Plusvalore, Podcast
A 100 anni dallo sciopero generale, l'arma di guerra dei sindacati è diventata sempre più obsoleta
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Marco Salvi
Gli scioperi hanno scontato il loro tempo?
Plusvalore, PodcastA 100 anni dallo sciopero generale, l'arma di guerra dei sindacati è diventata sempre più obsoleta
Il 12 novembre di 100 anni fa, 250’000 ferrovieri e operai attuavano il primo e, fino ad oggi, unico sciopero generale svizzero. Al di là della reale portata storica dell’evento, ancora dibattuta dagli specialisti, la ricorrenza si presta a una riflessione sull’importanza odierna di questo particolare strumento di lotta.
Meno giorni di sciopero
Ebbene, basta un’occhiata alle statistiche per convincersi che – con qualche eccezione notevole e molto mediatizzata – lo sciopero sia praticamente scomparso dal repertorio sindacale internazionale. Non solo in Svizzera, ma anche in Austria, Germania, nel Regno Unito, in Danimarca o in Olanda si contavano nel 2015 meno di 5 giorni scioperati all’anno per mille impiegati, il che corrisponde a una giornata di sciopero per 100’000 giornate lavorate. Persino in Francia, il campione d’Europa dello sciopero, le astensioni dal lavoro sono in forte diminuzione; le perdite economiche che esse generano sono quasi trascurabili.
Non solo è diminuita la frequenza degli scioperi, ma sono cambiate anche le «regole del gioco». In Svizzera come in molti altri paesi, l’astensione dal lavoro è diventata una forma di protesta fortemente regolamentata. Da noi ne hanno il monopolio i sindacati, obbligati a consultare le loro basi. Non è così in Italia dove si tratta ancora di un diritto individuale e sono consentiti anche scioperi politici, indetti per sostenere un partito o per protestare contro il governo.
Mezzi alternativi
La ragione per questa profonda evoluzione è presto trovata. In molti paesi i partner sociali hanno oramai da tempo elaborato e codificato alternative migliori per risolvere i conflitti: negoziazioni salariali, trattative per il rinnovo di contratti collettivi, mediazioni ecc. Tanto meglio perché in uno sciopero entrambe le parti sono perdenti: le aziende perché si interrompe la produzione, i lavoratori perché non vengono pagati. I vantaggi della pace del lavoro sono quindi ampiamente distribuiti.
Ma stiamo attenti, in questi giorni di commemorazione e di nostalgia, a non elevare questo nuovo equilibrio a livello di mito. La pace del lavoro non è né necessaria né sufficiente per garantire un mercato del lavoro prospero. Non va infatti dimenticato che essa è negoziata da organizzazioni (sindacati e rappresentanza padronale) le quali hanno dapprima a cuore gli interessi dei propri membri, non sempre quelli dell’intero paese. E così, gli accordi rischiano a volte di andare a scapito degli outsiders: ad esempio di nuove aziende, limitate nella loro libertà imprenditoriale, o di chi un lavoro ancora non ce l’ha.
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In Svizzera, i costi per l’accoglienza della prima infanzia (vale a dire per bambini fino a tre anni) sono in gran parte a carico dei genitori. Nel confronto internazionale, i nostri asili nido sono cari, anzi carissimi: una famiglia con due bambini in età prescolastica spende tra il 15 e…
In Svizzera, i costi per l’accoglienza della prima infanzia (vale a dire per bambini fino a tre anni) sono in gran parte a carico dei genitori. Nel confronto internazionale, i nostri asili nido sono cari, anzi carissimi: una famiglia con due bambini in età prescolastica spende tra il 15 e il 20 percento del reddito per il collocamento dei figli. In altre paesi europei, famiglie che usufruiscono di un servizio analogo spendono al massimo 6 percento. Secondo alcuni economisti, i costi elevati degli asili nido svizzeri scoraggerebbero le giovani madri a riprendere il lavoro a tempo pieno, con conseguenze nefaste sul loro percorso professionale e sulla carriera. I costi sarebbero direttamente responsabili del fatto che in Svizzera la maggioranza delle madri con figli piccoli o lavora a tempo parziale con percentuali molto basse o non lavora del tutto.
Gli effetti sono trascurabili
Una nuova analisi dello studio di consulenza economica INFRAS svolto per conto della Fondazione Jacobs permette di verificare in modo preciso queste ipotesi. Lo studio conferma che con tariffe più abbordabili le famiglie farebbero maggior ricorso ai nidi per l’infanzia. Ad esempio, se i costi medi diminuissero da 90 a 60 franchi, una famiglia su 10 in più manderebbe il proprio bambino all’asilo nido. Gli effetti sull’impiego dell’abbassamento delle tariffe sarebbero invece trascurabili. A livello svizzero, la diminuzione delle tariffe di 30 franchi al giorno inciterebbe appena 7’500 persone supplementari (in stragrande maggioranza donne) a riprendere un lavoro a tempo pieno. Per finanziare questa misura servirebbero però 600 milioni di franchi. In altre parole, lo stato dovrebbe spendere in media ben 80’000 franchi all’anno per indurre un genitore in più a lavorare a tempo pieno.
Come mai un effetto così debole? Oggi la maggior parte della cura dei bambini viene svolta in modo informale da nonni e altri parenti. Asili nido miglior mercato porterebbero in primo luogo a una sostituzione delle cure private con quelle formali, senza però indurre un aumento globale dei tempi di custodia. Al riguardo di questi risultati deludenti, diventa difficile motivare un aumento ulteriore degli aiuti statali alle strutture di accoglienza con supposti effetti positivi sull’impiego femminile. Sappiamo ora che questo effetto è modesto. Rimane però il fatto che le giovani famiglie, appena fanno ricorso a strutture d’accoglienza, devono sopportare un carico finanziario il quale – a seconda dell’orientamento politico – gli uni giudicheranno sostanziale, gli altri eccessivo.
In un momento di transizione tecnologica come quello attuale, sono in molti a chiedersi quali saranno le forme future del lavoro. Fino ad ora, intelligenze artificiali, robot e economia digitale non hanno sconvolto l’organizzazione del lavoro. La figura tradizionale del dipendente a tempo pieno, alla ricerca di una carriera lineare, con regolari promozioni e aumenti salariali, è ancora molto diffusa.
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Eppure, per molte persone, e in modo particolare per i giovani, il modello standard sta perdendo attrattività. Cresce l’interesse per modalità più flessibili; interesse che va di pari passo con le esigenze di una migliore conciliazione della vita professionale e di quella familiare, nonché con il desiderio di far fruttare le proprie competenze in ambiti di lavoro variegati.
Per intravvedere il futuro del lavoro conviene allora guardare al presente di un settore che da sempre è stato all’avanguardia: parliamo del settore artistico. La musica ad esempio, è stata una delle prime attività economiche globalizzate. Si stima ad esempio che ben 30% dei compositori dell’epoca classica (attivi cioè dalla metà del 17° alla metà del 19° secolo) siano deceduti in un paese diverso da quello in cui erano nati, e che il 45% di essi abbia passato almeno due anni della propria vita lavorativa all’estero – una caratteristica questa oggi comune a molti percorsi professionali, non solo a quelli degli artisti.
Così possiamo speculare che il lavoro futuro in parte ricalcherà l’odierna organizzazione del settore artistico, ad esempio:
una produzione non legata a un posto fisso (fabbrica o ufficio), ma spesso in movimento
l’assenza di un singolo datore di lavoro, sostituito da più committenti
la diversificazione delle forme di reddito, dalla vendita della propria produzione, all’insegnamento, agli incontri (pagati) con mecenati
il lavoro in teams, formati per un progetto dato e per un periodo limitato.
L’aspetto più distintivo del settore artistico risiede però nell’importanza data all’essere autori. Confidiamo quindi che, in futuro, non solo gli artisti ma anche «normali dipendenti» vorranno sempre più definire autonomamente i contenuti del proprio lavoro – rinunciando magari a parte del salario per perseguire il sogno dell’«autoralità».
Marco Salvi
Mercato del lavoro in forma olimpica… ma solo per gli uomini?
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Alle Olimpiadi del lavoro, la Svizzera farebbe incetta di medaglie
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Marco Salvi
Mercato del lavoro in forma olimpica… ma solo per gli uomini?
Plusvalore, PodcastAlle Olimpiadi del lavoro, la Svizzera farebbe incetta di medaglie
Se ci fossero le Olimpiadi del mercato del lavoro, la Svizzera si classificherebbe ai primi posti del medagliere. Fra i 35 membri dell’OCSE, il club delle economie più avanzate, il nostro paese si piazza al secondo posto per il tasso di occupazione, la qualità dell’ambiente di lavoro e la bassa percentuale di «working poors». Siamo medaglia di bronzo nelle categorie salari, sicurezza del posto di lavoro e capacità a integrare lavoratori con handicap.
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Le differenze salariali tra uomini e donne sono invece una delle poche categorie dove ci ritroviamo lontani dai primi. La Svizzera registra infatti un divario di circa 15 percento, maggiore di quanto non si rincontri nei paesi scandinavi e, più sorprendentemente, anche in quelli dell’Europa Meridionale, Italia compresa. Un mercato svizzero del lavoro in forma olimpica quindi, ma solo per gli uomini?
No, perché se presa isolatamente questa differenza salariale non è un indicatore affidabile. Anzi, proprio il fatto che il nostro mercato del lavoro sia molto integrativo, con altissimi tassi d’occupazione sia maschili che femminili, spiega in gran parte questo modesto piazzamento. In effetti, il divario salariale medio tra i sessi tende ad essere minore laddove relativamente poche donne svolgono un lavoro retribuito.
In Italia, Grecia o Portogallo, l’eccesso di regolamentazione del mercato del lavoro ha portato alla creazione di barriere all’impiego. A queste barriere reagiscono più le donne che gli uomini. Una parte importante della forza lavoro femminile, che da noi è impiegata a tempo parziale, non è affatto attiva professionalmente. A rimanere sul mercato del lavoro sono quindi soprattutto le donne meglio istruite, con un posto a tempo pieno, il che spiega le minori differenze salariali tra i sessi osservate a sud.
Ciononostante la Svizzera può migliorare. Bisogna rimuovere il più possibile gli ostacoli che ancora impediscono di conciliare pienamente carriera e famiglia. Un ruolo decisivo lo giocheranno tecnologia e organizzazione del lavoro, quale le possibilità di telelavoro. Ma non vanno dimenticate diverse misure di politica sociale che faciliterebbero ulteriormente le carriere femminili: dal congedo parentale all’accoglienza della prima infanzia.
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Per misurare le differenze di benessere tra paesi spesso viene consultato il PIL per abitante (Prodotto interno lordo), una statistica che misura il valore della produzione creata durante un anno. Da qualche tempo il PIL per abitante viene calcolato regolarmente per tutti i cantoni svizzeri. Ebbene, con 80’000 Franchi all’anno, quello ticinese è fra i più alti: nel 2014 solo sei cantoni facevano meglio. Certo, gli 80’000 Franchi del Ticino sono sempre poca cosa rispetto ai 163’000 del capolista Basilea Città, ma è pur sempre molto di più del fanalino di coda Uri, a quota 51’000 Franchi.
Sarebbe tuttavia affrettato dedurre da questi dati che il Ticino è un cantone più «produttivo» o più ricco della media svizzera. Il PIL per abitante ticinese non può fungere da indicatore della produttività e del benessere dei ticinesi per il semplice motivo che il mercato del lavoro vi è costituito per più di un quarto da frontalieri non-residenti. Poiché questi trasferiscono le rispettive entrate in Italia, vi è in Ticino una differenza notevole fra il valore della produzione attestato dal PIL e il reddito dei residenti.
Meglio quindi prendere il valore aggiunto per ora effettiva di lavoro.
Con 79 Franchi all’ora il Ticino si colloca nella metà inferiore delle principali regioni. Peggio ancora: la crescita marcia sul posto: dal 2008 al 2014 la produttività è cresciuta di un esiguo 0,5 %. La Svizzera orientale, al contrario, nello stesso lasso di tempo ha registrato un incremento della produttività dieci volte superiore.
Non stupisce quindi se, a contrario del PIL, il reddito a disposizione delle famiglie ticinesi sia inferiore alle altre regioni della Svizzera. Rispetto a Zurigo, la regione più ricca, il gap raggiunge un buon 15 Percento. Ma anche questa differenza negativa va interpretata con cautela: secondo uno studio dell’USI, quasi due terzi del divario spariscono se si tiene conto delle differenze di prezzo esistenti. Ad esempio, a sud delle Alpi il livello medio degli affitti è notevolmente inferiore.
Ricapitoliamo. Rispetto alla media nazionale, in Ticino il livello della produttività è minore, cosi come lo sono i redditi – ma non lo è necessariamente quello del benessere perché i consumi costano meno. E se si tenesse conto anche del valore del bel tempo, rimarrebbero poche ragioni per invidiare il livello di vita dei cari zurighesi.
Marco Salvi
Tutti capi grazie alla digitalizzazione
Plusvalore
A venticinque anni dall’arrivo di Internet, come è cambiato il mercato del lavoro in Svizzera? La sua evoluzione è una conseguenza logica del cambiamento tecnologico.
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A venticinque anni dall’arrivo di Internet, come è cambiato il mercato del lavoro in Svizzera?
Per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, i mutamenti sono stati tutto sommato minori. La temuta «precarizzazione digitale» non è avvenuta. Secondo dati dell’Ufficio federale di statistica, in Svizzera il telelavoro marcia sul posto, al pari della quota di indipendenti o di persone con contratti a durata determinata.
Si nota invece una polarizzazione del mercato del lavoro, vale a dire una forte diminuzione percentuale delle persone con qualifiche medie, ad esempio con solo un tirocinio. Oggi rappresentano il 23% degli occupati, rispetto al 38% nel 1995. Il numero di persone con qualifiche superiori (università o scuole universitarie professionali) è invece in forte aumento. Vi è stata quindi una riqualifica del ceto medio svizzero che ha permesso di far fronte con bravura ai mutamenti tecnologici.
Tra le categorie in forte crescita spicca quella delle persone con responsabilità dirigenziali. In Svizzera, un impiegato su dieci svolge funzioni di questo tipo, il triplo di 25 anni fa. Le imprese somigliano insomma sempre più a quegli eserciti messicani dove tutti erano colonnelli o generali.
A ben guardare però, questa evoluzione è una logica conseguenza del cambiamento tecnologico. Le fabbriche d’una volta, con decine di operai alle macchine e qualche caposquadra che controlla, sono in via d’estinzione. Le aziende moderne sono organizzate in piccoli teams. La gestione, l’organizzazione, la pianificazione, la comunicazione – insomma tutte quelle attività volte alla creazione di «capitale organizzativo» – sono diventate sempre più importanti, a scapito della produzione vera propria. C’è chi lo deplora, ma è un dato di fatto.
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Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 9 ottobre 2017 del programma «Plusvalore». Per gentile concessione di «RSI Rete due».
Plusvalore
In occasione del primo maggio non sono mancate le profezie sulla fine prossima del lavoro. Ma una visione pessimistica del futuro del lavoro è davvero giustificata? Ciò che si constata è che la Grande Sosituzione non c'è stata e che, nonostante l'introduzione di centinaia di migliaia di sofisticatissime macchine umane dell'ultima generazione, in tutta logica non ci sarà.
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In occasione del primo maggio non sono mancate le profezie sulla fine prossima del lavoro. Secondo alcuni oratori – e persino secondo qualche cronista di Plusvalore – presto non resterà più nulla da celebrare poiché robot e intelligenza artificiale avranno fatto la festa al lavoro umano. Nel migliore dei casi questa Grande Sostituzione manderà molti di noi in pensione anticipata, liberandoci dall’obbligo di guadagnare il pane con il sudore della fronte. Alla peggio, toccherà ritirarci ai margini del mondo, appena tollerati dalle intelligenze digitali, un po’ come quelle tribù di cacciatori-raccoglitori che oggi ancora sussistono ai confini della nostra civiltà. Così, sostengono alcuni, “sarebbe venuto il momento di ripensare l’intero sistema economico”.
Davvero? Si giustifica una visione talmente pessimistica del futuro del lavoro? Scendiamo un attimo dalle pedane imbandierate per dare un’occhiata alle statistiche. Nel 2016 un’impresa svizzera su cinque faticava a trovare personale qualificato, mentre attualmente il tasso di disoccupazione non raggiunge il 4%. Più del 96% degli svizzeri e delle svizzere che desiderano lavorare, può farlo. Ma c’è di più: chi si preoccupa di venire rimpiazzato presto o tardi dai robot, a maggior ragione dovrebbe temere coloro che già oggi sono perfettamente in grado di sostituirci: ovvero, altri umani.
Vent’anni fa vi erano in Svizzera quattro milioni di attivi. Nel frattempo più di un milione di persone hanno fatto il loro ingresso nel mercato del lavoro. Tra questi troviamo giovani, stranieri e molte donne. Ma non per questo chi era attivo vent’anni fa ha perso il posto, travolto da un’ondata di lavoro femminile. Anzi, chi era attivo nel 1997 (e non è ancora andato in pensione) molto probabilmente ha beneficiato di discreti aumenti salariali, a ulteriore riprova del fatto che il lavoro non è diventato più scarso.
Certo, questa evoluzione positiva non ha nulla di scontato. Servono continui investimenti nella formazione e capacità di adattamento. Non ha senso però presupporre una quantità fissa, e quindi esauribile, di compiti da svolgere. È invece giocoforza constatare che la Grande Sostituzione non c’è stata e che, in tutta logica, non ci sarà – nonostante l’introduzione di centinaia di migliaia di sofisticatissime macchine umane dell’ultima generazione.
Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 8 maggio 2017 del programma «Plusvalore». Per gentile concessione di «RSI Rete due».