La pandemia da Coronavirus e i suoi effetti sul mercato del lavoro potrebbero aggravare la disoccupazione tecnologica? Secondo un recente sondaggio del World Economic Forum (WEF), l’80 percento delle grandi imprese prevede di accelerare a corto termine il processo di robotizzazione e automatizzazione. Quasi la metà di esse prevede che questo processo porterà alla soppressione di posti di lavoro. È forse ora di lanciare un’offensiva di formazione continua su larga scala anche nel nostro paese?
Penso bisogni rispondere a questi importanti interrogativi in maniera differenziata. Non è da ieri che il progresso tecnologico contribuisce a trasformare il mercato del lavoro svizzero. Basti osservare il cambiamento dei profili e dei curriculi richiesti e l’impennata della domanda di personale altamente qualificato. Se nel 1996 650 000 occupati esercitavano una professione accademica, nel 2019 erano già 1,25 milioni. Le categorie professionali con qualifiche intermedie hanno invece segnato una flessione, primi fra tutti gli artigiani. In linea generale, negli ultimi 25 anni le prospettive di carriera dei lavoratori con apprendistato professionale ma senza specializzazione di livello terziario sono peggiorate.
Eppure, tutti questi cambiamenti non hanno portato ha un aumento della disoccupazione. Questo lo si deve anche alla capacità degli occupati a formarsi e specializzarsi. In linea di principio, la Svizzera ha un’ottima offerta di formazione continua e un elevato tasso di adesione, per cui una promozione generale in tal senso non mi sembra necessaria.
La propensione alla formazione continua e allo studio informale dipende tuttavia molto dal livello di istruzione. Paradossalmente, maggiori già sono le qualifiche, più elevata è l’attività formativa. Insomma: chi già sa, vuole sapere di più. In questi termini, la postformazione non colma il divario educativo tra i gruppi, ma anzi lo esacerba. Così, determinate fasce di lavoratori non partecipano del tutto alla formazione permanente, mettendo in pericolo la loro impiegabilità a lungo termine. Questo segmento dovrebbe essere avvicinato in modo mirato alle opportunità di riqualifica.
Strumenti particolarmente adatti in tal senso sono i buoni di postformazione e i prestiti per le riqualificazioni di lunga durata. Altri strumenti invece, come le deduzioni fiscali delle spese per la formazione continua non si prestano a sostenere la riconversione professionale poiché vanno principalmente a vantaggio di persone con salari elevati, che peraltro non denotano carenze motivazionali in campo formativo.
Questo podcast è stato pubblicato il 03.05.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Davvero in crescita il divario tra ricchi e poveri?
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Marco Salvi
Pandemia e disuguaglianze
PlusvaloreDavvero in crescita il divario tra ricchi e poveri?
È oramai opinione comune che la pandemia di Covid-19 stia accentuando le disuguaglianze, sia a livello nazionale che a livello globale. Ciò è indubitabile per quanto riguarda le disuguaglianze di salute: la probabilità di contrarre una forma severa o addirittura letale della malattia non è la stessa per ognuno; i rischi sono fortemente concentrati nelle fasce d’età più anziane. Che ne è però delle disuguaglianze economiche? Certo, l’economia è in recessione, ma davvero cresce il divario tra ricchi e poveri?
In Svizzera i dati sono ancora lacunosi. Un recente sondaggio della SSR registrava un calo del 20 percento per i redditi inferiori ai 4000 franchi, diminuzione concentrata tra i giovani occupati. I redditi medi e superiori sarebbero invece solo in leggero ribasso rispetto a un anno fa. Oltre un terzo dei posti a basso salario si concentra nei comparti del commercio al dettaglio, della gastronomia e dell’ospitalità alberghiera, settori questi maggiormente colpiti dai lockdowns. Dall’altro canto non va dimenticato che questi settori hanno potuto fino ad ora contare su aiuti statali più generosi. Bisogner à quindi attendere i resoconti statistici ufficiali per stabilire una diagnosi affidabile sull’andamento dei redditi dopo tasse e delle disuguaglianze post-fisco nel nostro paese.
E a livello globale? Anche qui i dati sono ancora provvisori, ma sembrerebbe che si contino più decessi (in rapporto alla popolazione) nei paesi ricchi che in quelli poveri o emergenti – e ciò malgrado sistemi sanitari più avanzati e un apparato amministrativo ben più esteso e sofisticato. Secondo una recente analisi di Angus Deaton, già premio Nobel di economia, i paesi con il più gran numero di decessi da Covid (tra i quali figurano la Spagna, il Regno Unito o il Belgio) hanno anche subito un declino più marcato dell’attività economica e dei redditi. Di conseguenza, almeno fino ad ora, il reddito medio pro capite è diminuito maggiormente nei paesi ricchi – più colpiti dalla pandemia – che in quelli poveri e emergenti.
Insomma, la pandemia ha peggiorato la situazione di moltissime persone, in Svizzera e nel mondo. Quasi certamente c’è stato un aumento della povertà globale. Ma questo non implica ancora nulla delle disuguaglianze economiche.
Questo podcast è stato pubblicato il 08.02.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
La settimana scorsa è stata pubblicata la tradizionale analisi Vox dell’istituto di ricerca bernese GfS riguardante le votazioni popolari del 29 novembre 2020. Condotta su un campione di tremila persone, l’analisi cerca di approfondire le motivazioni dei votanti. Secondo lo…
La settimana scorsa è stata pubblicata la tradizionale analisi Vox dell’istituto di ricerca bernese GfSriguardante le votazioni popolari del 29 novembre 2020. Condottasu un campione di tremila persone,l’analisicerca di approfondire le motivazioni dei votanti. Secondo lo studio,l‘iniziativa popolare “Per imprese responsabili”, fallita per la mancata maggioranza dei cantoni, ha ottenuto quella dei voti grazie al forte sostegno della sinistra, dei giovani, delle zone urbane e delle persone con formazione superiore impiegate a tempo parziale.Il divario di genere è statomolto più marcato del solito: se avessero votato soltanto le donne, l’iniziativa sarebbe stata approvata al 57%.
Ma il risultato più interessante dello studio èsecondo me un altro. Mentre il sondaggio attesta un altissimo livello di fiducia nelle organizzazioni di aiuto allo sviluppo e di difesa dei diritti umani, la percezione dell’agire delle imprese multinazionali è tutt’altro che positiva. Quasi la metà degli elettori e delle elettrici esprime livelli molto bassi di fiducianelle imprese, con note tra lo zero e il quattro. La sfiducia dei votanti non si limita quindi alle imprese attivenell’estrazione delle materie prime; essa si estende all’intero gruppo delle multinazionali svizzere.
Eppure, c‘è parecchio di buono nella ondata di globalizzazione pacifica del commercio, degli investimenti e dei flussi migratori degli ultimi decenni. Nello spazio di una generazione, più di un miliardo di persone sono uscite da una situazione di povertà estrema. Grazie alla rapida crescita economica in Asia (e più recentemente in molti paesi africani) siamo stati testimoni di una riduzione delle disuguaglianzesenza precedenti in tempo di pace. Questi risultati dovrebbe influenzare il nostro giudizio morale su uno degli attori chiavi della globalizzazione – le multinazionali appunto.
La globalizzazione non è immaginabile senza imprese transfrontaliere. Nei paesi più poveri, esseforniscono spesso l’unico canale affidabile per finanziare investimenti a lungo termine egiocano un ruolo cruciale nella diffusione delle conoscenze e delle buone pratiche di gestione –per citare solo alcuni aspetti evidenziati negli ultimi anni dagli economisti dello sviluppo. Tanto che mi sento di affermare che nel nostro paese,le multinazionali,dal punto di vista morale,sonooramai decisamente sottovalutate.
Questo podcast è stato pubblicato il 25.01.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
La Svizzera fatica a integrare i rifugiati sul mercato del lavoro
Plusvalore
Le barriere al loro impiego rimangono elevate
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Marco Salvi
La Svizzera fatica a integrare i rifugiati sul mercato del lavoro
PlusvaloreLe barriere al loro impiego rimangono elevate
Con l’incedere della pandemia è diminuito ulteriormente il numero di richieste d’asilo in Svizzera. Mentre nel 2016 si contavano quasi 40’000 nuove richieste, l’anno scorso esse sono state poco più di 10’000. Dal punto di vista politico, il tema– sul quale negli ultimi duedecennielettrici ed elettori sono stati chiamati a votare ben una dozzina di volte – non è più prioritario.
Eppure, molte sfide rimangono. Fra le più importanti vi è quella dell’integrazione dei rifugiati sul mercato del lavoro. Se in confronto internazionale il mercato del lavoro svizzero è tradizionalmente tra i migliori per quanto riguarda il tasso di occupazione, non si può dirne altrettanto per quello dei rifugiati, una categoria a dire il vero molto eterogeneache inglobarichiedenti l’asilo, persone ammesse a titolo provvisorio e rifugiati riconosciuti.
Le cifre disponibili sono lacunose e i confronti difficili, ma si stima che il tasso di occupazione dei rifugiati raggiungerebbe il 20% tre anni dopo l’entrata nel paese, e si attesterebbe dopo dieci anni di soggiornotra il 30% e il 60%a dipendenza della categoria. Ciò contrasta sia con il tasso d’occupazione dei residenti (tuttora superiore all’80%), che con rilievi fatti in altri paesi. In Germania, ad esempio, il tasso di occupazione dopo dieci anni è quasi alla pari con la popolazione residente. In Canada, dopo solo un anno dall’entrata nel paese, 50% dei rifugiati ha un posto di lavoro.
Come mai questi risultati tutto sommato deludenti? Di recentealcuni economisti svizzeri hanno cercato di accertarne empiricamentele cause. Tra i fattori determinanti,essi rivelanoi limiti posti dalla legge alla mobilità intercantonale dei rifugiati,la durata delle procedure – fonte d’incertezze per i potenziali datori di lavoro –e i meccanismi che assegnano in modo aleatorio i rifugiati ai cantoni, meccanismi che non tengono conto di affinità linguistiche o professionali preesistenti. Le differenze tra i cantoni nelle prestazioni dell’aiuto socialee nelle misure d’integrazione avrebbero invece un impatto trascurabile sull’occupazione. Rimane invece ancora tutto da studiare l’impatto creato dall’introduzione di salari minimi obbligatori o l’ampliamento dei contratti collettivi di lavoro sulle prospettive d’impiego dei rifugiati. L’ipotesi che questi meccanismi per nulla favoriscano l’integrazione sul mercato del lavoro, creando invece ulteriori barriere all’impiegodei rifugiati, non mi pare però strampalata.
Questo podcast è stato pubblicato il 11.01.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Uno strumento efficace ma ad uso temporaneo
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Marco Salvi
Gli effetti a lungo termine del lavoro ridotto
PlusvaloreUno strumento efficace ma ad uso temporaneo
Mentre in primavera si temeva che la crisi del covid-19avrebbe avuto un impatto devastante sull’economia svizzera, durante l’estate sono state smentite le previsioni più cupe. Certo, con l’arrivo ad ottobre di una secondaondata, le prospettive sono ora nuovamente riviste al ribasso. Ciononostante, le tracce lasciate dalla pandemia sul mercato del lavoro si sono rivelate meno gravi di quanto si temesse inizialmente. In effetti, malgrado l’aumento del tasso di disoccupazione a livello nazionale di quasi un punto percentuale tra febbraio e maggio, non si è superato il 3,4%. Anche il calo del tasso di occupazione – di un punto nel secondo trimestre –è stato tutto sommato contenuto.
Labuona tenuta va sicuramente messa almeno in parte sul conto del lavoro ridotto. Minimizzando l’onere amministrativo,si è potuto garantire il tempestivo pagamento delle indennità. Queste procedure semplificate erano adeguate alla situazione straordinaria, ma non sono state prive di svantaggi: hanno facilitato gli abusi e sono affiorate differenze di trattamento tra le aziende e i settori di attività.
Il Consiglio federale ha deciso a luglio di prolungare la durata massima di percezione dell’indennità per lavoro ridotto da 12 a 18 mesi. Secondo me, questa ulteriore espansione del lavoro ridotto va rivista in chiave più critica. Soluzioni provvisorie non dovrebbero avere carattere permanente. Nonostante i numerosi vantaggi, il lavoro ridotto comporta il rischio di meramente ritardare la disoccupazione – non di evitarla. Gli studi sull’impatto della misura nelle recessioni passate sono inconcludenti: mentre durante la crisi finanziariadel 2008 il lavoro ridotto si è avverato uno strumento efficace, nelle recessioni precedenti lo era stato molto meno.
Il successo del lavoro ridotto dipende quindi dalle particolarità della crisi economica. Se la pandemia si prolungherà, non si potrà a termine evitare un doloroso ma necessarioaggiustamento strutturale. Al momento però, il rischio che il lavoro ridotto non faccia che sostenere artificialmente degli impieghi destinati presto o tardi a sparire, è un rischio che il nostro paese si può ancora permettere di correre.
Questo podcast è stato pubblicato il 09.11.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
In occasione delle votazioni del 27 settembre scorso, Ginevra ha approvato l’introduzione del salario minimo obbligatorio. Sono ora quattro i cantoni, tra qui il Ticino, che già impongono (o presto introdurranno) minimi salariali. Altre iniziative popolari sono in preparazione, ad esempio nelle città di Zurigo e Basilea.
Ciò ravviva un dibattito, oramai centenario, riguardo agli effetti sull’impiego del salario minimo. Per i suoi fautori non vi sarebbe nessun svantaggio da temere; al massimo qualche leggero aumento dei prezzi al consumo o una diminuzione dei profitti delle imprese.
Si tratta però di una visione troppo semplicistica. Certo, l’impatto sull’impiego dipende dal livello del limite salariale imposto. In Svizzera, il 95 percento degli occupati guadagna più di 23 franchi all’ora netti. Un salario minimo al di sotto di questo limite non influenzerebbe drasticamente sulla domanda di lavoro delle imprese e, quindi, sul numero degli impeghi.
Non si tratta però solo di una questione di numeri. Il lavoro non è un bene come un altro – e il salario non è l’unica misura per giudicare dell’attrattività o meno di un posto. Negli ultimi anni, economisti hanno messo in evidenza altri margini di adattamento delle imprese ai salari minimi, al di là quindi della soppressione o meno di posti di lavoro.
Ad esempio, l’imposizione di salari minimi vincolanti può ridurre la tolleranza dei datori di lavoro per errori o ritardi dei propri dipendenti, e tende a creare un clima di lavoro più teso. Vi è anche una riduzione della disponibilità delle aziende a concedere orari flessibili e, più in generale, un adattamento al ribasso dei compensi non-monetari.
Ma è soprattutto il bilancio sociale dei salari minimi che sembra più discutibile. Contrariamente ad altre politiche anti-povertà come l’assistenza sociale o le prestazioni complementari, il salario minimo obbligatorio non tiene conto della situazione economica di chi ne beneficia ed è quindi poco mirato. Studi statunitensi mostrano ad esempio che un numero importante di coloro che ricevono il salario minimo vive in economie domestiche benestanti; sono ad esempio studenti che lavorano part-time nella gastronomia o nel commercio al dettaglio.
Allo stesso tempo, il salario minimo crea un’ulteriore barriera all’entrata sul mercato del lavoro per le persone più vulnerabili, con poche qualifiche professionali. Esse infatti si ritrovano in concorrenza con attivi più produttivi e più qualificati; lavoratori che prima dell’introduzione dei minimi salariali, non avrebbero considerato questi posti di lavoro. Chi prima quindi avrebbe trovato un’occupazione, anche se retribuita meno del salario minimo, si ritrova allora escluso dal mercato del lavoro – a salario zero.
Questo podcast è stato pubblicato il 26.10.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Perché non è davvero incomprensibile che alcune professioni "essenziali" non siano automaticamente tra le meglio retribuite
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Marco Salvi
Il paradosso delle professioni essenziali
PlusvalorePerché non è davvero incomprensibile che alcune professioni "essenziali" non siano automaticamente tra le meglio retribuite
Infermiere, cassiere, fattorini: durante il lockdown, queste professioni – che molti qualificavano di umili, con retribuzioni in genere modeste – si sono improvvisamente rilevate indispensabili. Per tutto il periodo del lockdown, i lavoratori «essenziali» non hanno mai smesso di lavorare, mettendo a volta in pericolo la propria salute per fornire a tutti noi servizi irrinunciabili, nonostante delle paghe spesso al disotto della media.
E subito alcuni ne hanno chiesto a gran voce la rivalutazione salariale, giudicando incomprensibile che mestieri tanto importanti per la nostra società non siano meglio retribuiti, mentre altri, per niente «essenziali» – dal calciatore al professore di economia – portano a casa buste paga ben più sostanziose; quasi a riprova del fatto che nella nostra economia di mercato qualcosa non funziona.
Ma è davvero così incomprensibile che certe professioni «essenziali» non siano automaticamente tra le meglio pagate? No, almeno non per gli economisti e le economiste in ascolto che avranno riconosciuto in questa controversia il classico paradosso dell’acqua e dei diamanti. Comunemente associato ad Adam Smith, il paradosso consiste nell’apparente contraddizione tra il valore di gran lunga inferiore dell’acqua rispetto a quello dei diamanti, nonostante il fatto che l’acqua – al contrario dei diamanti – sia indispensabile all’essere umano.
Il paradosso venne risolto definitivamente più di cent’anni fa dalla cosiddetta «rivoluzione marginalista»: l’acqua costa poco e ha poco valore perché l’offerta ne è abbondante, tanto che il valore marginale (cioè, il valore di un litro in più) è pressoché nullo. I diamanti invece costano molto perché l’offerta ne è limitata e il valore marginale elevato. Ed è quest’ultimo a determinarne il prezzo, così come è il valore marginale del lavoro eseguito a determinare il salario.
Certo, per alcune professioni, questo valore era ancora più elevato del solito durante la pandemia. Se questa dovesse continuare, ci si può aspettare a rivalutazioni salariali. Ma stiamo attenti a cosa auspichiamo: saremmo molto più poveri se tutti i beni essenziali fossero costosi, e solo quelli superflui a buon mercato.
Questo podcast è stato pubblicato il 12.10.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Uno.
Plusvalore
Il mercato del lavoro svizzero è uno dei più mobili in termini di salari
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Marco Salvi
La Svizzera rimane un paese di opportunità
PlusvaloreIl mercato del lavoro svizzero è uno dei più mobili in termini di salari
In Svizzera le disparità di reddito sono relativamente contenute, soprattutto se si considera la distribuzione dei salari. Ma c’è una carenza cruciale nel guardare alla distribuzione del reddito o della ricchezza in un dato momento: si tratta di una considerazione puramente statica. Essa dice poco su quello che è probabilmente il criterio di distribuzione più importante: la distribuzione delle opportunità. In altre parole: a chi da noi parte da circostanze modeste, riesce il “cambio di classe”?
Un nuovo studio di Patrick Chuard e Veronica Grassi dell’Università di San Gallo permette per la prima volta di rispondere in modo preciso a questa importante domanda. I ricercatori dell’Università di San Gallo hanno collegato dati salariali dell’AVS, informazioni sulla situazione familiare e elementi del censimento per costituire un quadro abbastanza completo della situazione socio-economica di quasi un milione di persone appartenenti alla generazione X, nate cioè tra il 1967 e il 1984, e dei loro genitori.
Il risultato in una frase: La Svizzera, davvero, è un paese di opportunità. A differenza degli Stati Uniti, un tempo famosi per il “sogno americano” e le carriere da lavapiatti, dove la mobilità sociale ristagna, vi è da noi una correlazione bassa tra il reddito dei figli e quello dei loro genitori. Ad esempio, in Svizzera, un figlio trentenne con un padre nel percento più basso della distribuzione dei salari guadagna all’anno in media solo 12’000 franchi in meno rispetto a un coetaneo con un padre “ricco” (nel 1 percento dei redditi più elevati).
Che dire però della mobilità sociale assoluta? I figli oggi trentenni guadagnano di più dei loro genitori quando avevano la loro età? Questo aspetto della mobilità sociale dipende anche dalla crescita economica: se tutti i salari ristagnano, non c’è mobilità assoluta del reddito, anche se quella relativa rimane invariata.
Ebbene, così non è. In Svizzera, circa il 54 per cento dei trentenni della generazione X guadagna più del loro padre alla loro stessa età, mentre circa l’88 per cento delle figlie guadagna più delle madri. Quest’ultima cifra riflette la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Tuttavia, solo il 18 per cento delle trentenni guadagna più del padre.
Nel complesso, lo studio dimostra che il mercato del lavoro svizzero è molto mobile. Anzi, il nostro è uno dei paesi con la mobilità salariale più elevata. La permeabilità del sistema educativo elvetico è una ragione importante per questo dinamismo. Infatti, benché la scelta del percorso educativo (università o apprendistato) sia molto influenzata dal reddito dei genitori, la posizione relativa delle giovani generazioni nella distribuzione dei salari non dipende tanto dal loro percorso educativo. Un diploma universitario rimane essenziale solo per accedere alla fascia di reddito più alta.
Questo podcast è stato pubblicato il 14.09.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Il Consiglio federale dovrebbe considerare gli "effetti collaterali" della riduzione del lavoro
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Marco Salvi
I rischi del lavoro ridotto
PlusvaloreIl Consiglio federale dovrebbe considerare gli "effetti collaterali" della riduzione del lavoro
Durante il lockdown ben 190’000 aziende hanno richiesto in Svizzera il lavoro ridotto per i propri dipendenti. Si stima che più di un terzo del totale degli occupati avrebbe ricevuto (o riceverà) un’indennità. È inoltre notizia di questi giorni che il Consiglio federale starebbe valutando la possibilità di prolungare la durata massima del lavoro ridotto da 12 a 18 mesi. L’indennità per lavoro ridotto, ricordiamolo, consiste in un versamento della cassa disoccupazione alle imprese pari all’80 percento della perdita di guadagno se esse rinunciano al licenziamento.
Il lavoro ridotto è diventato quindi uno strumento cardine della risposta economica alla crisi creata dalla pandemia e dal conseguente lockdown. Confrontati ad una frenata violentissima e – speriamo – passeggiera della produzione e degli scambi era essenziale evitare uno tsunami di licenziamenti. A differenza dell’indennità di disoccupazione, il lavoro ridotto permette di mantenere la relazione tra impresa e dipendente. Si preservano così know-how e competenze specifiche che altrimenti rischierebbero di andare perse.
Vi è però un rovescio della medaglia. Per le imprese che fanno capo al lavoro ridotto vige un divieto di assunzioni. Chi, ciononostante, assume nuovo personale rischia di vedere compromesso il proprio diritto a percepire le indennità per tutta l’azienda.
Questa condizione è necessaria per evitare gli abusi. Ma essa potrebbe creare serie difficoltà se la crisi economica dovesse perdurare, e se alla disoccupazione parziale si aggiungessero anche ondate di licenziamenti secchi. Poiché molte aziende sono vincolate dagli obblighi del lavoro ridotto e non assumono, chi perde il proprio posto si ritrova su un mercato del lavoro con poca offerta. Alcune ditte sarebbero interessate ad assumere il personale licenziato dai concorrenti, ma non possono farlo prima di uscire dal lavoro ridotto.
Secondo recenti rilievi del Politecnico di Zurigo, mentre i licenziamenti sarebbero in leggero aumento, le nuove assunzioni sarebbero già in forte diminuzione. Speriamo quindi che il Consiglio federale, prima di prolungarne la durata, terrà ben conto degli «effetti collaterali» del lavoro ridotto – uno strumento efficace, ma a doppio taglio.
Questo podcast è stato pubblicato il 15.06.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Nel suo insieme il sistema sociale svizzero fino ad ora ha reagito bene alla crisi
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Marco Salvi
Il ritorno della povertà?
PlusvaloreNel suo insieme il sistema sociale svizzero fino ad ora ha reagito bene alla crisi
Le lunghe file di «sans-papiers» a Ginevra e in altre città svizzere, in attesa di ricevere un aiuto d’urgenza del valore di pochi franchi, hanno rilanciato il dibattito sulla povertà e sulle ripercussioni della pandemia sul nostro stato sociale. Secondo le stime, vi sarebbero attualmente 75’000 «sans-papiers» in Svizzera, ovvero persone senza permesso di lavoro che risiedono illegalmente nel paese. Esse sono spesso prive di copertura sociale. Fino ad ora gestivano autonomamente le proprie necessità, finanziandole con il reddito del lavoro. Venuto questo improvvisamente a mancare, una parte di loro si è ritrovata letteralmente sul lastrico.
Le difficoltà dei “sans-papiers” illustrano la portata di questa crisi e anche la sua novità. L’apparire di un nuovo virus si traduce in una miriade di situazioni impreviste – impreviste anche dal sistema sociale. Queste situazioni richiedono risposte inconsuete, e nel caso specifico è lodevole l’iniziativa del Canton Zurigo di stanziare subito (modesti) aiuti d’emergenza.
Bisogna però diffidare dalle estrapolazioni facili. Il problema dei «sans-papiers» durante il lockdown è stato certamente reale ed urgente, ma anche localizzato e temporaneo. Nel suo insieme il sistema sociale svizzero fino ad ora ha reagito bene alla crisi. Sia i salariati – cioè circa il 90 percento della popolazione attiva – che i pensionati non hanno patito in termini di reddito durante la crisi. Gli introiti mancanti sono stati sostituiti quasi interamente da pagamenti delle assicurazioni sociali, in particolare da quelli dell’assicurazione disoccupazione. E poiché con il lockdown sono parallelamente diminuite le occasioni di consumo, si registra – in Svizzera come in altri paesi – un forte aumento del risparmio; aumento che tra l’altro contribuisce a mantenere bassi i tassi d’interesse.
Finora sono state soprattutto le aziende, in particolare le piccole e medie imprese (PMI), e lo stato stesso ad aver assorbito lo shock economico del virus – come del resto è giusto che sia. In tempi normali gli imprenditori ricevono un premio pari al 6 percento annuo in media storica. Lo stato invece ridistribuisce i rischi che non possono essere assicurati in modo privato – quale appunto il rischio disoccupazione. Insomma, fino ad ora tutti hanno fatto la propria parte. Continueremo così? Ciò dipenderà ovviamente dalla durata della crisi. Speriamo bene.
Questo podcast è stato pubblicato il 01.06.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Uno.
Plusvalore
La pandemia di Covid-19 sta avendo gravi ripercussioni economiche, e nelle ultime settimane il Consiglio federale ha adottato numerose misure che cercano di mitigarne gli effetti. Ad esempio, sono state messe a disposizione delle imprese, in modo rapido e non-burocratico, ingenti liquidità mentre il ricorso alla disoccupazione parziale è stato…
La pandemia di Covid-19 sta avendo gravi ripercussioni economiche, e nelle ultime settimane il Consiglio federale ha adottato numerose misure che cercano di mitigarne gli effetti. Ad esempio, sono state messe a disposizione delle imprese, in modo rapido e non-burocratico, ingenti liquidità mentre il ricorso alla disoccupazione parziale è stato facilitato. Ciononostante, sono oggi in tanti – tra i quali parecchi economisti – a chiedere misure e pacchetti di ben più ampio respiro. Così, servirebbero pagamenti a fondo perso per salvare tutte le imprese in difficoltà, garantendo non solo i salari, ma anche il pagamento di interessi o affitti, e addirittura di un minimo di utili aziendali.
Per i fautori del «bailout» generalizzato, le misure coercitive dello stato hanno causato un danno economico alle imprese interessate; pertanto lo stato è tenuto al risarcimento di tutti i danni. Ma la logica dell’argomento è traballante. Se avessimo rinunciato a qualsiasi «lockdown», è molto probabile che la società ne avrebbe patito enormi sofferenze e l’economia ingenti danni. Eppure, secondo il criterio precedente, lo stato non sarebbe stato responsabile di nulla.
Serve quindi ricordare che tra i principi più importanti della nostra democrazia vi è quello che prevede che non si possa dedurre alcun obbligo generale di risarcimento da decisioni politiche – fatta eccezione di quelli definiti nella Costituzione federale, la quale fissa chiari limiti all’esproprio. Se, a mo’ di esempio, questo non fosse il caso, a seguito dell’adozione dell’iniziativa sulle abitazioni secondarie si sarebbe dovuto procedere all’indennizzo generale di tutti i proprietari di terreni nelle regioni turistiche.
Ma vi sono anche solidi motivi economici che ci inducono a guardare con un occhio critico i piani di salvataggio a tappetto accennati poc’anzi. Passata la pandemia, non ritorneremo all’economia di prima. Quei consumatori che negli ultimi mesi hanno imparato ad apprezzare tutti i vantaggi dell’e-commerce non si ripresenteranno nei negozi. Gli entusiasti del smart working difficilmente vorranno riadattarsi ai cubiculi degli «open space». Ebbene, questa grande trasformazione non sarà possibile senza l’impiego di risorse e di investimenti – insomma, senza la mobilizzazione di capitale. Non ha molto senso quindi impegnare una parte ingente di queste risorse scarse per aiuti finanziari statali miranti, che lo si voglia o no, a preservare un mondo oramai già obsoleto.
Questo podcast è stato pubblicato il 04.05.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Il telelavoro era già in crescita prima della pandemia, ma nelle ultime settimane la sua diffusione è stata – per forza maggiore – fortemente accelerata. Mentre l’anno scorso solo il 5% degli occupati svolgeva più del 50% dei propri compiti lavorativi da casa con il computer, al momento almeno un…
Il telelavoro era già in crescita prima della pandemia, ma nelle ultime settimane la sua diffusione è stata – per forza maggiore – fortemente accelerata. Mentre l’anno scorso solo il 5% degli occupati svolgeva più del 50% dei propri compiti lavorativi da casa con il computer, al momento almeno un quarto degli occupati è costretto a lavorare unicamente da casa.
Ma in che misura lo «smart working» perdurerà dopo che la pandemia sarà passata? Ora che molte aziende (e i loro dipendenti) si sono adattate alle nuove condizioni, non si tornerà alla situazione precedente. Del resto, anche in tempi normali il telelavoro offre alcuni indubbi vantaggi. L’assenza di vincoli orari facilita ad esempio la conciliazione tra famiglia e lavoro.
Ovviamente, se – come ora – le scuole sono chiuse, le condizioni per il lavoro «smart» da casa non sono ideali. Ma persino nella difficile situazione attuale sono in molti ad apprezzare il tempo risparmiato evitando il quotidiano tragitto casa-lavoro.
Il telelavoro ha però anche i suoi limiti. Molte imprese non lo vedono di buon occhio, non sono tanto per la mancanza di controllo quanto per le difficoltà di coordinare il telelavoro. Nelle nostre aziende la produzione in team rimane essenziale. Il telelavoro è invece più adatto ad un tipo di produzione individuale. In molte professioni la produttività del lavoro dipende però dall’uso di macchine e impianti molto specializzati. Insomma, non si può ricreare un laboratorio o una fabbrica in ogni casa.
Secondo nuove stime di Avenir Suisse, in Svizzera un terzo circa delle professioni potrebbe in teoria essere svolta da casa. Il telelavoro è più facile nei servizi, soprattutto nelle professioni maggiormente qualificate: il 37% dei lavoratori altamente qualificati svolge una professione con possibilità di telelavoro, mentre tra i meno qualificati la percentuale è solo del 10%.
In alcuni settori come la ristorazione, il turismo, i servizi alle persone, l’industria, il telelavoro non è oggi un’opzione, e non lo sarà probabilmente mai. Ma il progresso tecnologico e l’evoluzione dell’economia, orientata maggiormente ai servizi e al «knowledge worker», rendono il telelavoro sempre più possibile.
Certo, passato il periodo di confino saremo ben contenti di ritrovare in carne e ossa i nostri colleghi di lavoro – o almeno la gran parte di loro. Sono però convinto che almeno una giornata di telelavoro alla settimana diventerà prima o poi una consuetudine di molti posti di lavoro. E tanto meglio così.
Questo podcast è stato pubblicato il 20.04.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.