Il dibattito pubblico su quale sia la via migliore per il futuro del nostro Paese sta prendendo corpo. E non è soltanto merito dell’attuale diatriba sulla politica europea, che sotto il mantello dell’accordo istituzionale nasconde l’intero ventaglio tematico della democrazia diretta: dal timore di perdere definitivamente la sovranità e i diritti democratici di partecipazione sino al mantenimento dell’attuale benessere, che senza un libero accesso al mercato del nostro principale partner commerciale rischia effettivamente di avere i piedi d’argilla.
Anche se pare si stia diffondendo la «cultura del ma», una sola cosa è certa: lo status quo non è considerato una variante, come ha ribadito in un recente contributo pubblicato sulla NZZ l’ex Consigliere federale Kaspar Villiger. Invece di marciare sul posto dobbiamo impegnarci per consolidare le nostre relazioni con l’estero tramite accordi di libero scambio – non soltanto con l’UE, bensì pure con altri importanti mercati di sblocco come gli Stati Uniti – e ritrovare il dinamismo dell’imprenditoria elvetica delle origini.
Oggi in Svizzera la quota del commercio estero raggiunge un ragguardevole 93%. I due terzi delle PMI operano su scala internazionale, rinnovano regolarmente la loro gamma di prodotti e si muovono con successo sui mercati esteri. Allo stallo sul piano della politica interna e all’incapacità di decidere quale sia la via «corretta» da seguire nel commercio con l’estero fa da contraltare un mondo sempre più tripolare, con i tre grandi blocchi economici: il nuovo accordo USMCA capitanato dagli USA, l’UE e l’accordo commerciale Asia-Pacifico (Apta), dominato dalla Cina come seconda potenza economica. Questi blocchi issano regolarmente la bandiera del protezionismo per difendere i propri interessi economici.
A livello globale sono circa un migliaio le nuove restrizioni al commercio decretate ogni anno. La Svizzera sta lì nel mezzo, con la sua economia aperta per la quale è imprescindibile poter accedere liberamente al mercato. Il nostro Paese dipende da un quadro normativo internazionale stabile. La via multilaterale si presenta sempre più in salita a causa dell’indebolimento dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC). La tornata di negoziati di Doha, avviata nel 2001, non ha sinora permesso di siglare alcun accordo, mentre l’ordinamento economico globale è dominato dai tre blocchi che pongono il nostro Paese e la piazza imprenditoriale svizzera dinanzi a sfide considerevoli.
Anziché garantirsi l’accesso ai mercati dei due principali partner commerciali tramite un contratto quadro e svariati accordi bilaterali con l’UE, o norme di libero scambio con gli USA, la Svizzera si impantana in discussioni interne sulla via da seguire che compromettono sensibilmente anche l’ordinamento economico. Parallelamente, i problemi sociali urgenti, come ad esempio i mutamenti demografici, sono relegati in secondo piano, come a dire che a titolo di paragone ci troviamo dinanzi a una lunga colonna di riforme al Gottardo. In aggiunta, sta prendendo piede una tipologia di iniziative popolari di «qualità» inedita, che prevede l’applicazione esterritoriale del diritto e va a toccare sul vivo il settore dell’esportazione.
Secondo il tenore dell’iniziativa per imprese responsabili o dell’iniziativa per alimenti equi, bocciata alle urne, le attività all’estero o con società straniere sarebbero consentite soltanto garantendo l’applicazione del diritto svizzero anche fuori dai confini nazionali. Una visione della nostra legislazione come una sorta di ordine divino, che domina tutto e tutti con la sua onnipotenza? A chi alimenta le controversie interne sulla via che il nostro Paese dovrà imboccare nei rapporti economici con l’estero va forse ricordato che in Svizzera i tre quarti circa della forza lavoro sono inseriti in aziende più o meno legate al commercio internazionale. Un dato di fatto, e non la «cultura del ma», che occorre tenere ben presente per orientarsi meglio tra democrazia, sovranità e globalizzazione economica.
Il presente articolo è stato pubblicato il 9 aprile 2019 sul «St. Galler Tagblatt» e sulla «Luzerner Zeitung».