto di vista economico. Grazie al mercato unico, gli scambi sono aumentati del 109 per cento in media per le merci e del 58 per cento per i servizi. Questo effetto è di ben tre volte superiore a quello che si sarebbe registrato se i paesi membri avessero semplicemente instaurato un’area di libero scambio, rinunciando così a dazi doganali, senza però armonizzare in profondità le loro legislazioni.
Grandi vantaggi per le piccole economie
Lo studio stima guadagni in termine di benessere associati all’integrazione dei mercati nazionali equivalenti al 4,4% dei redditi. Ciò può sembrare poco, ma va subito precisato che i vantaggi sono stati ben più grandi per le piccole economie aperte (come l’Olanda, l’Austria e i paesi dell’Est) che per i grandi stati come Francia o Germania. La ragione è presto trovata: questi ultimi disponevano già prima del singolo mercato europeo di mercati interni estesi.
Da ultimo, gli economisti francesi stimano che se i paesi europei dovessero in futuro abbandonare il mercato comune ne risulterebbero perdite notevoli in termine di benessere economico: in Ungheria i redditi diminuirebbero del 17%, in Olanda e in Belgio del 10%, pari quindi a una severissima depressione economica.Queste cifre devono fare riflettere anche gli svizzeri. Il rinuncio eventuale agli accordi bilaterali con l’UE – anche se per tornare a una zona di libero scambio – lascerebbero tracce profonde nei nostri portafogli.
Marco Salvi
2’000 franchi al mese per rinunciare ad Internet
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Il valore del digitale supera di gran lunga il suo contributo alla produzione
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Marco Salvi
2’000 franchi al mese per rinunciare ad Internet
Plusvalore, PodcastIl valore del digitale supera di gran lunga il suo contributo alla produzione
Ce lo sentiamo ripetere quotidianamente: la digitalizzazione porta nuovi modi di produrre, investire, consumare e interagire. Ma al di là del baccano mediatico, qual è l’importanza concreta del settore digitale rispetto ai settori tradizionali dell’economia? E quale il suo valore per la nostra vita quotidiana?
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Saturati con la digitalizzazione
Prima di rispondere a queste domande è importante distinguere tra «settore digitale» e «economia digitale». Quest’ultima ingloba oramai l’insieme dell’economia perché non vi è un’attività – dall’agricoltura all’insegnamento – che faccia oggi a meno di tecnologie digitali. Un recente studio olandese mostrava ad esempio che ben l’86% delle imprese ha una presenza online. Il settore digitale invece è più ristretto. Comprende le attività basilari della digitalizzazione, i prodotti e i servizi delle TIC (le tecnologie dell’informatica e della comunicazione), le piattaforme online e le attività ad esse legate, quali l’economia partecipativa.
Ebbene, secondo una nuova pubblicazione del Fondo Monetario Internazionale, il settore digitale ammonterebbe a solo il 5% delle economie avanzate, se misurato in termini di valore aggiunto, reddito o occupazione. La Svizzera sarebbe tra i paesi più digitalizzati, con un contributo al PIL del settore digitale pari all’8%, simile quindi a quello di banche e assicurazioni.
Gratuito, ma di valore
Queste misure dell’impronta produttiva della digitalizzazione ne sottovalutano però il valore per i consumatori poiché molte delle transazioni digitali – da Facebook a Google – sono gratuite e quindi non contribuiscono direttamente all’aumento del PIL.
In una serie di esperimenti, studiosi del MIT di Boston hanno valutato il risarcimento necessario per indurre i consumatori a rinunciare ai servizi online. Stimano che ci vorrebbero in media ben 14’000 dollari per indurre gli utenti a rinunciare per un solo anno ai servizi dei motori di ricerca. L’email è la seconda categoria di beni digitali più apprezzati, con un «valore di rinuncio» pari a 8’400 dollari, seguita dalle mappe digitali. In tutto, servirebbero ben 25’000 dollari – pari a duemila franchi al mese – per farci rinunciare a tutti i servizi di Internet, a riprova del fatto che il benessere procurato dal mondo virtuale è ormai enorme, e va ben al di là del plusvalore di produzione.
Marco Salvi
Tirocinio: i rischi di un sistema vincente
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Fornire incentivi per garantire una formazione lungo tutto l'arco della carriera
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Marco Salvi
Tirocinio: i rischi di un sistema vincente
Plusvalore, PodcastFornire incentivi per garantire una formazione lungo tutto l'arco della carriera
Già lo si è detto e ridetto in questa sede: il mercato del lavoro è la vera «success story» della nostra economia. Lo dimostrano non solo il livello, ragguardevole, dei salari, ma anche l’alto tasso di occupazione e la bassa percentuale di disoccupati, persino tra i giovani.
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Quale è la ragione di questo successo? Le particolarità del nostro sistema sono molte, una spiegazione unica non c’è. All’estero cresce però l’interesse per il modello elvetico di formazione duale. In nessun altro paese la formazione professionale è tanto diffusa quanto in Svizzera, con quasi due terzi dei giovani che, dopo la scuola dell’obbligo, svolge un tirocinio.
Il tirocinio facilita la transizione tra scuola e lavoro perché è incentrato sull’insegnamento pratico. Si stima che gli apprendisti svizzeri dedichino l’80% del loro tempo a mansioni operative. Se nel primo anno di tirocinio la produttività degli apprendisti è ancora bassa, nel terzo anno essa raggiunge il 75% di quella di un dipendente medio. Ciò illustra bene la rapidità con cui i giovani acquisiscono conoscenze specifiche, utili alle imprese.
Rischi reale
Il sistema però comporta anche rischi. Se è vero che le qualifiche fornite dalla formazione professionale facilitano l’ingresso sul mercato del lavoro, esse possono diventare rapidamente obsolete, proprio perché specialistiche. Per esempio, fino ai primi anni ’90 si trovavano ancora posti d’apprendistato per riparatori di macchine da scrivere.
Al di là dell’aneddoto, analisi empiriche rivelano come il rischio sia ben reale. In uno studio recente, Eric Hanushek, grande specialista dell’economia dell’educazione, mostra come chi completa una formazione professionale abbia sì maggiori probabilità di essere occupato da giovane; il vantaggio occupazionale diminuisce però gradualmente con l’età. Hanushek stima che a partire di 50 anni le persone che completano un’istruzione secondaria generale hanno maggiori probabilità di occupazione rispetto a chi ha completato un tirocinio.
Ed è proprio in tempi di rapidi cambiamenti tecnologici che la conoscenza generale va favorita rispetto a quella specialistica. La formazione professionale dovrebbe pertanto essere orientata il più possibile verso il lungo termine, limitandone eccessive specializzazioni. Sarà inoltre essenziale fornire in futuro incentivi sia ai singoli che ai datori di lavoro per garantire una formazione lungo tutto l’arco della carriera.
Marco Salvi
Il passato della musica ci svela il futuro del lavoro
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Come organizzeremo il lavoro in futuro?
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Marco Salvi
Il passato della musica ci svela il futuro del lavoro
In un momento di transizione tecnologica come quello attuale, sono in molti a chiedersi quali saranno le forme future del lavoro. Fino ad ora, intelligenze artificiali, robot e economia digitale non hanno sconvolto l’organizzazione del lavoro. La figura tradizionale del dipendente a tempo pieno, alla ricerca di una carriera lineare, con regolari promozioni e aumenti salariali, è ancora molto diffusa.
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Eppure, per molte persone, e in modo particolare per i giovani, il modello standard sta perdendo attrattività. Cresce l’interesse per modalità più flessibili; interesse che va di pari passo con le esigenze di una migliore conciliazione della vita professionale e di quella familiare, nonché con il desiderio di far fruttare le proprie competenze in ambiti di lavoro variegati.
Per intravvedere il futuro del lavoro conviene allora guardare al presente di un settore che da sempre è stato all’avanguardia: parliamo del settore artistico. La musica ad esempio, è stata una delle prime attività economiche globalizzate. Si stima ad esempio che ben 30% dei compositori dell’epoca classica (attivi cioè dalla metà del 17° alla metà del 19° secolo) siano deceduti in un paese diverso da quello in cui erano nati, e che il 45% di essi abbia passato almeno due anni della propria vita lavorativa all’estero – una caratteristica questa oggi comune a molti percorsi professionali, non solo a quelli degli artisti.
Così possiamo speculare che il lavoro futuro in parte ricalcherà l’odierna organizzazione del settore artistico, ad esempio:
una produzione non legata a un posto fisso (fabbrica o ufficio), ma spesso in movimento
l’assenza di un singolo datore di lavoro, sostituito da più committenti
la diversificazione delle forme di reddito, dalla vendita della propria produzione, all’insegnamento, agli incontri (pagati) con mecenati
il lavoro in teams, formati per un progetto dato e per un periodo limitato.
L’aspetto più distintivo del settore artistico risiede però nell’importanza data all’essere autori. Confidiamo quindi che, in futuro, non solo gli artisti ma anche «normali dipendenti» vorranno sempre più definire autonomamente i contenuti del proprio lavoro – rinunciando magari a parte del salario per perseguire il sogno dell’«autoralità».
Marco Salvi
Mercato del lavoro in forma olimpica… ma solo per gli uomini?
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Alle Olimpiadi del lavoro, la Svizzera farebbe incetta di medaglie
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Marco Salvi
Mercato del lavoro in forma olimpica… ma solo per gli uomini?
Plusvalore, PodcastAlle Olimpiadi del lavoro, la Svizzera farebbe incetta di medaglie
Se ci fossero le Olimpiadi del mercato del lavoro, la Svizzera si classificherebbe ai primi posti del medagliere. Fra i 35 membri dell’OCSE, il club delle economie più avanzate, il nostro paese si piazza al secondo posto per il tasso di occupazione, la qualità dell’ambiente di lavoro e la bassa percentuale di «working poors». Siamo medaglia di bronzo nelle categorie salari, sicurezza del posto di lavoro e capacità a integrare lavoratori con handicap.
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Le differenze salariali tra uomini e donne sono invece una delle poche categorie dove ci ritroviamo lontani dai primi. La Svizzera registra infatti un divario di circa 15 percento, maggiore di quanto non si rincontri nei paesi scandinavi e, più sorprendentemente, anche in quelli dell’Europa Meridionale, Italia compresa. Un mercato svizzero del lavoro in forma olimpica quindi, ma solo per gli uomini?
No, perché se presa isolatamente questa differenza salariale non è un indicatore affidabile. Anzi, proprio il fatto che il nostro mercato del lavoro sia molto integrativo, con altissimi tassi d’occupazione sia maschili che femminili, spiega in gran parte questo modesto piazzamento. In effetti, il divario salariale medio tra i sessi tende ad essere minore laddove relativamente poche donne svolgono un lavoro retribuito.
In Italia, Grecia o Portogallo, l’eccesso di regolamentazione del mercato del lavoro ha portato alla creazione di barriere all’impiego. A queste barriere reagiscono più le donne che gli uomini. Una parte importante della forza lavoro femminile, che da noi è impiegata a tempo parziale, non è affatto attiva professionalmente. A rimanere sul mercato del lavoro sono quindi soprattutto le donne meglio istruite, con un posto a tempo pieno, il che spiega le minori differenze salariali tra i sessi osservate a sud.
Ciononostante la Svizzera può migliorare. Bisogna rimuovere il più possibile gli ostacoli che ancora impediscono di conciliare pienamente carriera e famiglia. Un ruolo decisivo lo giocheranno tecnologia e organizzazione del lavoro, quale le possibilità di telelavoro. Ma non vanno dimenticate diverse misure di politica sociale che faciliterebbero ulteriormente le carriere femminili: dal congedo parentale all’accoglienza della prima infanzia.
Marco Salvi
Quando sbarcano i cinesi
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Non servono comissioni per decidere dell'opportunità di investimenti esteri
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Marco Salvi
Quando sbarcano i cinesi
Plusvalore, PodcastNon servono comissioni per decidere dell'opportunità di investimenti esteri
È notizia di qualche giorno fa: la Bally, già prestigioso marchio della calzatura svizzera, dopo numerosi travagli e cambiamenti di proprietari, è stata acquistata da investitori cinesi. Non si tratta di un caso isolato: la stessa sorte è toccata di recente a Swissport, Gategroup e Syngenta. Quest’ultima rimane addirittura la più importante acquisizione di una ditta estera da parte di investitori cinesi.
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Che ditte «tipicamente» svizzere passino in controllo estero non è certo una novità. L’82% del capitale delle imprese quotate alla borsa elvetica è in mano straniera. Secondo la Banca Nazionale, gli investimenti esteri nel nostro paese raggiungerebbero oramai i 1000 miliardi di franchi. La parte degli investitori cinesi, benché in crescita, rimane marginale.
Gli investimenti dalla Cina creano però un problema supplementare: gli acquirenti sono spesso ditte controllate in maniera più o meno diretta dallo stato cinese. Lo stesso stato non esita a bloccare investimenti simili in Cina, dichiarando numerosi settori di interesse strategico – e quindi «off limits» per investitori svizzeri. Così viene a mancare un importante elemento di reciprocità.
Per rimediare a questa asimmetria, c’è chi da noi richiede maggiore regolamentazione, con l’introduzione di una commissione che giudicherebbe dell’opportunità di tali acquisizioni, valutando criteri di politica industriale e di difesa nazionale. Meccanismi simili esistono negli Stati Uniti e in vari paesi dell’UE.
Questa idea va però respinta. Infatti, analisi empiriche dei meccanismi in vigore all’estero mostrano che in ambito di investimenti industriali, il primato della politica ha un effetto deleterio sulle valutazioni di tutte le imprese di un settore, anche quelle che non sono target di scalate.
Del resto, paradossalmente, la Svizzera è già tra i paesi più restrittivi in materia. Investimenti in cosiddette infrastrutture di base, dall’acqua potabile all’energia, sono riservati a investitori rossocrociati – o allo stato. Non è oggi il caso di chiuderci a riccio. Meglio fare pressione a livello internazionale su una maggiore apertura del mercato cinese. In fondo, è proprio così che funziona la globalizzazione.
Marco Salvi
La Grande Convergenza
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Una convergenza si nota anche a livello mondiale, anche se – è quasi inutile ricordarlo – sussistono ancora profondi divari tra le nazioni.
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Marco Salvi
La Grande Convergenza
Plusvalore, PodcastUna convergenza si nota anche a livello mondiale, anche se – è quasi inutile ricordarlo – sussistono ancora profondi divari tra le nazioni.
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I primi esseri umani anatomicamente moderni sono apparsi 200’000 anni fa; il linguaggio articolato risale a 50’000 anni fa, l’agricoltura a 10’000. A confronto con queste pietre miliari dello sviluppo umano, il processo di crescita economica è invece recentissimo: esso si è innescato solo 200 anni fa in alcune regioni dell’Europa occidentale e in Nord America. Prima del XIX secolo la stragrande maggioranza della popolazione mondiale viveva al minimo livello di sussistenza.
Benché la crescita economica sia un fenomeno recente, profonde divergenze tra i paesi sono apparse ben prima che gli uffici di statistica iniziassero a monitorare sistematicamente l’evoluzione dei redditi. Utilizzando stime desunte da svariate fonti storiche, economisti stanno però ricostruendo a poco a poco quest’aspetto importante del passato dell’umanità. Nuove misure pubblicate la settimana scorsa dall’Università di Groningen in Olanda, forniscono un quadro affidabile, risalente fino al 1870.
Da questi dati risulta che 150 anni fa Regno Unito e Stati Uniti erano chiaramente le due nazioni più ricche, con un reddito pari a circa 2700 dollari all’anno per persona. Con un distacco di circa 30% seguivano paesi dell’Europa nordoccidentale, tra i quali Germania, Francia e Svizzera – a riprova che già allora il nostro paese era tra i più benestanti al mondo. Livelli di reddito comparabili si registravano pure in Argentina e Uruguay.
I nuovi dati mostrano anche come gli Stati Uniti siano sempre riusciti a rimanere in vetta alla classifica del reddito. Dal 1870 a oggi il reddito dell’americano medio è stato moltiplicato per 18 in termini reali. Il distacco con la seconda regione più ricca, l’Europa occidentale, ha raggiunto un picco nel 1950, subito dopo la Seconda guerra mondiale. Da allora le differenze di reddito vanno calando.
Una convergenza si nota anche a livello mondiale, anche se – è quasi inutile ricordarlo – sussistono ancora profondi divari tra le nazioni. In media però, i paesi poveri crescono più rapidamente di quelli ricchi. Se la globalizzazione non rallenterà, si stima che ci vorranno ancora 35 anni per che si dimezzino le differenze di reddito a livello planetario. A voi decidere se la bottiglia è mezza vuota o mezza piena.
Marco Salvi
Tassare di più le multinazionali per alleviare la povertà nel mondo?
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Ma sarebbe un grave errore puntare solo su multinazionali carta per risolvere i problemi urgenti delle nazioni in via di sviluppo. Solo una solida e duratura crescita economica potrà eradicare la povertà.
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Marco Salvi
Tassare di più le multinazionali per alleviare la povertà nel mondo?
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Da anni l’attività fiscale delle imprese multinazionali è al centro dell’attenzione delle autorità fiscali di numerosi paesi. Rivelazioni quali i Lux Leaks, i Panama Papers o, più recentemente, i Paradise Papers hanno messo ulteriormente sotto pressione sia multinazionali che governi. In parte dell’opinione pubblica e tra numerosi attori della società civile, quali ONG e chiese, vi è oramai la ferma impressione che nei paesi in via di sviluppo i profitti delle imprese transnazionali sfuggano quasi totalmente al fisco. Tanto che ne basterebbe la corretta imposizione per mobilitare tutte le risorse di cui questi paesi hanno bisogno per raggiungere i principali obiettivi di sviluppo.
Ma, aldilà della legittimità o meno di tali pratiche di ottimizzazione fiscale – nelle quali, fra l’altro, la Svizzera gioca un ruolo di primo piano -, è possibile quantificare con precisione l’impatto reale nei paesi più poveri del cosiddetto BEPS, ovvero delle strategie delle imprese per erodere la base imponibile?
Secondo le analisi ufficiali effettuate dall’OCSE la perdita di gettito annuale si aggirerebbe tra i 100 e i 240 miliardi di dollari a livello mondiale. Certo, si tratta di un bel gruzzolo. Esso rappresenta però solo dal 4% al 10% delle entrate derivanti dalle imposte sui redditi delle società – e nemmeno l’1% dell’insieme delle entrate fiscali statali.
Inoltre, la stragrande maggioranza di queste mancate entrate non incide sui budget dei paesi poveri, ma bensì di quelli ricchi, primi fra tutti su quello cronicamente deficitario degli Stati Uniti. Nuovi studi indicano che ben un quarto di tutte le perdite di gettito dovute al BEPS andrebbero a scapito dell’erario degli Stati Uniti.
La ragione è semplice: la stragrande maggioranza degli scambi commerciali internazionali avviene ancora tra paesi già industrializzati, non tra quelli ricchi e quelli poveri. Così il commercio tra l’Africa e resto del mondo non rappresenta che 3% degli scambi globali. Vi è quindi poco da «ottimizzare». Del resto, secondo stime della Banca Mondiale, nei paesi più poveri le multinazionali generano in media già il 10% del gettito, mentre nei paesi industrializzati solo il 5% delle entrate è dovuto a questo tipo d’imprese. Grosse differenze invece si riscontrano a livello di tassazione dei redditi delle persone fisiche, specie di quelle più ricche e degli indipendenti, che nei paesi poveri o in via di sviluppo spesso riescono ad evadere il fisco in tutta impunità.
Di fronte ai bisogni ingenti dei paesi più poveri, un aumento anche sostanziale delle imposte pagate dalle multinazionali avrebbe un impatto solo marginale sulla capacità di questi paesi a finanziare il loro sviluppo. Ciò non vuol dire che bisogna abbandonare ogni tentativo di riforma della fiscalità transnazionale. Anzi, vanno sostenute iniziative come quelle dell’OCSE, miranti a contrastare le politiche di pianificazione fiscale aggressiva di certe multinazionali. Ma sarebbe un grave errore puntare solo su questa carta per risolvere i problemi urgenti delle nazioni in via di sviluppo. Solo una solida e duratura crescita economica potrà eradicare la povertà.
Marco Salvi
Un PIL da prendere con le pinzette
Plusvalore, Podcast
Per misurare le differenze di benessere tra paesi spesso viene consultato il PIL...
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Per misurare le differenze di benessere tra paesi spesso viene consultato il PIL per abitante (Prodotto interno lordo), una statistica che misura il valore della produzione creata durante un anno. Da qualche tempo il PIL per abitante viene calcolato regolarmente per tutti i cantoni svizzeri. Ebbene, con 80’000 Franchi all’anno, quello ticinese è fra i più alti: nel 2014 solo sei cantoni facevano meglio. Certo, gli 80’000 Franchi del Ticino sono sempre poca cosa rispetto ai 163’000 del capolista Basilea Città, ma è pur sempre molto di più del fanalino di coda Uri, a quota 51’000 Franchi.
Sarebbe tuttavia affrettato dedurre da questi dati che il Ticino è un cantone più «produttivo» o più ricco della media svizzera. Il PIL per abitante ticinese non può fungere da indicatore della produttività e del benessere dei ticinesi per il semplice motivo che il mercato del lavoro vi è costituito per più di un quarto da frontalieri non-residenti. Poiché questi trasferiscono le rispettive entrate in Italia, vi è in Ticino una differenza notevole fra il valore della produzione attestato dal PIL e il reddito dei residenti.
Meglio quindi prendere il valore aggiunto per ora effettiva di lavoro.
Con 79 Franchi all’ora il Ticino si colloca nella metà inferiore delle principali regioni. Peggio ancora: la crescita marcia sul posto: dal 2008 al 2014 la produttività è cresciuta di un esiguo 0,5 %. La Svizzera orientale, al contrario, nello stesso lasso di tempo ha registrato un incremento della produttività dieci volte superiore.
Non stupisce quindi se, a contrario del PIL, il reddito a disposizione delle famiglie ticinesi sia inferiore alle altre regioni della Svizzera. Rispetto a Zurigo, la regione più ricca, il gap raggiunge un buon 15 Percento. Ma anche questa differenza negativa va interpretata con cautela: secondo uno studio dell’USI, quasi due terzi del divario spariscono se si tiene conto delle differenze di prezzo esistenti. Ad esempio, a sud delle Alpi il livello medio degli affitti è notevolmente inferiore.
Ricapitoliamo. Rispetto alla media nazionale, in Ticino il livello della produttività è minore, cosi come lo sono i redditi – ma non lo è necessariamente quello del benessere perché i consumi costano meno. E se si tenesse conto anche del valore del bel tempo, rimarrebbero poche ragioni per invidiare il livello di vita dei cari zurighesi.
Marco Salvi
I robot sono dappertutto, fuorché nelle statistiche
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L’andamento recente delle diverse misure di produttività non segnala cambiamenti repentini delle strutture produttive causate dalla digitalizzazione. Anzi, in Svizzera la produttività del lavoro ristagna. Fino ad oggi, la Rivoluzione industriale 4.0 è stata quindi meno rivoluzionaria di quelle precedenti.
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Marco Salvi
I robot sono dappertutto, fuorché nelle statistiche
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L’uscita roboante – è il caso di dirlo – di «Blade Runner 2049» nei cinema di mezzo mondo mi sembra un pretesto sufficiente per riparlare di tecnologia. Motivo centrale del film è la somiglianza tra umani e macchine, quest’ultime oramai in grado anche di procreare. Ad appena 32 anni da questa data fatidica, è forse già possibile rilevare l’impatto di robot, intelligenza artificiale o digitalizzazione che dir si voglia sulla nostra realtà economica?
Per gli economisti, la produttività è la misura statistica più adatta per rispondere a questa domanda. Essa valuta il rapporto tra il valore dei beni creati e le quantità di lavoro o capitale impiegate nella loro produzione. Un’accelerazione del progresso tecnologico alla «Blade Runner» dovrebbe necessariamente essere accompagnata da un forte aumento della produttività del lavoro, con un numero minore di impiegati umani in grado di generare il valore aggiunto attuale. In fondo, è proprio per questo che si costruiscono macchine.
Ebbene, l’andamento recente delle diverse misure di produttività non segnala cambiamenti repentini delle strutture produttive. Anzi, in Svizzera la produttività del lavoro ristagna. Secondo dati del Seco, essa è aumentata fra il 2007 e il 2015 soltanto dello 0,2 percento all’anno, ben al di sotto dei 1,5 percento dei due decenni precedenti. Questo pattern si osserva in tutte le economie più avanzate. Il rallentamento è particolarmente forte se paragonato ai tassi di crescita del XIX secolo o delle «Trente Glorieuses» (1946-1975). In termini di produttività, la Rivoluzione industriale 4.0 sarebbe quindi molto meno rivoluzionaria di quelle precedenti.
Questo fenomeno interroga gli economisti. Per gli uni, esso si spiegherebbe con i costi sempre più elevati dell’innovazione. Se negli anni Settanta erano bastati a Steve Jobs un garage e un tocco di genio per rivoluzionare il settore dei personal computers, oggi cambiamenti di simile levatura richiedono un esercito di costosi ricercatori, avvocati e specialisti del marketing. Secondo altri esperti invece, innovazioni fondamentali come Internet o i Big data non avrebbero ancora permeato in profondità tutti i settori dell’economia. Non sarebbe quindi che una questione di tempo per vederne l’effetto anche sulla produttività. Ma vi è anche chi – alla luce delle statistiche – mette in dubbio la portata effettiva di queste innovazioni tecnologiche che tanto nuove non sarebbero. Per intenderci: Se rapportate a invenzioni come il telefono o il computer, i Big data somigliano un po’ al sequel di un film di successo.
Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 6 novembre 2017 del programma «Plusvalore».
Per gentile concessione di «RSI Rete due».
Marco Salvi
Tutti capi grazie alla digitalizzazione
Plusvalore
A venticinque anni dall’arrivo di Internet, come è cambiato il mercato del lavoro in Svizzera? La sua evoluzione è una conseguenza logica del cambiamento tecnologico.
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A venticinque anni dall’arrivo di Internet, come è cambiato il mercato del lavoro in Svizzera?
Per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, i mutamenti sono stati tutto sommato minori. La temuta «precarizzazione digitale» non è avvenuta. Secondo dati dell’Ufficio federale di statistica, in Svizzera il telelavoro marcia sul posto, al pari della quota di indipendenti o di persone con contratti a durata determinata.
Si nota invece una polarizzazione del mercato del lavoro, vale a dire una forte diminuzione percentuale delle persone con qualifiche medie, ad esempio con solo un tirocinio. Oggi rappresentano il 23% degli occupati, rispetto al 38% nel 1995. Il numero di persone con qualifiche superiori (università o scuole universitarie professionali) è invece in forte aumento. Vi è stata quindi una riqualifica del ceto medio svizzero che ha permesso di far fronte con bravura ai mutamenti tecnologici.
Tra le categorie in forte crescita spicca quella delle persone con responsabilità dirigenziali. In Svizzera, un impiegato su dieci svolge funzioni di questo tipo, il triplo di 25 anni fa. Le imprese somigliano insomma sempre più a quegli eserciti messicani dove tutti erano colonnelli o generali.
A ben guardare però, questa evoluzione è una logica conseguenza del cambiamento tecnologico. Le fabbriche d’una volta, con decine di operai alle macchine e qualche caposquadra che controlla, sono in via d’estinzione. Le aziende moderne sono organizzate in piccoli teams. La gestione, l’organizzazione, la pianificazione, la comunicazione – insomma tutte quelle attività volte alla creazione di «capitale organizzativo» – sono diventate sempre più importanti, a scapito della produzione vera propria. C’è chi lo deplora, ma è un dato di fatto.
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Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 9 ottobre 2017 del programma «Plusvalore». Per gentile concessione di «RSI Rete due».