La pandemia è lungi dall’ essere terminata, ma da un punto di vista strettamente economico, il bilancio per le famiglie svizzere è tutt’ora moderatamente favorevole. Se consideriamo ad esempio gli indicatori comunemente usati per valutare la salute del mercato del lavoro, sono pochi i segnali negativi: il tasso di occupazione è tornato ai livelli pre-crisi, mentre la disoccupazione è in forte calo rispetto a un anno fa. Anche i salari reali non hanno vacillato: anzi, l’anno scorso, al culmine della crisi, sono aumentati dell’ 1,5% in termini reali.
Questo risultato piuttosto positivo non si applica però a tutti allo stesso modo. La crisi del Covid è unica in quanto ha colpito i vari settori di attività in modo molto differenziato. Nel settore alberghiero e nella ristorazione, così come nei servizi culturali e nei trasporti, il livello di attività rimane inferiore alla norma. L’ informatica, le attività immobiliari o la pubblica amministrazione sono invece in piena espansione.
La distribuzione quasi aleatoria di perdite e profitti non poteva che ravvivare il dibattito sulle disuguaglianze. Vale la pena ricordare che questo dibattito è stato finora principalmente alimentato dagli sviluppi nei paesi anglosassoni al seguito della crisi finanziaria. In Svizzera le disuguaglianze erano rimaste sostanzialmente invariate da due decenni a questa parte.
La pandemia sarà riuscita ad accentuare la disparità dei redditi anche da noi? Non si può rispondere a questa domanda senza considerare la vigorosa reazione dello stato. Nel 2020, sono stati versati 11 miliardi di franchi quali indennità di lavoro ridotto. Nel complesso, le prestazioni sociali sono aumentate di 21 miliardi di franchi, ovvero del 12%.
Sfortunatamente, in Svizzera mancano dati affidabili che ci permetterebbero di stimare gli effetti di queste prestazioni supplementari sulla distribuzione dei redditi. Tuttavia, diversi studi di questo tipo già esistono all’estero. Essi suggeriscono nel complesso che le politiche di sostegno varate durante la pandemia hanno più che compensato l’effetto regressivo della crisi sui redditi. In altre parole, senza il sostegno statale, la pandemia avrebbe fortemente esacerbato le disparità. Ma una volta preso in considerazione il notevole sostegno fornito dai governi, le disuguaglianze reddituali sono state tendenzialmente ridotte.
C’è chi teme che, una volta terminati i programmi d’assistenza straordinari, vi sarà un’impennata delle disuguaglianze. Non è detto. L’economia è ripartita. Mai in passato il numero di posti liberi è stato così alto: al terzo trimestre di quest’anno c’ erano in Svizzera 100 000 posti vacanti – un numero di poco inferiore a quello dei disoccupati. Non sarebbe la prima volta che la capacità di adattamento del mercato del lavoro svizzero ci sorprende positivamente.
Questo podcast è stato pubblicato il 10.1.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
L’invecchiamento della popolazione è una causa principale dell’aumento delle disparità patrimoniali
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Marco Salvi
Più anziani – e disuguali
PlusvaloreL’invecchiamento della popolazione è una causa principale dell’aumento delle disparità patrimoniali
In Svizzera la distribuzione dei salari è assai uniforme. Ad esempio, se consideriamo gli occupati a tempo pieno, la differenza tra bassi e alti salari è da noi meno marcata che in quasi tutti i paesi membri dell’OCSE, il club dei paesi ricchi. Per quanto riguarda invece la distribuzione della ricchezza, ovvero del patrimonio economico (il quale ingloba la totalità degli attivi finanziari e immobiliari), la Svizzera si distingue per una disuguaglianza più pronunciata della media, anche se le statistiche al riguardo sono parecchio lacunose.
È però indiscutibile che le disparità di ricchezza sono aumentate negli ultimi 20 anni. Questo aumento si manifesta molto concretamente a chi oggi vuole acquistare una casa. Se nel 2000 per acquistare una casa media bisognava sborsare circa 7 volte il salario annuale, ora ne sono necessari più di dieci. Il prezzo delle case è salito durante gli ultimi vent’anni molto più velocemente dei redditi, il che tendenzialmente ha accentuato le differenze patrimoniali tra chi è proprietario e chi è rimasto inquilino.
Ma quali le ragioni profondi di questa evoluzione, del resto per nulla specifica al nostro paese? Una risposta la fornisce un gruppo di economisti americani che ha recentemente studiato l’effetto dell’evoluzione demografica sul risparmio.¹ La loro conclusione: nella maggioranza dei paesi, l’aumento delle disuguaglianze di patrimonio può essere ricondotto direttamente all’invecchiamento della popolazione.
Patrimonio e i risparmi, ancora più di salari e redditi, hanno infatti una forte componente demografica. La situazione di una trentenne – che ha accumulato ancora pochi risparmi, ma ha davanti una lunga carriera professionale – è all’opposto di quella del sessantenne che si avvicina piano piano al pensionamento, e quindi subirà presto una diminuzione drastica dei redditi da lavoro, ma che può contare su risparmi ben più sostanziosi.
Ebbene, con l’invecchiamento della popolazione è fortemente aumento il numero di quest’ultimi a scapito dei primi. L’abbondanza di risparmi ha fatto crollare i tassi d’interesse e salire i prezzi immobiliari. E con essi anche le disuguaglianze di ricchezza.
¹Adrien Auclert, Hannes Malmberg, Frédéric Martenet e Matthew Rognlie (2020). «Demographics, Wealth, and Global Imbalances in the Twenty-First Century».
Plusvalore
Un’economia con priorità al «locale» non aiuterà
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Marco Salvi
Combattere il virus protezionistico
PlusvaloreUn’economia con priorità al «locale» non aiuterà
Con il diffondersi a livello planetario del coronavirus si è rafforzato il protezionismo, quella politica economica volta a proteggere l’economia nazionale dalla concorrenza estera. Questa tendenza si delineava in realtà da tempo. Negli ultimi dieci anni, il numero di nuove misureprotezionistiche è aumentato in tutto il mondo. Il volume del commercio internazionaleè rimastoin crescita, ma con ritmi rallentati.Se prendiamo come misura il rapporto tra flussi commerciali e prodotto interno lordo (PIL), il processo di globalizzazione ha raggiunto il suo apice già nel 2008. Da allora ci troviamo in una nuova era commerciale, talvolta chiamata«slowbalization».
Preoccupazioni riguardanti la sicurezza nazionale e la salute pubblica stanno fornendo nuoviargomenti ai protezionisti, anche se è accertato che il virus non si diffonde tramitelo scambio di merci. Responsabili politici e leader aziendali si stanno ora chiedendo se le «supply chains»–e cioè le catene di fornitura globali– non siano state allungate troppo. In un clima politico in cui la cooperazione internazionale è ridotta al minimo, sono in molti a volerelimitarele interdipendenze economiche.Persino in Svizzera, uno dei paesi più globalizzati al mondo e che più approfitta dalla divisione internazionale del lavoro, vi sono voci prominenti che sognano di un’economia con priorità al «locale».
Bisogna resistere a queste tendenze in modo fermo e deciso.Rincorrere il sogno autarchicoporterà a notevoli perdite di reddito, non solo per le aziende, ma anche per noi consumatori, con pochi benefici in termini di sicurezza. Anzi, i recenti divieti di esportazione di materiale medico di protezionehanno contribuito a fare aumentare prezzi a livello mondiale, accentuando cosìcarenze e scarsità. A livello agricolo, l‘accento politico portato in Svizzera sul grado di autosufficienza non contribuisce ad aumentare la sicurezza dell’approvvigionamento del paese.Intensificare la produzione di derrate alimentari in Svizzera non sarebbe possibile senza un aumento delle importazioni di concimi, mangimi concentrati, prodotti fitosanitario trattori– tutti beni che la Svizzera non produce.
Meglio diversificare e moltiplicare l’accesso alle fonti di approvvigionamento e concludere nuovi accordi di libero scambio, ad esempio con il Mercosur, il mercato comune dell’America Latina.Avere più fonti d’approvvigionamento e di diffusione rimane la migliore strategia per aumentare la resilienza della nostra economia. Le catene di approvvigionamento globalisono in realtà più robuste diquelle nazionaliperché possono riparare gli anelli rotti, sostituendo una fonte in un paese colpito con una fonte alternativa in un altro paese.È proprio perché le pandemie sono fenomeni globaliche la collaborazione spontanea tra aziende e consumatori in tutti i paesi èoggi più preziosa che mai.
Questo podcast è stato pubblicato il 18.05.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Perché non è davvero incomprensibile che alcune professioni "essenziali" non siano automaticamente tra le meglio retribuite
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Marco Salvi
Il paradosso delle professioni essenziali
PlusvalorePerché non è davvero incomprensibile che alcune professioni "essenziali" non siano automaticamente tra le meglio retribuite
Infermiere, cassiere, fattorini: durante il lockdown, queste professioni – che molti qualificavano di umili, con retribuzioni in genere modeste – si sono improvvisamente rilevate indispensabili. Per tutto il periodo del lockdown, i lavoratori «essenziali» non hanno mai smesso di lavorare, mettendo a volta in pericolo la propria salute per fornire a tutti noi servizi irrinunciabili, nonostante delle paghe spesso al disotto della media.
E subito alcuni ne hanno chiesto a gran voce la rivalutazione salariale, giudicando incomprensibile che mestieri tanto importanti per la nostra società non siano meglio retribuiti, mentre altri, per niente «essenziali» – dal calciatore al professore di economia – portano a casa buste paga ben più sostanziose; quasi a riprova del fatto che nella nostra economia di mercato qualcosa non funziona.
Ma è davvero così incomprensibile che certe professioni «essenziali» non siano automaticamente tra le meglio pagate? No, almeno non per gli economisti e le economiste in ascolto che avranno riconosciuto in questa controversia il classico paradosso dell’acqua e dei diamanti. Comunemente associato ad Adam Smith, il paradosso consiste nell’apparente contraddizione tra il valore di gran lunga inferiore dell’acqua rispetto a quello dei diamanti, nonostante il fatto che l’acqua – al contrario dei diamanti – sia indispensabile all’essere umano.
Il paradosso venne risolto definitivamente più di cent’anni fa dalla cosiddetta «rivoluzione marginalista»: l’acqua costa poco e ha poco valore perché l’offerta ne è abbondante, tanto che il valore marginale (cioè, il valore di un litro in più) è pressoché nullo. I diamanti invece costano molto perché l’offerta ne è limitata e il valore marginale elevato. Ed è quest’ultimo a determinarne il prezzo, così come è il valore marginale del lavoro eseguito a determinare il salario.
Certo, per alcune professioni, questo valore era ancora più elevato del solito durante la pandemia. Se questa dovesse continuare, ci si può aspettare a rivalutazioni salariali. Ma stiamo attenti a cosa auspichiamo: saremmo molto più poveri se tutti i beni essenziali fossero costosi, e solo quelli superflui a buon mercato.
Questo podcast è stato pubblicato il 12.10.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Uno.
Plusvalore
Il mercato del lavoro svizzero è uno dei più mobili in termini di salari
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Marco Salvi
La Svizzera rimane un paese di opportunità
PlusvaloreIl mercato del lavoro svizzero è uno dei più mobili in termini di salari
In Svizzera le disparità di reddito sono relativamente contenute, soprattutto se si considera la distribuzione dei salari. Ma c’è una carenza cruciale nel guardare alla distribuzione del reddito o della ricchezza in un dato momento: si tratta di una considerazione puramente statica. Essa dice poco su quello che è probabilmente il criterio di distribuzione più importante: la distribuzione delle opportunità. In altre parole: a chi da noi parte da circostanze modeste, riesce il “cambio di classe”?
Un nuovo studio di Patrick Chuard e Veronica Grassi dell’Università di San Gallo permette per la prima volta di rispondere in modo preciso a questa importante domanda. I ricercatori dell’Università di San Gallo hanno collegato dati salariali dell’AVS, informazioni sulla situazione familiare e elementi del censimento per costituire un quadro abbastanza completo della situazione socio-economica di quasi un milione di persone appartenenti alla generazione X, nate cioè tra il 1967 e il 1984, e dei loro genitori.
Il risultato in una frase: La Svizzera, davvero, è un paese di opportunità. A differenza degli Stati Uniti, un tempo famosi per il “sogno americano” e le carriere da lavapiatti, dove la mobilità sociale ristagna, vi è da noi una correlazione bassa tra il reddito dei figli e quello dei loro genitori. Ad esempio, in Svizzera, un figlio trentenne con un padre nel percento più basso della distribuzione dei salari guadagna all’anno in media solo 12’000 franchi in meno rispetto a un coetaneo con un padre “ricco” (nel 1 percento dei redditi più elevati).
Che dire però della mobilità sociale assoluta? I figli oggi trentenni guadagnano di più dei loro genitori quando avevano la loro età? Questo aspetto della mobilità sociale dipende anche dalla crescita economica: se tutti i salari ristagnano, non c’è mobilità assoluta del reddito, anche se quella relativa rimane invariata.
Ebbene, così non è. In Svizzera, circa il 54 per cento dei trentenni della generazione X guadagna più del loro padre alla loro stessa età, mentre circa l’88 per cento delle figlie guadagna più delle madri. Quest’ultima cifra riflette la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Tuttavia, solo il 18 per cento delle trentenni guadagna più del padre.
Nel complesso, lo studio dimostra che il mercato del lavoro svizzero è molto mobile. Anzi, il nostro è uno dei paesi con la mobilità salariale più elevata. La permeabilità del sistema educativo elvetico è una ragione importante per questo dinamismo. Infatti, benché la scelta del percorso educativo (università o apprendistato) sia molto influenzata dal reddito dei genitori, la posizione relativa delle giovani generazioni nella distribuzione dei salari non dipende tanto dal loro percorso educativo. Un diploma universitario rimane essenziale solo per accedere alla fascia di reddito più alta.
Questo podcast è stato pubblicato il 14.09.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Nel suo insieme il sistema sociale svizzero fino ad ora ha reagito bene alla crisi
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Marco Salvi
Il ritorno della povertà?
PlusvaloreNel suo insieme il sistema sociale svizzero fino ad ora ha reagito bene alla crisi
Le lunghe file di «sans-papiers» a Ginevra e in altre città svizzere, in attesa di ricevere un aiuto d’urgenza del valore di pochi franchi, hanno rilanciato il dibattito sulla povertà e sulle ripercussioni della pandemia sul nostro stato sociale. Secondo le stime, vi sarebbero attualmente 75’000 «sans-papiers» in Svizzera, ovvero persone senza permesso di lavoro che risiedono illegalmente nel paese. Esse sono spesso prive di copertura sociale. Fino ad ora gestivano autonomamente le proprie necessità, finanziandole con il reddito del lavoro. Venuto questo improvvisamente a mancare, una parte di loro si è ritrovata letteralmente sul lastrico.
Le difficoltà dei “sans-papiers” illustrano la portata di questa crisi e anche la sua novità. L’apparire di un nuovo virus si traduce in una miriade di situazioni impreviste – impreviste anche dal sistema sociale. Queste situazioni richiedono risposte inconsuete, e nel caso specifico è lodevole l’iniziativa del Canton Zurigo di stanziare subito (modesti) aiuti d’emergenza.
Bisogna però diffidare dalle estrapolazioni facili. Il problema dei «sans-papiers» durante il lockdown è stato certamente reale ed urgente, ma anche localizzato e temporaneo. Nel suo insieme il sistema sociale svizzero fino ad ora ha reagito bene alla crisi. Sia i salariati – cioè circa il 90 percento della popolazione attiva – che i pensionati non hanno patito in termini di reddito durante la crisi. Gli introiti mancanti sono stati sostituiti quasi interamente da pagamenti delle assicurazioni sociali, in particolare da quelli dell’assicurazione disoccupazione. E poiché con il lockdown sono parallelamente diminuite le occasioni di consumo, si registra – in Svizzera come in altri paesi – un forte aumento del risparmio; aumento che tra l’altro contribuisce a mantenere bassi i tassi d’interesse.
Finora sono state soprattutto le aziende, in particolare le piccole e medie imprese (PMI), e lo stato stesso ad aver assorbito lo shock economico del virus – come del resto è giusto che sia. In tempi normali gli imprenditori ricevono un premio pari al 6 percento annuo in media storica. Lo stato invece ridistribuisce i rischi che non possono essere assicurati in modo privato – quale appunto il rischio disoccupazione. Insomma, fino ad ora tutti hanno fatto la propria parte. Continueremo così? Ciò dipenderà ovviamente dalla durata della crisi. Speriamo bene.
Questo podcast è stato pubblicato il 01.06.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Uno.
Plusvalore, Podcast
L’aumento delle disparità nella distribuzione della ricchezza preoccupa i molti. Le disuguaglianze di patrimonio sono ad esempio un tema centrale della campagna elettorale dei candidati democratici alla presidenza degli Stati Uniti; mentre a giorni l’ONG britannica Oxfam pubblicherà il suo rapporto annuale che – c’è da scommetterlo – denuncerà un’ulteriore…
L’aumento delle disparità nella distribuzione della ricchezza preoccupa i molti. Le disuguaglianze di patrimonio sono ad esempio un tema centrale della campagna elettorale dei candidati democratici alla presidenza degli Stati Uniti; mentre a giorni l’ONG britannica Oxfam pubblicherà il suo rapporto annuale che – c’è da scommetterlo – denuncerà un’ulteriore crescita della ricchezza di chi è già ricco.
Ma anche da noi i patrimoni sono da tempo in crescita, e di riflesso cresce anche il valore globale delle eredità. Secondo un recente studio dell’università di Losanna esso raggiungerebbe oramai i 90 miliardi di franchi annui. Insomma, è venuto il momento di preoccuparsi, oltre che delle disuguaglianze di reddito, anche di quelle di patrimonio?
A mio parere la giusta risposta a questa domanda dipende dalle cause profonde del fenomeno. In Svizzera, e in genere nei paesi più avanzati economicamente, il colpevole è presto trovato: i bassi, anzi bassissimi tassi d’interesse. In effetti, come ogni studente d’economia – anche quello più distratto – ben sa: la ricchezza economica non è nient’altro che il valore presente dei flussi di reddito futuri. Così, il valore di una casa si calcola sommando tutti gli affitti futuri, rapportati ad oggi con un opportuno tasso d’interesse. A parità di affitto, più il tasso d’interesse è basso, più il valore di mercato dell’immobile sarà elevato. Il ribasso dei tassi d’interesse spiega quindi il rincaro dei prezzi immobiliari nel nostro paese, tuttora in crescita nonostante affitti stagnanti e numerosi appartamenti sfitti. E poiché la casa è bene più frequentemente donato in eredità, il ribasso dei tassi è anche la causa principale per l’aumento dei lasciti.
Tutta questa deviazione per la teoria finanziaria di primo semestre per portare a casa un punto davvero importante: gli aumenti di patrimonio attuali non sono altro che la rivalutazione di redditi futuri fondamentalmente immutati. Insomma, in parole povere siamo ben lontani da uno scenario dove pochi oligarchi si accaparrano di nuove fonti di reddito, tipo fabbriche o immobili, e da quel momento fanno la vita da nababbi. Da noi, l’aumento dei patrimoni (e delle sue disuguaglianze), non è accompagnato da una crescita delle disuguaglianze di reddito, né di consumo. Ed è quello che davvero conta.
Plusvalore, Podcast
La qualità della vita sarà anche soggettiva, ma la si può ciononostante esprimere in cifre, anzi addirittura in franchi. Un ragionamento – semplicistico lo ammetto – è il seguente: sottraiamo dal reddito medio delle economie domestiche in un comune l’affitto e le tasse locali; quello che rimane può essere…
La qualità della vita sarà anche soggettiva, ma la si può ciononostante esprimere in cifre, anzi addirittura in franchi. Un ragionamento – semplicistico lo ammetto – è il seguente: sottraiamo dal reddito medio delle economie domestiche in un comune l’affitto e le tasse locali; quello che rimane può essere interpretato come un’indicazione (molto approssimativa) della qualità della vita nel comune o città di residenza.
Come mai? Affitti e tasse variano in Svizzera molto da un comune all’altro. Più la località è attraente (o più le tasse sono basse) e più i prezzi dei terreni – e di conseguenza anche gli affitti – saranno elevati. Se non lo fossero, basterebbe traslocare per approfittare di un’alta qualità di vita a un prezzo stracciato. La maggiore domanda a termine farebbe però salire i prezzi, e con essi svanirebbe l’incentivo al trasloco. In altre parole, gli affitti elevati sono il prezzo d’entrata da pagare per godere dell’alta qualità della vita in quella situazione.
Per esempio, è vero che il salario medio a Zurigo è elevatissimo. La metà degli occupati vi guadagna più di 7’800 franchi al mese – 1’300 franchi in più della media svizzera. Un quarto porta a casa più di 10’000 franchi al mese. Ma gli affitti lo sono ancora di più: difficile trovare un quattro locali al di sotto dei 3’000 franchi al mese. E se togliamo dal reddito anche le imposte, salta fuori che il reddito residuo è più basso che nel Canton Uri. Ciò a riprova del fatto che lago, offerta culturale e le luci della città hanno un valore concreto per gli abitanti. Valore che si esprime appunto in un reddito residuo inferiore a quello di Altdorf.
Ovviamente, il ragionamento ha i suoi limiti. Gli alti salari di Zurigo magari sono anche un compenso per lo stress cittadino, e forse non è sufficiente considerare solo gli affitti e le tasse per misurare precisamente la qualità della vita. Ma il ragionamento di base rimane. Quindi, la prossima volta che sentirete un sindaco vantarsi del fatto che nel suo comune alla fine del mese rimangono più soldi in tasca che nel comune vicino, non esitate a fare una smorfia. È solo un segno che l’erba dei vicini è davvero più verde.
Plusvalore, Podcast
A 100 anni dallo sciopero generale, l'arma di guerra dei sindacati è diventata sempre più obsoleta
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Marco Salvi
Gli scioperi hanno scontato il loro tempo?
Plusvalore, PodcastA 100 anni dallo sciopero generale, l'arma di guerra dei sindacati è diventata sempre più obsoleta
Il 12 novembre di 100 anni fa, 250’000 ferrovieri e operai attuavano il primo e, fino ad oggi, unico sciopero generale svizzero. Al di là della reale portata storica dell’evento, ancora dibattuta dagli specialisti, la ricorrenza si presta a una riflessione sull’importanza odierna di questo particolare strumento di lotta.
Meno giorni di sciopero
Ebbene, basta un’occhiata alle statistiche per convincersi che – con qualche eccezione notevole e molto mediatizzata – lo sciopero sia praticamente scomparso dal repertorio sindacale internazionale. Non solo in Svizzera, ma anche in Austria, Germania, nel Regno Unito, in Danimarca o in Olanda si contavano nel 2015 meno di 5 giorni scioperati all’anno per mille impiegati, il che corrisponde a una giornata di sciopero per 100’000 giornate lavorate. Persino in Francia, il campione d’Europa dello sciopero, le astensioni dal lavoro sono in forte diminuzione; le perdite economiche che esse generano sono quasi trascurabili.
Non solo è diminuita la frequenza degli scioperi, ma sono cambiate anche le «regole del gioco». In Svizzera come in molti altri paesi, l’astensione dal lavoro è diventata una forma di protesta fortemente regolamentata. Da noi ne hanno il monopolio i sindacati, obbligati a consultare le loro basi. Non è così in Italia dove si tratta ancora di un diritto individuale e sono consentiti anche scioperi politici, indetti per sostenere un partito o per protestare contro il governo.
Mezzi alternativi
La ragione per questa profonda evoluzione è presto trovata. In molti paesi i partner sociali hanno oramai da tempo elaborato e codificato alternative migliori per risolvere i conflitti: negoziazioni salariali, trattative per il rinnovo di contratti collettivi, mediazioni ecc. Tanto meglio perché in uno sciopero entrambe le parti sono perdenti: le aziende perché si interrompe la produzione, i lavoratori perché non vengono pagati. I vantaggi della pace del lavoro sono quindi ampiamente distribuiti.
Ma stiamo attenti, in questi giorni di commemorazione e di nostalgia, a non elevare questo nuovo equilibrio a livello di mito. La pace del lavoro non è né necessaria né sufficiente per garantire un mercato del lavoro prospero. Non va infatti dimenticato che essa è negoziata da organizzazioni (sindacati e rappresentanza padronale) le quali hanno dapprima a cuore gli interessi dei propri membri, non sempre quelli dell’intero paese. E così, gli accordi rischiano a volte di andare a scapito degli outsiders: ad esempio di nuove aziende, limitate nella loro libertà imprenditoriale, o di chi un lavoro ancora non ce l’ha.
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Una convergenza si nota anche a livello mondiale, anche se – è quasi inutile ricordarlo – sussistono ancora profondi divari tra le nazioni.
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Marco Salvi
La Grande Convergenza
Plusvalore, PodcastUna convergenza si nota anche a livello mondiale, anche se – è quasi inutile ricordarlo – sussistono ancora profondi divari tra le nazioni.
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I primi esseri umani anatomicamente moderni sono apparsi 200’000 anni fa; il linguaggio articolato risale a 50’000 anni fa, l’agricoltura a 10’000. A confronto con queste pietre miliari dello sviluppo umano, il processo di crescita economica è invece recentissimo: esso si è innescato solo 200 anni fa in alcune regioni dell’Europa occidentale e in Nord America. Prima del XIX secolo la stragrande maggioranza della popolazione mondiale viveva al minimo livello di sussistenza.
Benché la crescita economica sia un fenomeno recente, profonde divergenze tra i paesi sono apparse ben prima che gli uffici di statistica iniziassero a monitorare sistematicamente l’evoluzione dei redditi. Utilizzando stime desunte da svariate fonti storiche, economisti stanno però ricostruendo a poco a poco quest’aspetto importante del passato dell’umanità. Nuove misure pubblicate la settimana scorsa dall’Università di Groningen in Olanda, forniscono un quadro affidabile, risalente fino al 1870.
Da questi dati risulta che 150 anni fa Regno Unito e Stati Uniti erano chiaramente le due nazioni più ricche, con un reddito pari a circa 2700 dollari all’anno per persona. Con un distacco di circa 30% seguivano paesi dell’Europa nordoccidentale, tra i quali Germania, Francia e Svizzera – a riprova che già allora il nostro paese era tra i più benestanti al mondo. Livelli di reddito comparabili si registravano pure in Argentina e Uruguay.
I nuovi dati mostrano anche come gli Stati Uniti siano sempre riusciti a rimanere in vetta alla classifica del reddito. Dal 1870 a oggi il reddito dell’americano medio è stato moltiplicato per 18 in termini reali. Il distacco con la seconda regione più ricca, l’Europa occidentale, ha raggiunto un picco nel 1950, subito dopo la Seconda guerra mondiale. Da allora le differenze di reddito vanno calando.
Una convergenza si nota anche a livello mondiale, anche se – è quasi inutile ricordarlo – sussistono ancora profondi divari tra le nazioni. In media però, i paesi poveri crescono più rapidamente di quelli ricchi. Se la globalizzazione non rallenterà, si stima che ci vorranno ancora 35 anni per che si dimezzino le differenze di reddito a livello planetario. A voi decidere se la bottiglia è mezza vuota o mezza piena.