I filosofi che vorrebbero insegnarci la «buona vita» spesso consigliano di lavorare meno. Ridurre l’impegno consacrato al lavoro in modo da disporre di una maggiore quantità di tempo libero da dedicare alla famiglia, agli amici e alle proprie passioni – questo in sostanza il loro messaggio.
Se guardiamo l’evoluzione del tempo di lavoro, si potrebbe pensare in un primo momento che gli svizzeri abbiano seguito questo consiglio per benino. Nelle fabbriche del XIX secolo, le giornate di 10 ore e le settimane lavorative di 6 giorni erano la regola, per un totale di quasi 3000 ore all’anno. Oggi, il tempo medio di lavoro annuale è di 1400 ore, meno della metà.
Questa media nasconde però grandi differenze tra gruppi sociali e età. Solo una minoranza si è effettivamente liberata dal fardello del lavoro retribuito: sono i pensionati. Intorno al 1900, lavorare in età avanzata era di norma: più della metà degli over 65 era occupato. Oggi, solo il 13% lavora, per lo più con un grado di occupazione molto basso.
Per il resto della popolazione invece, la diminuzione dell’orario di lavoro è stata modesta. Per i lavoratori a tempo pieno, la settimana lavorativa effettiva si aggira da anni intorno alle 41 ore.
Nel 1930 l’economista John Maynard Keynes scriveva che nell’arco di cento anni, la settimana lavorativa si sarebbe ridotta fino a un massimo di 15 ore. Grazie alla crescita economica e al progresso tecnologico le persone sarebbero state in grado di soddisfare rapidamente i loro bisogni di consumo. Liberate dai vincoli economici, avrebbero avuto abbastanza tempo da dedicare all’arte e alla lettura dei filosofi. Questa previsione non si avverata. Nonostante l’aumento dei redditi e il benessere, l’offerta di lavoro (appunto, con l’eccezione dei pensionati) è diminuita molto meno di quanto Keynes avesse immaginato.
Lo Stato dovrebbe fare qualcosa al riguardo? Alcuni ne sono convinti e vorrebbero imporre la settimana di quattro giorni a tutti. Ma con quale giustificazione? Con il nostro comportamento mostriamo di valorizzare il lavoro (e i consumi che il lavoro ci permette di finanziare) più del
tempo libero supplementare.
Paradossalmente, sono proprio i redditi superiori – che più facilmente potrebbero ridurre l’orario di lavoro – a lavorare di più. Secondo dati dell’Ufficio federale di Statistica, il 10% dei dipendenti con i salari orari più elevati lavora circa 8 ore in più a settimana rispetto al 10% con i salari più bassi. Supponendo che la produttività e i salari continuino a crescere in futuro, questo modello potrebbe estendersi al ceto medio.
Tuttavia, lo Stato potrebbe assicurare che il lavoro venga meglio distribuito lungo il ciclo di vita, piuttosto che concentrarlo nella mezza età. L’aumento dell’età di pensionamento sarebbe un passo in questa direzione. Bisognerebbe anche rivedere il nostro sistema pensionistico in modo che i contributi sociali oltre l’età di pensionamento permettano di migliorare le rendite.
Forse dovremmo davvero fare quello che suggeriscono i filosofi – ma chiedere agli economisti come raggiungere al meglio questo obiettivo.
Questo podcast è stato pubblicato il 19.4.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
L’individualizzazione dell’imposta sul reddito è essenziale per fare progredire la parità sul mercato del lavoro
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Marco Salvi
La parità di genere passa per le tasse
PlusvaloreL’individualizzazione dell’imposta sul reddito è essenziale per fare progredire la parità sul mercato del lavoro
Tra le molte misure proposte per fare progredire la parità tra i sessi – dal linguaggio inclusivo agli asili nido gratuiti – la riforma dell’imposta sul reddito non è tra le più salienti. È un peccato perché il nostro sistema fiscale scoraggia inutilmente la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. E chi dice partecipazione limitata, dice progressioni di carriera più lente, differenziali salariali tra uomini e donne persistenti e, a termine, maggiori disuguaglianze pensionistiche. Insomma, nella lotta per la parità, l’aspetto fiscale è essenziale ma rimane sottovalutato.
L’imposizione congiunta del reddito delle coppie sposate, come la conosciamo in Svizzera, fa sì che chi guadagna il secondo reddito (in stragrande maggioranza si tratta di quello della donna) venga imposto ad un tasso più alto di quello del reddito primario.
Consideriamo l’esempio di una coppia sposata, residente a Bellinzona. Lui guadagna un salario netto di 50 000 franchi annui. Per questo compenso piuttosto basso la coppia pagherà 2000 franchi d’imposta sul reddito, pari a 4 percento del salario. Se ora la coniuge decidesse di lavorare a tempo pieno per un salario equivalente a quello del marito, questo reddito supplementare verrebbe imposto non al 4 ma bensì al 17 percento – un tasso ben quattro volte superiore all’aliquota del marito.
Questa differenza palese è dovuta al fatto che nel sistema attuale i due redditi vengono addizionati e tassati congiuntamente, non individualmente. Così il sistema fiscale dissuade le donne sposate a lavorare di più.
Il passaggio all’imposizione individuale dei redditi permetterebbe di rimediare a questo problema. Ma non solo. Esso eliminerebbe un altro annoso contenzioso tributario: voglio parlare della penalizzazione fiscale del matrimonio, ovvero del fatto che numerose coppie sposate pagano più tasse dei concubini. (Ciò si verifica soprattutto a livello dell’imposta federale diretta e per redditi medio-alti). Invece, l’imposizione individuale è indipendente dallo stato civile. Essa non penalizza ne favorisce le coppie sposate.
Una proposta di passaggio all’imposizione individuale dei redditi verrà discussa nei prossimi giorni dalla Commissione dell’Economia e dei Tributi del Consiglio Nazionale. La proposta è già stata accettata agli Stati, ma – come si può immaginare – l’iter di una riforma in profondità dell’imposta più importante del nostro sistema fiscale è ancora lungo e pieno d’inghippi. Come lo è sempre stata la lotta per la parità.
Questo podcast è stato pubblicato il 21.2.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
La pandemia è lungi dall’ essere terminata, ma da un punto di vista strettamente economico, il bilancio per le famiglie svizzere è tutt’ora moderatamente favorevole. Se consideriamo ad esempio gli indicatori comunemente usati per valutare la salute del mercato del lavoro, sono pochi i segnali negativi: il tasso di occupazione è tornato ai livelli pre-crisi, mentre la disoccupazione è in forte calo rispetto a un anno fa. Anche i salari reali non hanno vacillato: anzi, l’anno scorso, al culmine della crisi, sono aumentati dell’ 1,5% in termini reali.
Questo risultato piuttosto positivo non si applica però a tutti allo stesso modo. La crisi del Covid è unica in quanto ha colpito i vari settori di attività in modo molto differenziato. Nel settore alberghiero e nella ristorazione, così come nei servizi culturali e nei trasporti, il livello di attività rimane inferiore alla norma. L’ informatica, le attività immobiliari o la pubblica amministrazione sono invece in piena espansione.
La distribuzione quasi aleatoria di perdite e profitti non poteva che ravvivare il dibattito sulle disuguaglianze. Vale la pena ricordare che questo dibattito è stato finora principalmente alimentato dagli sviluppi nei paesi anglosassoni al seguito della crisi finanziaria. In Svizzera le disuguaglianze erano rimaste sostanzialmente invariate da due decenni a questa parte.
La pandemia sarà riuscita ad accentuare la disparità dei redditi anche da noi? Non si può rispondere a questa domanda senza considerare la vigorosa reazione dello stato. Nel 2020, sono stati versati 11 miliardi di franchi quali indennità di lavoro ridotto. Nel complesso, le prestazioni sociali sono aumentate di 21 miliardi di franchi, ovvero del 12%.
Sfortunatamente, in Svizzera mancano dati affidabili che ci permetterebbero di stimare gli effetti di queste prestazioni supplementari sulla distribuzione dei redditi. Tuttavia, diversi studi di questo tipo già esistono all’estero. Essi suggeriscono nel complesso che le politiche di sostegno varate durante la pandemia hanno più che compensato l’effetto regressivo della crisi sui redditi. In altre parole, senza il sostegno statale, la pandemia avrebbe fortemente esacerbato le disparità. Ma una volta preso in considerazione il notevole sostegno fornito dai governi, le disuguaglianze reddituali sono state tendenzialmente ridotte.
C’è chi teme che, una volta terminati i programmi d’assistenza straordinari, vi sarà un’impennata delle disuguaglianze. Non è detto. L’economia è ripartita. Mai in passato il numero di posti liberi è stato così alto: al terzo trimestre di quest’anno c’ erano in Svizzera 100 000 posti vacanti – un numero di poco inferiore a quello dei disoccupati. Non sarebbe la prima volta che la capacità di adattamento del mercato del lavoro svizzero ci sorprende positivamente.
Questo podcast è stato pubblicato il 10.1.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
In che misura la crisi pandemica rappresenta uno spartiacque per il mercato del lavoro elvetico?
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Marco Salvi
I postumi del Covid per l’impiego
PlusvaloreIn che misura la crisi pandemica rappresenta uno spartiacque per il mercato del lavoro elvetico?
Quali cambiamenti hanno un carattere temporaneo, quali invece sono permanenti? A ormai più di un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, l’interrogativo resta aperto. Uno sguardo retrospettivo agli indicatori chiave del mercato del lavoro evidenzia un impatto sorprendentemente contenuto del Covid-19: il tasso di attività ha segnato una flessione temporanea soltanto durante il primo lockdown e l’aumento massimo di 1,2 punti percentuali della disoccupazione a livello nazionale è stato relativamente moderato.
Tuttavia, il 2020 ha registrato un calo del volume di lavoro – vale a dire la somma delle ore effettivamente destinate all’attività produttiva – del 3,7%, una flessione più marcata rispetto a quella registrata durante la crisi finanziaria. Ad accusare maggiormente il colpo della pandemia sul mercato del lavoro sono stati i giovani adulti, i liberi-professionisti e i dipendenti part-time. Il neologismo «she-cession», che descrive una recessione prevalentemente sulle spalle delle donne, non ha invece trovato grande conferma nella realtà lavorativa svizzera. La pandemia ha tuttavia dimostrato che l’occupazione femminile continua a reagire in modo più sensibile alle crisi congiunturali.
Durante il primo lockdown, fino a un quarto degli occupati ha beneficiato del lavoro ridotto. Secondo una nostra analisi, pubblicata la settimana scorsa, senza questo strumento sarebbero spariti 120 000 impieghi e la disoccupazione avrebbe raggiunto quota un massimo del 5,5%. Ma ogni cosa ha il suo prezzo: oltre a costi nell’ordine di miliardi, il lavoro ridotto rischia sempre più di rimandare la disoccupazione a più tardi e di mantenere a caro prezzo uno status quo ormai cadùco.
Anche grazie a questi sostegni massicci, durante la crisi gli stipendi non hanno subito flessioni, al contrario: al netto dell’inflazione il livello salariale è aumentato nel 2020 dell’1,5% rispetto all’anno precedente. Al momento non ci sono segnali che indichino un chiaro esacerbarsi delle disparità retributive. L’analisi preliminare di dati ufficiali mostra che anche nelle classi più basse i salari sono aumentati. Fino ad ora i servizi dell’assistenza sociale non hanno segnalato alcun deterioramento delle condizioni economiche delle famiglie a basso reddito.
E che ne è delle abitudini lavorative: rimarrà il telelavoro? Mentre i sindacati temono tuttora che impatti negativamente sui dipendenti, la stragrande maggioranza dei lavoratori ha invece reagito al cambiamento in modo da positivo a molto positivo. Anche se la gente continuerà a «gettonare» l’home office quando ci saremo lasciati la pandemia alle spalle, il lavoro in presenza rimane insostituibile, soprattutto per i giovani, chi inizia un nuovo lavoro e le persone attente alla carriera. Ad approfittarne maggiormente saranno coloro che dispongono di qualifiche superiori, residenti nei centri urbani.
L’attuale legge sul lavoro costituisce però un ostacolo significativo a questa flessibilizzazione del lavoro, raggruppando infatti concetti e termini tipici dell’era industriale e resi ormai obsoleti dalla tecnologia, dai nuovi contenuti del lavoro e dalle abitudini dei lavoratori. Perché a volerla questa flessibilità non sono tanto le imprese, quanto i dipendenti stessi.
Questo podcast è stato pubblicato il 1.11.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Dopo il sì al «matrimonio per tutti» è ora di rimuovere un altro ostacolo alla vita coniugale: quello della tassazione congiunta dei redditi
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Marco Salvi
Tante vie portano all’imposizione individuale
PlusvaloreDopo il sì al «matrimonio per tutti» è ora di rimuovere un altro ostacolo alla vita coniugale: quello della tassazione congiunta dei redditi
Gli Svizzeri hanno recentemente detto di sì al «matrimonio per tutti» e hanno così fatto un passo supplementare verso le pari opportunità. Tuttavia, vi sono ulteriori ostacoli da rimuovere in un aspetto importante della vita coniugale: quello della tassazione. Oggi, la tassazione congiunta dei redditi delle coppie sposate fa sì che il reddito delle donne – nella stragrande maggioranza dei casi, sono loro a portare a casa il secondo reddito – venga tassato di più di quanto non sarebbe il caso con un’imposizione individuale. Questo svantaggio fiscale può anche tradursi in una penalizzazione del matrimonio rispetto al concubinato, specialmente se entrambi i partner guadagnano un importo simile. L’introduzione dell’imposizione individuale quindi non solo abolirebbe le disparità di trattamento tra le coppie sposate e quelle non sposate, ma migliorerebbe pure la parità di genere dal lato fiscale.
E non sono solo io a dirlo, ma un nuovo rapporto in materia, pubblicato qualche settimana fa dall’Amministrazione federale delle contribuzioni (AFC). Il rapporto è lungo e dettagliato: infatti, benché il principio fondamentale dell’imposizione individuale – quello di «una persona, una dichiarazione fiscale» – sia semplice, la sua applicazione concreta lo è molto meno. Come tenere conto di redditi prodotti in comune, quali certi redditi da risparmio? E che ne è delle deduzioni?
Ma come in ogni riforma fiscale, si tratta in primo luogo di trovare una soluzione che minimizzi il numero dei potenziali perdenti; di coloro insomma che, a riforma attuata, si ritroverebbero a pagare più imposte di adesso. Il rapporto mostra che un passaggio «indolore» all’imposizione individuale, cioè senza praticamente perdenti rispetto alla situazione attuale, è possibile… ma costa. Esso stima le perdite fiscali a circa un miliardo e mezzo di franchi l’anno, perdite che dovrebbe venire poi compensate da aumenti di altre imposte.
Dal lato dei benefici, l’introduzione della tassazione individuale inciterebbe 300 000 donne ad aumentare del 20 percento le ore lavorate. Questo aumento dell’occupazione femminile migliorerebbe le opportunità di carriera, come pure la sicurezza finanziaria delle donne durante la vecchiaia.
L’analisi degli economisti dell’AFC evidenzia insomma che non esiste un modello unico di tassazione individuale. La scelta tra i vari modelli è fondamentalmente politica. Ma indipendentemente da queste scelte, è indubitabile che l’introduzione della tassazione individuale sarebbe un altro passo importante verso una maggiore uguaglianza di opportunità tra uomini e donne.
Questo podcast è stato pubblicato il 18.10.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Marco Salvi
Valore locativo – l’imposta incompresa
Plusvalore
Un progetto di legge vuole abolire la tassazione del valore locativo. Una buona idea?
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Marco Salvi
Valore locativo – l’imposta incompresa
PlusvaloreUn progetto di legge vuole abolire la tassazione del valore locativo. Una buona idea?
È da decenni oramai che l’ abolizione della tassazione del valore locativo viene annunciata come imminente – e questa volta sarà forse quella buona. Un progetto al riguardo verrà discusso nella sessione autunnale delle Camere federali. Secondo questa proposta, in futuro non verrà più tassato il valore locativo della proprietà primaria occupata dal proprietario. Allo stesso tempo, non sarà più possibile dedurre dal proprio reddito imponibile gli interessi ipotecari e le spese di manutenzione.
Il problema principale del reddito locativo è che si tratta di un concetto difficile da spiegare. Io ci provo: esso rappresenta il reddito in natura che il proprietario di una casa paga a se stesso per l’ uso della casa. Chi affitta una casa e ne trae reddito, vede questo reddito imposto normalmente. L’imposizione del valore locativo garantisce così l’ uguaglianza di trattamento fiscale tra gli immobili occupati dal proprietario e quelli in affitto.
In termini economici il valore locativo è di notevole entità. Quasi il 40% delle Svizzere e degli Svizzeri vive nella propria casa. Uno studio del 2014 stimava che il valore locativo rappresenta circa il 7% del prodotto interno lordo (PIL), cioè circa 50 miliardi di franchi all’ anno. Dal punto di vista delle entrate fiscali, l’importanza è minore perché il valore locativo può essere ridotto con la deduzione degli interessi ipotecari e dei costi di manutenzione. Ciononostante, parliamo di qualche miliardo di franchi all’anno che finiscono nell’erario di Confederazione, Cantoni e Comuni a titolo dell’imposizione del valore locativo.
Alcuni ritengono che il sistema attuale favorisca l’indebitamento. Non ne sono così sicuro. L’indebitamento ipotecario degli Svizzeri è sì fra i più alti al mondo – quasi mezzo milione per proprietario. Ma non dimentichiamo che a fronte di questi debiti stanno attivi immobiliari del valore medio superiore al milione. Se raffrontiamo gli uni agli altri, l’indebitamento ipotecario degli Svizzeri è nella norma.
Al momento, il trattamento fiscale degli immobili residenziali occupati dai proprietari è fondamentalmente simile a quello di tutti gli altri tipi d’investimento. Meritano le case proprie una soluzione fiscale completamente diversa? Se il valore locativo è difficile da capire, lo è anche la ragione per cui si dovrebbe ora a tutti i costi creare una nuova eccezione.
Questo podcast è stato pubblicato il 4.10.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Questa crisi è femminile. Che le donne siano state più colpite dalla contrazione economica che ha accompagnato la pandemia da Covid-19 lo si è detto e ripetuto, tanto che i social media hanno coniato un neologismo, quello della «she-cession», derivata dalla parola inglese «recession» e dal pronome femminile.
Ma cosa dicono i dati? Secondo un’analisi del Fondo Monetario Internazionale (FMI), durante il primo lockdown nella primavera del 2020, in due terzi dei paesi studiati l’occupazione femminile è stata più severamente colpita dalla crisi di quella maschile. Anche in Svizzera, si è allora registrato un tasso di occupazione delle donne maggiormente in ripiego rispetto a quello degli uomini.
Sono due le ragioni principali per questa reazione asimmetrica:
La prima è dovuta alla concentrazione dell’impiego femminile nel settore dei servizi. Le donne sono tradizionalmente sovrarappresentate nella ristorazione, nel commercio al dettaglio e nelle attività culturali – settori questi che hanno sofferto maggiormente durante il lockdown. Nell’industria invece, dove l’impatto della crisi in Svizzera si è fatto meno sentire, sono gli uomini ad essere in maggioranza.
Inoltre, le donne si sono assunte una quota maggiore delle cure supplementari ai figli, rese necessarie dalle chiusure delle scuole e dalle messe in quarantena. Secondo un sondaggio commissionato dall’Ufficio federale per l’uguaglianza di genere, nel maggio 2020, il 37% delle madri (con figli sotto i 16 anni) dichiarava di avere ridotto le proprie attività lavorative a causa delle maggiori esigenze di cura dei figli, contro il 25% dei padri.
La recessione al femminile, fortunatamente, è stata di breve durata. Già a partire dall’estate dell’anno scorso, il tasso di occupazione ha recuperato il terreno perso, e ciò è avvenuto più velocemente per le donne che per gli uomini. Inoltre, il tasso di disoccupazione femminile è sempre stato inferiore a quello maschile. Nel complesso, il numero totale di ore lavorate retribuite è diminuito allo stesso modo per entrambi i sessi.
La «she-cession», anche se breve, ha messo in evidenza la reattività dell’impiego femminile alla (mancata) disponibilità di strutture di accoglienza. Ciò può essere interpretato in maniera negativa, quale un ulteriore espressione delle disparità tra i sessi. Ma mostra pure che incentivi fiscali adeguati – quali ad esempio maggiori deduzioni per le cure esterne o il passaggio all’imposizione individuale dei redditi – indurrebbero molte donne ad aumentare la loro partecipazione al mercato del lavoro.
Questo podcast è stato pubblicato il 20.09.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Negli ultimi anni, sono state numerose le denunce delle condizioni di lavoro di chi cerca di sbancare il lunario nella «gig economy» – l’economia dei lavoretti procurati su piattaforme online: consegne a domicilio, utilizzo della propria auto come servizio taxi, o riparazioni casalinghe svolte di volta in volta su richiesta di clienti. A queste preoccupazioni si sono aggiunte quelle per l’esternalizzazione di dipendenti, poi più o meno costretti a lavorare in subappalto per la stessa ditta. Tutti in coro a denunciare nuove modalità di lavoro «atipiche», caratterizzate da un’indipendenza fittizia e una sicurezza dell’impiego minima.
Ma quale è l’impatto effettivo di queste forme di impiego sull’occupazione in Svizzera? Per tentare di quantificare queste attività è utile guardare all’evoluzione dei cosiddetti lavoratori autonomi senza dipendenti, una categoria che appunto include i collaboratori freelance, ma anche i classici liberi professionisti.
Ebbene, un’analisi dei dati della Rilevazione sulle forze di lavoro (RIFOS) non trova alcuna conferma della maggiore prevalenza di forme d’impiego «non-standard» nel nostro paese. Al contrario, in Svizzera il lavoro autonomo sarebbe piuttosto in ritirata. Sebbene rispetto al 2001 si contino oggi 14 000 lavoratori autonomi in più, durante lo stesso periodo i salariati sono aumentati di oltre 760 000 unità. Vi è stato quindi un declino relativo del lavoro autonomo; declino che si registra in tutti i gruppi professionali.
E che ne è dei redditi? Con circa 48 franchi all’ora, il salario degli indipendenti autonomi è superiore alla media. Tuttavia, la distribuzione di questi redditi è ineguale: sono sovrarappresentati sia nelle fasce di reddito più basse che in quelle più elevate. Ciononostante, il 67% si dice molto soddisfatto del proprio lavoro. Solo il 6% non trova contentezza alla propria situazione lavorativa e preferirebbe passare ad un lavoro dipendente. Questo a riprova che il lavoro autonomo offre anche benefici non-monetari, quali l’indipendenza e flessibilità.
L’inchiesta mostra infine che i lavoratori autonomi senza dipendenti formano un gruppo molto eterogeneo. In questo senso, si tratta di una forma di lavoro davvero atipica. Riguardo ai numeri però, nelle statistiche dell’occupazione il boom della «gig economy» ancora non si vede.
Questo podcast è stato pubblicato il17.05.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
La pandemia da Coronavirus e i suoi effetti sul mercato del lavoro potrebbero aggravare la disoccupazione tecnologica? Secondo un recente sondaggio del World Economic Forum (WEF), l’80 percento delle grandi imprese prevede di accelerare a corto termine il processo di robotizzazione e automatizzazione. Quasi la metà di esse prevede che questo processo porterà alla soppressione di posti di lavoro. È forse ora di lanciare un’offensiva di formazione continua su larga scala anche nel nostro paese?
Penso bisogni rispondere a questi importanti interrogativi in maniera differenziata. Non è da ieri che il progresso tecnologico contribuisce a trasformare il mercato del lavoro svizzero. Basti osservare il cambiamento dei profili e dei curriculi richiesti e l’impennata della domanda di personale altamente qualificato. Se nel 1996 650 000 occupati esercitavano una professione accademica, nel 2019 erano già 1,25 milioni. Le categorie professionali con qualifiche intermedie hanno invece segnato una flessione, primi fra tutti gli artigiani. In linea generale, negli ultimi 25 anni le prospettive di carriera dei lavoratori con apprendistato professionale ma senza specializzazione di livello terziario sono peggiorate.
Eppure, tutti questi cambiamenti non hanno portato ha un aumento della disoccupazione. Questo lo si deve anche alla capacità degli occupati a formarsi e specializzarsi. In linea di principio, la Svizzera ha un’ottima offerta di formazione continua e un elevato tasso di adesione, per cui una promozione generale in tal senso non mi sembra necessaria.
La propensione alla formazione continua e allo studio informale dipende tuttavia molto dal livello di istruzione. Paradossalmente, maggiori già sono le qualifiche, più elevata è l’attività formativa. Insomma: chi già sa, vuole sapere di più. In questi termini, la postformazione non colma il divario educativo tra i gruppi, ma anzi lo esacerba. Così, determinate fasce di lavoratori non partecipano del tutto alla formazione permanente, mettendo in pericolo la loro impiegabilità a lungo termine. Questo segmento dovrebbe essere avvicinato in modo mirato alle opportunità di riqualifica.
Strumenti particolarmente adatti in tal senso sono i buoni di postformazione e i prestiti per le riqualificazioni di lunga durata. Altri strumenti invece, come le deduzioni fiscali delle spese per la formazione continua non si prestano a sostenere la riconversione professionale poiché vanno principalmente a vantaggio di persone con salari elevati, che peraltro non denotano carenze motivazionali in campo formativo.
Questo podcast è stato pubblicato il 03.05.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
L’invecchiamento della popolazione è una causa principale dell’aumento delle disparità patrimoniali
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Marco Salvi
Più anziani – e disuguali
PlusvaloreL’invecchiamento della popolazione è una causa principale dell’aumento delle disparità patrimoniali
In Svizzera la distribuzione dei salari è assai uniforme. Ad esempio, se consideriamo gli occupati a tempo pieno, la differenza tra bassi e alti salari è da noi meno marcata che in quasi tutti i paesi membri dell’OCSE, il club dei paesi ricchi. Per quanto riguarda invece la distribuzione della ricchezza, ovvero del patrimonio economico (il quale ingloba la totalità degli attivi finanziari e immobiliari), la Svizzera si distingue per una disuguaglianza più pronunciata della media, anche se le statistiche al riguardo sono parecchio lacunose.
È però indiscutibile che le disparità di ricchezza sono aumentate negli ultimi 20 anni. Questo aumento si manifesta molto concretamente a chi oggi vuole acquistare una casa. Se nel 2000 per acquistare una casa media bisognava sborsare circa 7 volte il salario annuale, ora ne sono necessari più di dieci. Il prezzo delle case è salito durante gli ultimi vent’anni molto più velocemente dei redditi, il che tendenzialmente ha accentuato le differenze patrimoniali tra chi è proprietario e chi è rimasto inquilino.
Ma quali le ragioni profondi di questa evoluzione, del resto per nulla specifica al nostro paese? Una risposta la fornisce un gruppo di economisti americani che ha recentemente studiato l’effetto dell’evoluzione demografica sul risparmio.¹ La loro conclusione: nella maggioranza dei paesi, l’aumento delle disuguaglianze di patrimonio può essere ricondotto direttamente all’invecchiamento della popolazione.
Patrimonio e i risparmi, ancora più di salari e redditi, hanno infatti una forte componente demografica. La situazione di una trentenne – che ha accumulato ancora pochi risparmi, ma ha davanti una lunga carriera professionale – è all’opposto di quella del sessantenne che si avvicina piano piano al pensionamento, e quindi subirà presto una diminuzione drastica dei redditi da lavoro, ma che può contare su risparmi ben più sostanziosi.
Ebbene, con l’invecchiamento della popolazione è fortemente aumento il numero di quest’ultimi a scapito dei primi. L’abbondanza di risparmi ha fatto crollare i tassi d’interesse e salire i prezzi immobiliari. E con essi anche le disuguaglianze di ricchezza.
¹Adrien Auclert, Hannes Malmberg, Frédéric Martenet e Matthew Rognlie (2020). «Demographics, Wealth, and Global Imbalances in the Twenty-First Century».
Plusvalore
Un sorprendente rilievo dell’Ufficio federale di Statistica
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Marco Salvi
La povertà non si può ridurre a un solo numero
PlusvaloreUn sorprendente rilievo dell’Ufficio federale di Statistica
Qualche settimana fa, un rilievo dell’Ufficio federale di Statistica mi ha sconcertato: in Svizzera, nel 2019, ben il 20% della popolazione non poteva permettersi una spesa imprevista di 2500 franchi. A giudicare dalle numerose reazioni indignate sui social media, non ero il solo a trovare questo fatto sorprendente: ma com’è possibile che nella ricca Svizzera ciò sia sufficiente a mettere in difficoltà finanziarie un quinto della popolazione?
Prima di svelare «l’inghippo», vengo subito alle conclusioni: la povertà è un fenomeno complesso e sfaccettato che non si può ridurre a un singolo dato numerico, sconcertante o meno. Gli specialisti lo sanno da tempo, ed è proprio per questo che l’Ufficio federale di Statistica non solo misura la povertà reddituale ma cerca anche di rilevare le cosiddette «deprivazioni materiali», tra le quali appunto la capacità di far fronte a spese impreviste.
Che il reddito spesso non basti a identificare ricchi e poveri lo dimostra la situazione dei pensionati. Mentre il 17% ha un reddito inferiore alla soglia di povertà, appena il 3% giudica la propria situazione finanziaria «poco soddisfacente». Questo divario si spiega in gran parte con la mancata presa in considerazione della situazione patrimoniale dei senior, spesso più favorevole. La statistica della povertà fa ad esempio fatica a valutare precisamente il livello di vita di chi abita nella propria casa.
La situazione è inversa per quanto riguardo le «deprivazioni materiali»: qui sono i giovani sotto i 25 anni a patirne più frequentemente, mentre il loro tasso di povertà reddituale è nella media. Ciò si spiega con il fatto che mentre il sostegno dei genitori al reddito dei giovani viene conteggiato nelle statistiche sulla povertà di reddito, non lo è per quanto riguarda la famigerata domanda sulle spese impreviste, dove anzi si specifica esplicitamente che va escluso l’eventuale sostegno dei famigliari.
Forse, il modo migliore per giudicare della diffusione della povertà in Svizzera rimane il paragone con altri paesi. E qui la situazione è senza dubbio assai favorevole, sia per quanto riguardo il reddito che le deprivazioni materiali. Nel confronto europeo, il tasso di deprivazione materiale in Svizzera è nettamente inferiore alla media e i valori di tutti i paesi limitrofi sono pari o superiori al nostro.
Questo podcast è stato pubblicato il 05.04.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Davvero in crescita il divario tra ricchi e poveri?
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Marco Salvi
Pandemia e disuguaglianze
PlusvaloreDavvero in crescita il divario tra ricchi e poveri?
È oramai opinione comune che la pandemia di Covid-19 stia accentuando le disuguaglianze, sia a livello nazionale che a livello globale. Ciò è indubitabile per quanto riguarda le disuguaglianze di salute: la probabilità di contrarre una forma severa o addirittura letale della malattia non è la stessa per ognuno; i rischi sono fortemente concentrati nelle fasce d’età più anziane. Che ne è però delle disuguaglianze economiche? Certo, l’economia è in recessione, ma davvero cresce il divario tra ricchi e poveri?
In Svizzera i dati sono ancora lacunosi. Un recente sondaggio della SSR registrava un calo del 20 percento per i redditi inferiori ai 4000 franchi, diminuzione concentrata tra i giovani occupati. I redditi medi e superiori sarebbero invece solo in leggero ribasso rispetto a un anno fa. Oltre un terzo dei posti a basso salario si concentra nei comparti del commercio al dettaglio, della gastronomia e dell’ospitalità alberghiera, settori questi maggiormente colpiti dai lockdowns. Dall’altro canto non va dimenticato che questi settori hanno potuto fino ad ora contare su aiuti statali più generosi. Bisogner à quindi attendere i resoconti statistici ufficiali per stabilire una diagnosi affidabile sull’andamento dei redditi dopo tasse e delle disuguaglianze post-fisco nel nostro paese.
E a livello globale? Anche qui i dati sono ancora provvisori, ma sembrerebbe che si contino più decessi (in rapporto alla popolazione) nei paesi ricchi che in quelli poveri o emergenti – e ciò malgrado sistemi sanitari più avanzati e un apparato amministrativo ben più esteso e sofisticato. Secondo una recente analisi di Angus Deaton, già premio Nobel di economia, i paesi con il più gran numero di decessi da Covid (tra i quali figurano la Spagna, il Regno Unito o il Belgio) hanno anche subito un declino più marcato dell’attività economica e dei redditi. Di conseguenza, almeno fino ad ora, il reddito medio pro capite è diminuito maggiormente nei paesi ricchi – più colpiti dalla pandemia – che in quelli poveri e emergenti.
Insomma, la pandemia ha peggiorato la situazione di moltissime persone, in Svizzera e nel mondo. Quasi certamente c’è stato un aumento della povertà globale. Ma questo non implica ancora nulla delle disuguaglianze economiche.
Questo podcast è stato pubblicato il 08.02.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
La settimana scorsa è stata pubblicata la tradizionale analisi Vox dell’istituto di ricerca bernese GfS riguardante le votazioni popolari del 29 novembre 2020. Condotta su un campione di tremila persone, l’analisi cerca di approfondire le motivazioni dei votanti. Secondo lo…
La settimana scorsa è stata pubblicata la tradizionale analisi Vox dell’istituto di ricerca bernese GfSriguardante le votazioni popolari del 29 novembre 2020. Condottasu un campione di tremila persone,l’analisicerca di approfondire le motivazioni dei votanti. Secondo lo studio,l‘iniziativa popolare “Per imprese responsabili”, fallita per la mancata maggioranza dei cantoni, ha ottenuto quella dei voti grazie al forte sostegno della sinistra, dei giovani, delle zone urbane e delle persone con formazione superiore impiegate a tempo parziale.Il divario di genere è statomolto più marcato del solito: se avessero votato soltanto le donne, l’iniziativa sarebbe stata approvata al 57%.
Ma il risultato più interessante dello studio èsecondo me un altro. Mentre il sondaggio attesta un altissimo livello di fiducia nelle organizzazioni di aiuto allo sviluppo e di difesa dei diritti umani, la percezione dell’agire delle imprese multinazionali è tutt’altro che positiva. Quasi la metà degli elettori e delle elettrici esprime livelli molto bassi di fiducianelle imprese, con note tra lo zero e il quattro. La sfiducia dei votanti non si limita quindi alle imprese attivenell’estrazione delle materie prime; essa si estende all’intero gruppo delle multinazionali svizzere.
Eppure, c‘è parecchio di buono nella ondata di globalizzazione pacifica del commercio, degli investimenti e dei flussi migratori degli ultimi decenni. Nello spazio di una generazione, più di un miliardo di persone sono uscite da una situazione di povertà estrema. Grazie alla rapida crescita economica in Asia (e più recentemente in molti paesi africani) siamo stati testimoni di una riduzione delle disuguaglianzesenza precedenti in tempo di pace. Questi risultati dovrebbe influenzare il nostro giudizio morale su uno degli attori chiavi della globalizzazione – le multinazionali appunto.
La globalizzazione non è immaginabile senza imprese transfrontaliere. Nei paesi più poveri, esseforniscono spesso l’unico canale affidabile per finanziare investimenti a lungo termine egiocano un ruolo cruciale nella diffusione delle conoscenze e delle buone pratiche di gestione –per citare solo alcuni aspetti evidenziati negli ultimi anni dagli economisti dello sviluppo. Tanto che mi sento di affermare che nel nostro paese,le multinazionali,dal punto di vista morale,sonooramai decisamente sottovalutate.
Questo podcast è stato pubblicato il 25.01.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.