La decisione dei ministri delle finanze del G7, in riunione la settimana scorsa a Londra, di introdurre un tasso d’imposizione minimo sul beneficio delle società multinazionali è stata accolta con inquietudine dagli ambienti economici svizzeri. Non è tanto l’aliquota minima del 15 percento a preoccupare. Essa non supera di molto quanto già oggi in vigore in quei cantoni che contano una presenza numerica rilevante di imprese multinazionali. Di portata ben maggiore è invece la decisione presa a Londra di modificare fondamentalmente il modo di imporre i profitti, con il rischio di rendere obsoleto un sistema globale di tassazione cresciuto organicamente nell’arco di oramai un secolo.
In effetti, sono pochi oggi a ricordare che quasi tutti gli accordi internazionali vigenti in materia di fiscalità hanno un antenato comune: il modello di convenzione sviluppato nel primo dopoguerra a Ginevra dalla Società delle Nazioni, l’antenato delle Nazioni Unite. Allora – come oggi – si trattava di evitare la doppia imposizione dei profitti delle imprese, spesso tassati sia alla fonte (cioè nel paese dove vengono generati) che nel paese di residenza dell’impresa e dei suoi proprietari. Questo problema di doppia imposizione, nefasto agli investimenti e quindi allo sviluppo economico, fu risolto dando la precedenza all’imposizione dei benefici alla fonte.
Con il passare del tempo, questo principio fondamentale ha incoraggiato molti paesi – tra cui la Svizzera – a offrire tassi preferenziali a imprese internazionali qualora esse decidessero di spostare la creazione di valore nel paese in questione. Da un lato ciò ha indubbiamente stimolato gli investimenti. Dall’altro, il sistema ha incoraggiato pratiche di «profit shifting», ovvero di trasferimento puramente nozionale di profitti da un paese all’altro, senza corrispondenza economica tangibile.
Ciò ha fatto nascere l’idea, presentata al G7, di imporre le imprese non dove i profitti sono creati ma bensì dove l’azienda fa le sue vendite, con il presupposto che questo limiterebbe le capacità di «shifting». Purtroppo, questo cambiamento di paradigma non garantisce per nulla che si eviti la (nefasta) doppia imposizione. Inoltre, esso avvantaggia chiaramente i paesi più grandi, che dispongono di mercati importanti, a scapito di quelli più piccoli.
Difficile invece giudicare l’impatto effettivo sulle entrate fiscali per i paesi che si sentono più lesi dal sistema oggi in vigore, primi fra tutti gli Stati Uniti. A livello globale, il gettito dell’imposta sui benefici delle imprese è rimasto più o meno costante, e non è per niente detto che i nuovi piani del G7 faranno aumentare gli introiti in modo significativo. Poca cosa, comunque, se raffrontata al rischio creato dall’abbandono dei principi centenari fissati nei trattati modello ginevrini, trattati che hanno contribuito fortemente al processo di globalizzazione dell’economia mondiale.
Questo podcast è stato pubblicato il14.06.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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Da anni l’attività fiscale delle imprese multinazionali è al centro dell’attenzione delle autorità fiscali di numerosi paesi. Rivelazioni quali i Lux Leaks, i Panama Papers o, più recentemente, i Paradise Papers hanno messo ulteriormente sotto pressione sia multinazionali che governi. In parte dell’opinione pubblica e tra numerosi attori della società civile, quali ONG e chiese, vi è oramai la ferma impressione che nei paesi in via di sviluppo i profitti delle imprese transnazionali sfuggano quasi totalmente al fisco. Tanto che ne basterebbe la corretta imposizione per mobilitare tutte le risorse di cui questi paesi hanno bisogno per raggiungere i principali obiettivi di sviluppo.
Ma, aldilà della legittimità o meno di tali pratiche di ottimizzazione fiscale – nelle quali, fra l’altro, la Svizzera gioca un ruolo di primo piano -, è possibile quantificare con precisione l’impatto reale nei paesi più poveri del cosiddetto BEPS, ovvero delle strategie delle imprese per erodere la base imponibile?
Secondo le analisi ufficiali effettuate dall’OCSE la perdita di gettito annuale si aggirerebbe tra i 100 e i 240 miliardi di dollari a livello mondiale. Certo, si tratta di un bel gruzzolo. Esso rappresenta però solo dal 4% al 10% delle entrate derivanti dalle imposte sui redditi delle società – e nemmeno l’1% dell’insieme delle entrate fiscali statali.
Inoltre, la stragrande maggioranza di queste mancate entrate non incide sui budget dei paesi poveri, ma bensì di quelli ricchi, primi fra tutti su quello cronicamente deficitario degli Stati Uniti. Nuovi studi indicano che ben un quarto di tutte le perdite di gettito dovute al BEPS andrebbero a scapito dell’erario degli Stati Uniti.
La ragione è semplice: la stragrande maggioranza degli scambi commerciali internazionali avviene ancora tra paesi già industrializzati, non tra quelli ricchi e quelli poveri. Così il commercio tra l’Africa e resto del mondo non rappresenta che 3% degli scambi globali. Vi è quindi poco da «ottimizzare». Del resto, secondo stime della Banca Mondiale, nei paesi più poveri le multinazionali generano in media già il 10% del gettito, mentre nei paesi industrializzati solo il 5% delle entrate è dovuto a questo tipo d’imprese. Grosse differenze invece si riscontrano a livello di tassazione dei redditi delle persone fisiche, specie di quelle più ricche e degli indipendenti, che nei paesi poveri o in via di sviluppo spesso riescono ad evadere il fisco in tutta impunità.
Di fronte ai bisogni ingenti dei paesi più poveri, un aumento anche sostanziale delle imposte pagate dalle multinazionali avrebbe un impatto solo marginale sulla capacità di questi paesi a finanziare il loro sviluppo. Ciò non vuol dire che bisogna abbandonare ogni tentativo di riforma della fiscalità transnazionale. Anzi, vanno sostenute iniziative come quelle dell’OCSE, miranti a contrastare le politiche di pianificazione fiscale aggressiva di certe multinazionali. Ma sarebbe un grave errore puntare solo su questa carta per risolvere i problemi urgenti delle nazioni in via di sviluppo. Solo una solida e duratura crescita economica potrà eradicare la povertà.
Il successo del referendum contro la terza riforma dell’imposizione delle imprese non è una sorpresa. Vedremo se le Camere federali saranno in grado di elaborare un nuovo compromesso, rinunciando probabilmente alla famigerata deduzione degli interessi sul capitale proprio, un concetto che – ne abbiamo ora la certezza – piace più agli economisti che ai cittadini.
A livello internazionale è però un’altra riforma tributaria a fare notizia queste settimane: quella in gestazione presso il congresso degli Stati Uniti, oramai saldamente in mano al Partito Repubblicano. Più che di una riforma fiscale si tratta in questo caso di una vera rivoluzione che, se attuata, avrebbe ripercussioni anche sulla piazza economica elvetica.
Il piano prevede l’eliminazione pura e semplice dell’imposta sul reddito delle imprese per vendite all’estero, ma tasserebbe le importazioni negli USA, in modo analogo all’IVA europea.
Oggi le pratiche di ottimizzazione fiscale delle imprese multinazionali americane dipendono in gran parte dalla possibilità di concentrare i proventi in paesi che applicano una tassazione moderata, quali l’Irlanda, i Paesi Bassi o appunto la Svizzera. Con il piano dei Repubblicani, questo vantaggio sarebbe caduco poiché verrebbero a mancare gli incentivi strettamente fiscali che giustificano le pratiche attuali.
C’è chi dubita della fattibilità e dell’utilità di una riforma così sostanziale. Esperti ritengono esagerate le stime secondo cui la nuova imposta inietterebbe nelle casse del Tesoro degli Stati Uniti entrate supplementari di 100 miliardi di dollari, pari a un terzo del gettito odierno. Inoltre, la transizione verso un nuovo sistema sarebbe estremamente impegnativa, contravverrebbe alle regole dell’Organizzazione Mondiale sul Commercio (OMC) e probabilmente offrirebbe nuove possibilità di ottimizzazione.
In ogni modo, le conseguenze fiscali di un esodo graduale delle multinazionali Usa dalla Svizzera sarebbero considerevoli. Mancano dati precisi, ma si può supporre che una parte importante dei circa 4 miliardi di franchi incassati ogni anno da Confederazione e Cantoni da holdings e società miste sia da ricondurre a queste imprese.
Un vantaggio significativo della piazza economica svizzera – la tassazione moderata degli utili per i redditi mobili – perderebbe importanza, almeno dal punto di vista di giganti USA presenti in Svizzera, tra i quali Starbucks, Mondelez o Google. Svantaggi strutturali del nostro paese come l’alto costo della vita, l’accesso limitato al mercato interno europeo o la difficoltà di reclutare personale qualificato da paesi non-EU inciderebbero ancora più fortemente. Una conseguenza inattesa del piano di Trump – come del voto di ieri sulla RI imprese 3 – sarà quindi a termine di rendere ancora più necessarie riforme strutturali nel nostro paese.
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Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 13 febbraio 2017 del programma «Plusvalore».
Per gentile concessione di «RSI Rete due».
A fine settembre, i cittadini del Canton Svitto hanno rifiutato in votazione l’introduzione della Flat Rate Tax, ovvero il passaggio dall’aliquota progressiva a quella unica proporzionale. Secondo questa proposta, ogni contribuente avrebbe dovuto versare la stessa percentuale di reddito all’erario cantonale.
La Flat Rate Tax è una versione meno radicale della Flat Tax, proposta ai tempi dell’amministrazione Reagan dagli economisti statunitensi Alvin Rabushka e Robert Hall. Oltre all’aliquota unica, la Flat Tax rinunciava anche a imporre i risparmi. Poiché il reddito viene o speso o risparmiato (e quindi investito), la Flat Tax grava unicamente sui consumi. Secondo i suoi sostenitori, stimolerebbe così risparmi, investimenti e crescita.
Sia la versione originale che la variante svittese sono state accusate di essere antisociali, benché entrambe proponessero esenzioni per i redditi bassi. Anche per questo la Flat Tax è rimasta un sogno (o bisogna dire un incubo?) inappagato degli economisti.
O così è in apparenza. A ben guardare anche da noi è in atto uno slittamento graduale dalla tassazione progressiva del reddito verso una tassazione proporzionale di consumi – e ciò non solo a causa del continuo aumento dell’IVA.
Oggigiorno infatti gli svizzeri mettono da parte un buon 20% del reddito lordo per la previdenza individuale e la cassa pensione. Per molte famiglie il capitale pensionistico accumulato rappresenta la parte più importante del patrimonio. Questi risparmi vengono tassati solo al momento della riscossione delle rendite. Le aliquote sono progressive ma ridotte rispetto a quelle sui salari e altri redditi da capitale. Nella misura in cui le rendite vengono spese per finanziare i consumi nell’età della pensione, il nostro sistema corrisponde di fatto a una Flat Tax.
Quasi senza rendercene conto – o addirittura senza volerlo – la Svizzera ha già da tempo lanciato la sua rivoluzione fiscale.
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Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 17 ottobre 2016 del programma «Plusvalore».
Per gentile concessione di «RSI Rete due».