L’abbandono repentino dei negoziati per un accordo quadro con l’UE, annunciato la settimana scorsa dal Consiglio Federale, è stato già ampiamento commentato. Per gli uni si tratta di una decisione storica, di portata simile a quella del Brexit per il Regno Unito. Secondo gli altri invece le conseguenze di un non-accordo rimarranno impercettibili alla stragrande maggioranza dei cittadini svizzeri.
Difficile oggi dire chi abbia ragione, anche se temo che la verità sia più vicina ai primi che ai secondi. Mi pare però chiaro che questa decisione si possa inserire in una tendenza isolazionistica risentita anche altrove, tendenza che paradossalmente trova le sue origini nel paese che spesso viene rappresentato (a torto) come il motore della globalizzazione: ovvero gli Stati Uniti.
O questa perlomeno è la tesi dell’economista americano Adam Posen, esposta con brio in un recente articolo nella prestigiosa rivista «Foreign Affairs». A riprova della sua tesi, Posen sottolinea come il rapporto commercio estero/PIL sia cresciuto negli USA più lentamente che in molti altri paesi – passando dal 20% nel 1990 al 30% nel 2008 – rimanendo però sempre ben al di sotto della media globale. Questo rapporto è poi sceso a partire dalla crisi finanziaria, e non si è ancora ripreso.
Il revival del protezionismo precede anche lo «shock cinese» conseguente all’ingresso nel 2001 della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Secondo una tesi sostenuta sia da Trump che dal suo successore Biden, i lavoratori americani ne avrebbero sofferto gravemente gli effetti, soprattutto nell’industria. Gli economisti stimano invece che la concorrenza cinese abbia causato la perdita di 130 000 posti di lavoro nell’industria all’anno: una bazzecola se paragonata al turnover del mercato del lavoro USA, dove si contano annualmente 60 milioni di disdette di contratto di lavoro.
Anche qui i paralleli con la situazione svizzera sono manifesti. Da noi lo shock non è stato quello cinese, ma piuttosto quello legato alla libera circolazione e maggiore integrazione istituzionale con l’UE. E se negli USA lo scetticismo rispetto al commercio e agli investimenti internazionali è stato accompagnato all’interno da una politica di stampo neoliberista, tra gli oppositori più accaniti all’accordo quadro con l’UE si trovano parecchi fautori del meno Stato.
Per Posen le tendenze protezionistiche ancora non sono maggioritarie a livello internazionale. In Asia o buona parte dell’Europa, la globalizzazione degli scambi e l’integrazione dei mercati proseguono senza troppi inghippi. Esse sono accompagnate da un rafforzamento dello stato sociale, non dal suo smantellamento. Ma la nostalgia per un’economia che non c’è più – e per le politiche che la sostenevano – oramai non si può più ignorare.
Questo podcast è stato pubblicato il 31.05.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Un’economia con priorità al «locale» non aiuterà
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Marco Salvi
Combattere il virus protezionistico
PlusvaloreUn’economia con priorità al «locale» non aiuterà
Con il diffondersi a livello planetario del coronavirus si è rafforzato il protezionismo, quella politica economica volta a proteggere l’economia nazionale dalla concorrenza estera. Questa tendenza si delineava in realtà da tempo. Negli ultimi dieci anni, il numero di nuove misureprotezionistiche è aumentato in tutto il mondo. Il volume del commercio internazionaleè rimastoin crescita, ma con ritmi rallentati.Se prendiamo come misura il rapporto tra flussi commerciali e prodotto interno lordo (PIL), il processo di globalizzazione ha raggiunto il suo apice già nel 2008. Da allora ci troviamo in una nuova era commerciale, talvolta chiamata«slowbalization».
Preoccupazioni riguardanti la sicurezza nazionale e la salute pubblica stanno fornendo nuoviargomenti ai protezionisti, anche se è accertato che il virus non si diffonde tramitelo scambio di merci. Responsabili politici e leader aziendali si stanno ora chiedendo se le «supply chains»–e cioè le catene di fornitura globali– non siano state allungate troppo. In un clima politico in cui la cooperazione internazionale è ridotta al minimo, sono in molti a volerelimitarele interdipendenze economiche.Persino in Svizzera, uno dei paesi più globalizzati al mondo e che più approfitta dalla divisione internazionale del lavoro, vi sono voci prominenti che sognano di un’economia con priorità al «locale».
Bisogna resistere a queste tendenze in modo fermo e deciso.Rincorrere il sogno autarchicoporterà a notevoli perdite di reddito, non solo per le aziende, ma anche per noi consumatori, con pochi benefici in termini di sicurezza. Anzi, i recenti divieti di esportazione di materiale medico di protezionehanno contribuito a fare aumentare prezzi a livello mondiale, accentuando cosìcarenze e scarsità. A livello agricolo, l‘accento politico portato in Svizzera sul grado di autosufficienza non contribuisce ad aumentare la sicurezza dell’approvvigionamento del paese.Intensificare la produzione di derrate alimentari in Svizzera non sarebbe possibile senza un aumento delle importazioni di concimi, mangimi concentrati, prodotti fitosanitario trattori– tutti beni che la Svizzera non produce.
Meglio diversificare e moltiplicare l’accesso alle fonti di approvvigionamento e concludere nuovi accordi di libero scambio, ad esempio con il Mercosur, il mercato comune dell’America Latina.Avere più fonti d’approvvigionamento e di diffusione rimane la migliore strategia per aumentare la resilienza della nostra economia. Le catene di approvvigionamento globalisono in realtà più robuste diquelle nazionaliperché possono riparare gli anelli rotti, sostituendo una fonte in un paese colpito con una fonte alternativa in un altro paese.È proprio perché le pandemie sono fenomeni globaliche la collaborazione spontanea tra aziende e consumatori in tutti i paesi èoggi più preziosa che mai.
Questo podcast è stato pubblicato il 18.05.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore
Ha di che preoccupare ogni buon economista il fatto che al primo turno delle elezioni presidenziali francesi ben il 40 percento degli elettori abbia votato per due candidati, Marine Le Pen et Jean-Luc Mélenchon, i quali promettevano una politica improntata a un nazionalismo economico puro e duro, fondamentalmente opposta agli scambi commerciali internazionali.
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Ha di che preoccupare ogni buon economista il fatto che al primo turno delle elezioni presidenziali francesi ben il 40 percento degli elettori abbia votato per due candidati, Marine Le Pen et Jean-Luc Mélenchon, i quali promettevano una politica improntata a un nazionalismo economico puro e duro, fondamentalmente opposta agli scambi commerciali internazionali.
Il voto francese avrebbe certamente preoccupato David Ricardo, che con la pubblicazione avvenuta esattamente 200 anni fa del suo libro “On the Principles of Political Economy and Taxation”, poneva più di ogni altro le basi intellettuali per la difesa del commercio internazionale. In quest’opera Ricardo enunciava per la prima volta un concetto diventato oramai indispensabile per capire i benefici della globalizzazione: il principio dei vantaggi comparati.
In sostanza, il principio sostiene che ogni nazione, non importa quanto avanzata o povera, produttiva o meno, trae beneficio dal commercio con altri paesi. Alla nazione più produttiva – ai tempi di Ricardo era il Regno Unito – non conviene infatti esportare ogni prodotto, ma soltanto quelli per i quali detiene un vantaggio comparato. Paradossalmente, persino il paese più produttivo avrà ogni interesse a importare beni che sarebbe perfettamente in grado di produrre in modo più efficiente rispetto ai concorrenti esteri. Allo stesso modo, anche ai paesi con livelli di produttività inferiori su tutti i fronti converrà specializzarsi nell’esportazione di quei beni per i quali la differenza di produttività con le altre nazioni è minore. In parole povere, con il principio dei vantaggi comparati Ricardo spiega come sia sempre opportuno specializzarsi nell’attività che svolgiamo meno peggio delle altre.
Nel corso degli ultimi 200 anni, innumerevoli economisti hanno chiarito, approfondito e anche relativizzato il concetto ricardiano dei vantaggi comparati. A un livello fondamentale però il messaggio è rimasto lo stesso: è nell’interesse di tutte le nazioni, persino delle più povere, commerciare tra di loro. Il voto francese ci ricorda che nel corso di questi due secoli gli economisti non sono riusciti a convincere gran parte del pubblico. Ma non disperiamo.
Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 24 aprile 2017 del programma «Plusvalore». Per gentile concessione di «RSI Rete due».