La pandemia è lungi dall’ essere terminata, ma da un punto di vista strettamente economico, il bilancio per le famiglie svizzere è tutt’ora moderatamente favorevole. Se consideriamo ad esempio gli indicatori comunemente usati per valutare la salute del mercato del lavoro, sono pochi i segnali negativi: il tasso di occupazione è tornato ai livelli pre-crisi, mentre la disoccupazione è in forte calo rispetto a un anno fa. Anche i salari reali non hanno vacillato: anzi, l’anno scorso, al culmine della crisi, sono aumentati dell’ 1,5% in termini reali.
Questo risultato piuttosto positivo non si applica però a tutti allo stesso modo. La crisi del Covid è unica in quanto ha colpito i vari settori di attività in modo molto differenziato. Nel settore alberghiero e nella ristorazione, così come nei servizi culturali e nei trasporti, il livello di attività rimane inferiore alla norma. L’ informatica, le attività immobiliari o la pubblica amministrazione sono invece in piena espansione.
La distribuzione quasi aleatoria di perdite e profitti non poteva che ravvivare il dibattito sulle disuguaglianze. Vale la pena ricordare che questo dibattito è stato finora principalmente alimentato dagli sviluppi nei paesi anglosassoni al seguito della crisi finanziaria. In Svizzera le disuguaglianze erano rimaste sostanzialmente invariate da due decenni a questa parte.
La pandemia sarà riuscita ad accentuare la disparità dei redditi anche da noi? Non si può rispondere a questa domanda senza considerare la vigorosa reazione dello stato. Nel 2020, sono stati versati 11 miliardi di franchi quali indennità di lavoro ridotto. Nel complesso, le prestazioni sociali sono aumentate di 21 miliardi di franchi, ovvero del 12%.
Sfortunatamente, in Svizzera mancano dati affidabili che ci permetterebbero di stimare gli effetti di queste prestazioni supplementari sulla distribuzione dei redditi. Tuttavia, diversi studi di questo tipo già esistono all’estero. Essi suggeriscono nel complesso che le politiche di sostegno varate durante la pandemia hanno più che compensato l’effetto regressivo della crisi sui redditi. In altre parole, senza il sostegno statale, la pandemia avrebbe fortemente esacerbato le disparità. Ma una volta preso in considerazione il notevole sostegno fornito dai governi, le disuguaglianze reddituali sono state tendenzialmente ridotte.
C’è chi teme che, una volta terminati i programmi d’assistenza straordinari, vi sarà un’impennata delle disuguaglianze. Non è detto. L’economia è ripartita. Mai in passato il numero di posti liberi è stato così alto: al terzo trimestre di quest’anno c’ erano in Svizzera 100 000 posti vacanti – un numero di poco inferiore a quello dei disoccupati. Non sarebbe la prima volta che la capacità di adattamento del mercato del lavoro svizzero ci sorprende positivamente.
Questo podcast è stato pubblicato il 10.1.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Il mercato del lavoro svizzero è uno dei più mobili in termini di salari
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Marco Salvi
La Svizzera rimane un paese di opportunità
PlusvaloreIl mercato del lavoro svizzero è uno dei più mobili in termini di salari
In Svizzera le disparità di reddito sono relativamente contenute, soprattutto se si considera la distribuzione dei salari. Ma c’è una carenza cruciale nel guardare alla distribuzione del reddito o della ricchezza in un dato momento: si tratta di una considerazione puramente statica. Essa dice poco su quello che è probabilmente il criterio di distribuzione più importante: la distribuzione delle opportunità. In altre parole: a chi da noi parte da circostanze modeste, riesce il “cambio di classe”?
Un nuovo studio di Patrick Chuard e Veronica Grassi dell’Università di San Gallo permette per la prima volta di rispondere in modo preciso a questa importante domanda. I ricercatori dell’Università di San Gallo hanno collegato dati salariali dell’AVS, informazioni sulla situazione familiare e elementi del censimento per costituire un quadro abbastanza completo della situazione socio-economica di quasi un milione di persone appartenenti alla generazione X, nate cioè tra il 1967 e il 1984, e dei loro genitori.
Il risultato in una frase: La Svizzera, davvero, è un paese di opportunità. A differenza degli Stati Uniti, un tempo famosi per il “sogno americano” e le carriere da lavapiatti, dove la mobilità sociale ristagna, vi è da noi una correlazione bassa tra il reddito dei figli e quello dei loro genitori. Ad esempio, in Svizzera, un figlio trentenne con un padre nel percento più basso della distribuzione dei salari guadagna all’anno in media solo 12’000 franchi in meno rispetto a un coetaneo con un padre “ricco” (nel 1 percento dei redditi più elevati).
Che dire però della mobilità sociale assoluta? I figli oggi trentenni guadagnano di più dei loro genitori quando avevano la loro età? Questo aspetto della mobilità sociale dipende anche dalla crescita economica: se tutti i salari ristagnano, non c’è mobilità assoluta del reddito, anche se quella relativa rimane invariata.
Ebbene, così non è. In Svizzera, circa il 54 per cento dei trentenni della generazione X guadagna più del loro padre alla loro stessa età, mentre circa l’88 per cento delle figlie guadagna più delle madri. Quest’ultima cifra riflette la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Tuttavia, solo il 18 per cento delle trentenni guadagna più del padre.
Nel complesso, lo studio dimostra che il mercato del lavoro svizzero è molto mobile. Anzi, il nostro è uno dei paesi con la mobilità salariale più elevata. La permeabilità del sistema educativo elvetico è una ragione importante per questo dinamismo. Infatti, benché la scelta del percorso educativo (università o apprendistato) sia molto influenzata dal reddito dei genitori, la posizione relativa delle giovani generazioni nella distribuzione dei salari non dipende tanto dal loro percorso educativo. Un diploma universitario rimane essenziale solo per accedere alla fascia di reddito più alta.
Questo podcast è stato pubblicato il 14.09.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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Una convergenza si nota anche a livello mondiale, anche se – è quasi inutile ricordarlo – sussistono ancora profondi divari tra le nazioni.
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Marco Salvi
La Grande Convergenza
Plusvalore
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PodcastUna convergenza si nota anche a livello mondiale, anche se – è quasi inutile ricordarlo – sussistono ancora profondi divari tra le nazioni.
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I primi esseri umani anatomicamente moderni sono apparsi 200’000 anni fa; il linguaggio articolato risale a 50’000 anni fa, l’agricoltura a 10’000. A confronto con queste pietre miliari dello sviluppo umano, il processo di crescita economica è invece recentissimo: esso si è innescato solo 200 anni fa in alcune regioni dell’Europa occidentale e in Nord America. Prima del XIX secolo la stragrande maggioranza della popolazione mondiale viveva al minimo livello di sussistenza.
Benché la crescita economica sia un fenomeno recente, profonde divergenze tra i paesi sono apparse ben prima che gli uffici di statistica iniziassero a monitorare sistematicamente l’evoluzione dei redditi. Utilizzando stime desunte da svariate fonti storiche, economisti stanno però ricostruendo a poco a poco quest’aspetto importante del passato dell’umanità. Nuove misure pubblicate la settimana scorsa dall’Università di Groningen in Olanda, forniscono un quadro affidabile, risalente fino al 1870.
Da questi dati risulta che 150 anni fa Regno Unito e Stati Uniti erano chiaramente le due nazioni più ricche, con un reddito pari a circa 2700 dollari all’anno per persona. Con un distacco di circa 30% seguivano paesi dell’Europa nordoccidentale, tra i quali Germania, Francia e Svizzera – a riprova che già allora il nostro paese era tra i più benestanti al mondo. Livelli di reddito comparabili si registravano pure in Argentina e Uruguay.
I nuovi dati mostrano anche come gli Stati Uniti siano sempre riusciti a rimanere in vetta alla classifica del reddito. Dal 1870 a oggi il reddito dell’americano medio è stato moltiplicato per 18 in termini reali. Il distacco con la seconda regione più ricca, l’Europa occidentale, ha raggiunto un picco nel 1950, subito dopo la Seconda guerra mondiale. Da allora le differenze di reddito vanno calando.
Una convergenza si nota anche a livello mondiale, anche se – è quasi inutile ricordarlo – sussistono ancora profondi divari tra le nazioni. In media però, i paesi poveri crescono più rapidamente di quelli ricchi. Se la globalizzazione non rallenterà, si stima che ci vorranno ancora 35 anni per che si dimezzino le differenze di reddito a livello planetario. A voi decidere se la bottiglia è mezza vuota o mezza piena.
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Ha di che preoccupare ogni buon economista il fatto che al primo turno delle elezioni presidenziali francesi ben il 40 percento degli elettori abbia votato per due candidati, Marine Le Pen et Jean-Luc Mélenchon, i quali promettevano una politica improntata a un nazionalismo economico puro e duro, fondamentalmente opposta agli scambi commerciali internazionali.
Il voto francese avrebbe certamente preoccupato David Ricardo, che con la pubblicazione avvenuta esattamente 200 anni fa del suo libro “On the Principles of Political Economy and Taxation”, poneva più di ogni altro le basi intellettuali per la difesa del commercio internazionale. In quest’opera Ricardo enunciava per la prima volta un concetto diventato oramai indispensabile per capire i benefici della globalizzazione: il principio dei vantaggi comparati.
In sostanza, il principio sostiene che ogni nazione, non importa quanto avanzata o povera, produttiva o meno, trae beneficio dal commercio con altri paesi. Alla nazione più produttiva – ai tempi di Ricardo era il Regno Unito – non conviene infatti esportare ogni prodotto, ma soltanto quelli per i quali detiene un vantaggio comparato. Paradossalmente, persino il paese più produttivo avrà ogni interesse a importare beni che sarebbe perfettamente in grado di produrre in modo più efficiente rispetto ai concorrenti esteri. Allo stesso modo, anche ai paesi con livelli di produttività inferiori su tutti i fronti converrà specializzarsi nell’esportazione di quei beni per i quali la differenza di produttività con le altre nazioni è minore. In parole povere, con il principio dei vantaggi comparati Ricardo spiega come sia sempre opportuno specializzarsi nell’attività che svolgiamo meno peggio delle altre.
Nel corso degli ultimi 200 anni, innumerevoli economisti hanno chiarito, approfondito e anche relativizzato il concetto ricardiano dei vantaggi comparati. A un livello fondamentale però il messaggio è rimasto lo stesso: è nell’interesse di tutte le nazioni, persino delle più povere, commerciare tra di loro. Il voto francese ci ricorda che nel corso di questi due secoli gli economisti non sono riusciti a convincere gran parte del pubblico. Ma non disperiamo.
Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 24 aprile 2017 del programma «Plusvalore». Per gentile concessione di «RSI Rete due».
Il PIL pro capite sovrastima il livello di benessere della Svizzera. Esiste però un’alternativa migliore per misurare la prosperità di un paese.
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Non c’è dubbio, la Svizzera è un paese ricco. Ma quanto esattamente? Confronti internazionali spesso ricorrono al Prodotto interno lordo (PIL) pro capite quale misura del livello di benessere. Da quando però l’anno scorso il PIL dell’Irlanda aumentò di botto del 30%, è diventato chiaro a tutti che serve un’alternativa. Questo balzo del PIL era stato causato unicamente dalla riallocazione di alcune posizioni di bilancio di multinazionali americane, senza riscontro diretto nel benessere quotidiano degli irlandesi.
Eppure, un’alternativa che meglio riflette lo standard di vita reale ci sarebbe: si chiama Consumo Individuale Effettivo. A differenza del PIL, questa misura non si basa sulla produzione, ma, come il nome indica, sul consumo dei residenti. Essa integra anche la categoria – sempre più importante – degli acquisti effettuati dallo Stato a beneficio diretto degli individui, ad esempio prestazioni ospedaliere o sovvenzioni per l’alloggio sociale.
In molti paesi europei la differenza tra PIL e consumo effettivo è trascurabile. Non però in quelle piccole nazioni, fortemente globalizzate, che sono diventate importanti piazze economiche per imprese multinazionali. Tra queste vi è appunto l’Irlanda, il Lussemburgo, ma anche la Svizzera.
Così, nel nostro paese il PIL pro capite supera di quasi il 70% quello italiano. Ma se guardiamo ai consumi effettivi, il divario di benessere con l’Italia si dimezza. Il livello svizzero dei consumi è di poco superiore a quello austriaco o a quello tedesco, a riprova del fatto che sul vecchio continente il nostro paese non ha il monopolio del benessere.
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Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 13 marzo 2017 del programma «Plusvalore».
Per gentile concessione di «RSI Rete due».
Sono in molti a lodare, tra i vantaggi strutturali del nostro paese, «il livello ragionevole delle tasse». Le statistiche ufficiali sembrano in apparenza confermarlo: con una quota complessiva di tassazione in rapporto al PIL del 28 percento, la Svizzera si trova sotto la media dei paesi ricchi membri dell’OCSE – e ben al di sotto del 43 percento dell’Italia. Tutto ok quindi?
Non proprio. Le cifre elvetiche ingannano. Il nostro paese ottiene buoni risultati perché i contributi obbligatori per la previdenza professionale o i premi per l’assicurazione malattia obbligatoria non vengono considerati come contributi versati allo Stato ma bensì come contributi privati.
Invece, in molti paesi le prestazioni legate ad esempio alla salute sono finanziate tramite imposte. Così è anche in Italia, dove il sistema sanitario è in gran parte finanziato dalle Regioni, dall’IVA, nonché da una tassa sulla benzina.
In verità, in Svizzera, l’impatto effettivo dello Stato sul reddito dei cittadini è maggiore di quanto molti credano. Con circa 1900 franchi per adulto e mese, i contributi obbligatori sollecitano il bilancio degli Svizzeri più delle tasse vere e proprie, quali l’imposta sul reddito o l’IVA. Per quest’ultime si sborsano “soltanto” 1500 franchi al mese. Un adulto consegna quindi un po’ meno della metà del reddito lordo sotto forma di imposte varie, contributi alla previdenza sociale e premi delle casse malati. L’impiego della metà del reddito è predeterminato dallo Stato. In ciò la Svizzera si differenzia poco dai suoi vicini europei.
Paradossalmente però, questo non vuole dire che il livello di redistribuzione dei redditi sia da noi molto elevato. Secondo stime dell’Università di San Gallo, ben due terzi dei contributi versati rifluiscono prima o poi a chi li ha pagati, ad esempio sotto forma di rendite dell’AVS o della cassa pensione. Così, solo un terzo dei contributi e delle tasse versate finirebbe con il finanziare il consumo altrui.
Il paradosso quindi è doppio. Se non è vero che gli Svizzeri pagano poche tasse, è altrettanto sbagliato pensare che di queste tasse il cittadino medio non veda nulla: anzi, finirà col ricevere in una tasca gran parte di quello che gli è stato sottratto nell’altra.
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Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 28 novembre 2016 del programma «Plusvalore».
Per gentile concessione di «RSI Rete due».
Donne e uomini scelgono spesso professioni o settori di attività diversi. Per esempio, il 98% del personale degli asili nido in Svizzera è femminile, mentre nel 2014 le FFS impiegavano 83 macchiniste… e 2428 macchinisti. Più in generale, le donne sono sovrarappresentate nel settore sanitario, nel sociale e nell’insegnamento, mentre sono poco presenti nelle professioni tecniche.
Come mai queste differenze? A questa domanda i media presentano risposte di tipo sociologico, quali la mancanza di esempi da emulare o il peso della tradizione. Vi sono però anche tangibili motivi economici per la cosiddetta «segregazione occupazionale». Sono legati alle aspettative dei giovani riguardo alla loro partecipazione al mercato del lavoro. Chi anticipa una carriera discontinua – non da ultimo a causa di future responsabilità famigliari – preferirà una professione nella quale eventuali interruzioni non causano una perdita di guadagno troppo ingente e dove le competenze invecchiano meno velocemente, quindi meno condizionata dal progresso tecnologico. Inoltre ricercherà attività che consentono di lavorare a tempo parziale o che offrono orari prevedibili. Un posto come insegnante o dipendente presso l’amministrazione pubblica corrisponde a questo tipo di profilo. Siccome sono ancora soprattutto le donne a sopportare la maggior parte degli oneri legati all’educazione dei figli, esse sono sin dall’inizio più propense a scegliere professioni «tipicamente femminili».
Le preoccupazioni inerenti alla compatibilità di famiglia e carriera non influenzano solo la scelta della formazione. Analisi di costi e benefici vengono fatte anche quando si tratta di decidere se investire o meno in un’ulteriore qualifica professionale. Poiché le carriere delle donne sono meno lineari e più discontinue di quelle maschili, esse tendono ad approfittare meno della formazione continua e rinunciano dunque più facilmente a tali investimenti. Le statistiche mostrano che le donne sono meno propense ad acquisire qualifiche non formali seguendo corsi, conferenze, seminari o lezioni private. Esse sono anche più raramente sostenute finanziariamente dalle aziende.
Il risultato di questo processo di selezione è ben noto: le donne accumulano meno qualifiche degli uomini, e la loro carriera procede più a rilento. Le misure che consentono una migliore compatibilità di famiglia e carriera – come il congedo parentale e la scuola ad orario continuo – quindi non solo aiuterebbero le donne nelle loro ambizioni professionali. Esse contribuirebbero anche ad appianare le rimanenti differenze salariali tra uomini e donne e a ridurre ulteriormente la segregazione dei sessi sul mercato del lavoro.
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Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 14 novembre 2016 del programma «Plusvalore».
Per gentile concessione di «RSI Rete due».
Le donne stanno guadagnando terreno sul mercato del lavoro. In Svizzera, da anni i salari femminili crescono più rapidamente di quelli maschili, complice un livello di formazione sempre più elevato.
Ciononostante i salari femminili rimangono in media del 19% inferiore a quelli maschili. Per molti questo è un indizio sufficiente per presumere una discriminazione generalizzata da parte delle imprese. Tanto che il Parlamento federale dovrà prossimamente esprimersi su un progetto di legge che prevede controlli salariali obbligatori in tutte le aziende con più di 50 dipendenti.
Le intenzioni dei politici sono lodevoli. Purtroppo però queste misure poggiano su un grave errore di diagnosi. Numerosi studi econometrici hanno ormai stabilito che le differenze salariali persistenti tra i sessi non sono da ricondurre a un comportamento discriminante da parte delle imprese. Quest’ultime d’altronde, se davvero le donne fossero sottopagate, avrebbero ogni interesse ad assumere unicamente personale femminile, riducendo così i costi e aumentando gli utili.
La vera sfida della parità sta altrove. Come mostrano le ricerche di Claudia Goldin, già presidente della prestigiosa American Economic Association, bisogna rimuovere gli ostacoli che ancora impediscono di conciliare pienamente carriera e famiglia. In effetti, se per lo stesso livello di formazione e esperienza le differenze salariali tra giovani donne e uomini sono minime, esse si accentuano con l’arrivo dei figli. Non è un caso che le disparità siano particolarmente pronunciate nelle professioni che richiedono maggior flessibilità. In queste professioni, i datori di lavoro sono disposti a versare salari più elevati quale compenso per orari che non si lasciano pianificare in anticipo o per frequenti spostamenti all’estero. I settori che invece permettono di conciliare più facilmente lavoro e famiglia sono in rapida via di femminilizzazione. Tra questi spiccano ovviamente l’insegnamento, ma anche la medicina e la ricerca.
Per completare l’ultima tappa della parità salariale occorre ridurre i costi della flessibilità. Una ripartizione più equa dei compiti famigliari tra i genitori aiuterà, ma non basterà. Per Goldin un ruolo ancora più decisivo lo giocheranno tecnologia e organizzazione del lavoro, quale le possibilità di telelavoro.
Infine non vanno dimenticate diverse misure di politica sociale che faciliterebbero le carriere femminili: dal congedo parentale all’accoglienza della prima infanzia. I controlli obbligatori dei salari, invece, non ne fanno parte.
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Questo contributo è apparso nell’edizione di lunedì 19 settembre 2016 del programma «Plusvalore». Per gentile concessione di «RSI Rete due».
Ogni due settimane a partire da oggi pubblicheremo i contributi di Marco Salvi a Plusvalore di Rete Due, programma in cui economisti appartenenti a diverse correnti di pensiero affrontano i fatti economici più rilevanti, proponendo analisi nell’ambito della politica economica, monetaria, sull’occupazione o sulla finanza.
Il sistema sociale dei paesi Scandinavi, con le sue generose prestazioni, è spesso fonte d’ispirazione per i progressisti del mondo intero. Così lo è stato anche per Bernie Sanders, popolare candidato alle primarie del Partito Democratico negli Stati Uniti, che a numerose riprese durante la sua campagna aveva vantato il modello scandinavo quale alternativa al da lui odiato neoliberismo.
Eppure, secondo dati dell’OCSE, sia Germania, Regno Unito, Austria che Italia supererebbero Svezia, Norvegia e Finlandia per quanto riguarda la spesa sociale netta. Sempre secondo l’OCSE, se si tiene conto dei contributi obbligatori del tipo secondo pilastro, la parte del reddito nazionale redistribuita dallo Stato sarebbe oggi maggiore negli Stati Uniti che in Danimarca.
Per risolvere queste apparenti contraddizioni è utile ricordare alcuni segni distintivi del sistema sociale dei Paesi nordici, particolarità che non solo Bernie sembrava ignorare. Tra queste spiccano:
il forte ricorso all’IVA come fonte di finanziamento della socialità, un’imposta che colpisce tutti i consumatori allo stesso modo;
i redditi di trasferimento, quali le rendite di vecchiaia, tassati come qualsiasi altra fonte di reddito;
le tasse sul reddito del risparmio inferiori a quelle sui salari;
e infine, in Svezia, un sistema pensionistico statale individualizzato, con pochissima redistribuzione tra le persone. Per spiegarci: mentre in Svizzera, non vi è praticamente legame tra l’ammontare dei contributi AVS versati e la rendita ricevuta, in Svezia la rendita è in esatta corrispondenza ai pagamenti versati dall’assicurato.
Ne risulta un sistema fiscale poco distorsivo e quindi meno dannoso per la crescita economica. Vi è però un rovescio della medaglia: la spesa sociale poggia maggiormente sui consumi, meno sui redditi. Nel modello scandinavo tutti ricevono – ma tutti pagano. È l’esatto contrario degli Stati Uniti, dove i ricchi pagano molto, l’IVA non c’è e le prestazioni sociali sono riservate ai meno abbienti.
A completare questo quadro fiscale, ricordiamo che nei paesi Nordici molti servizi pubblici (ferrovie, posta, telecom, ma anche parte delle scuole) sono stati privatizzati. A ben guardare quindi, questi paesi sono più un esempio di «neo-neoliberismo» che non delle classiche ricette propagate dalla sinistra. Eh sì, a volte bisogna stare attenti a quello che si desidera.
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Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 5 settembre 2016 del programma quotidiano «Plusvalore». Per gentile concessione di «RSI Rete due».