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Non vi sono contromisure mirate alle riforme imposte alla Svizzera in materia di tassazione delle imprese. Ciò non ci condanna però alla passività
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Marco Salvi
Imposta minima OCSE: un rospo da ingoiare
PlusvaloreNon vi sono contromisure mirate alle riforme imposte alla Svizzera in materia di tassazione delle imprese. Ciò non ci condanna però alla passività
La settimana scorsa il Consiglio federale ha avviato le consultazioni relative all’introduzione di un’imposta minima di 15 per cento sui benefici delle imprese. Con questa ennesima riforma dell’imposizione delle imprese, la Svizzera vuole (o piuttosto: deve) adeguarsi alle nuove norme in materia dettate dal G20 tramite l’OCSE.
L’imposta minima colpirà in primo luogo le filiali di multinazionali straniere nel nostro paese, insediatesi in gran numero durante gli ultimi venti anni. Anche il Ticino è toccato direttamente: pensiamo solo all’industria della moda che vi risiede in parte per motivi fiscali e genera un indotto notevole.
La misura più sostanziale proposta dal Consiglio Federale è tanto semplice quanto scontata. Laddove l’imposizione di un’impresa multinazionale non raggiungesse i 15 per cento imposti dall’OCSE, sarà prelevata dalla Confederazione un’imposta integrativa, poi riversata ai Cantoni. Così si vuole evitare che siano paesi terzi ad intascare il gettito supplementare.
Secondo stime dell’Amministrazione federale delle contribuzioni (AFC), l’imposta aggiuntiva potrebbe generare fino a due miliardi e mezzo di entrate all’anno, il che rappresenta un aumento di più del dieci percento delle entrate relative all’imposta sui benefici. Questo aumento sarà inoltre concentrato su qualche migliaio di filiali di imprese multinazionali estere stabilite in Svizzera e su poche centinaia di multinazionali svizzere.
Molti esperti temono che una parte sostanziale delle filiali straniere potrebbe a medio o lungo termine lasciare la Svizzera, visto che il livello favorevole di tassazione è una delle ragioni principali per la loro presenza. E così gli esperti hanno proposto una lunga lista di misure da prendere per cercare di frenare le delocalizzazioni.
Nessuna di queste misure convince però – perché nessuna è abbastanza mirata. Ad esempio, c’è chi propone di ridurre le aliquote massime dell’imposta sul reddito delle persone. Ma ciò non avrebbe che un effetto marginale sulla decisione delle imprese di rimanere o meno. Esse, infatti, non mantengono effettivi di personale importanti nel nostro paese, limitandosi a posizioni decisionali – pagate certo molto bene, ma di poco conto se confrontate ai costi globali delle imprese.
Una misura tra le più specifiche sarebbe quella di ridurre l’imposizione dei dividendi. I benefici delle imprese vengono oggi imposti due volte, una prima volta a livello dell’impresa con l’imposta sui benefici e una seconda volta a livello degli azionisti. Perché non ridurre questa doppia imposizione, come già lo hanno fatto numerosi altri paesi? Ahimè, l’imposizione dei dividendi in Svizzera è appena stata ritoccata – ma verso l’alto. Un’inversione a U sembra improbabile.
Più importante ancora: la stragrande maggioranza degli azionisti delle imprese multinazionali con sede in Svizzera risiede all’estero e non ricaverebbe nessun vantaggio da una diminuzione dell’imposizione dei dividendi in Svizzera.
Ciononostante, il Consiglio Federale dovrebbe avere il coraggio di rimettere questo dossier sul tavolo. Certo, ciò non frenerebbe la partenza di imprese che si sono stabilite da noi principalmente per motivi fiscali. Ma a lungo termine rafforzerebbe l’attrattività imprenditoriale svizzera e la capacità di investimento delle nostre imprese. E questo sarebbe tutto quanto di guadagnato.
Questo podcast è stato pubblicato il 21.3.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
La decisione dei ministri delle finanze del G7, in riunione la settimana scorsa a Londra, di introdurre un tasso d’imposizione minimo sul beneficio delle società multinazionali è stata accolta con inquietudine dagli ambienti economici svizzeri. Non è tanto l’aliquota minima del 15 percento a preoccupare. Essa non supera di molto quanto già oggi in vigore in quei cantoni che contano una presenza numerica rilevante di imprese multinazionali. Di portata ben maggiore è invece la decisione presa a Londra di modificare fondamentalmente il modo di imporre i profitti, con il rischio di rendere obsoleto un sistema globale di tassazione cresciuto organicamente nell’arco di oramai un secolo.
In effetti, sono pochi oggi a ricordare che quasi tutti gli accordi internazionali vigenti in materia di fiscalità hanno un antenato comune: il modello di convenzione sviluppato nel primo dopoguerra a Ginevra dalla Società delle Nazioni, l’antenato delle Nazioni Unite. Allora – come oggi – si trattava di evitare la doppia imposizione dei profitti delle imprese, spesso tassati sia alla fonte (cioè nel paese dove vengono generati) che nel paese di residenza dell’impresa e dei suoi proprietari. Questo problema di doppia imposizione, nefasto agli investimenti e quindi allo sviluppo economico, fu risolto dando la precedenza all’imposizione dei benefici alla fonte.
Con il passare del tempo, questo principio fondamentale ha incoraggiato molti paesi – tra cui la Svizzera – a offrire tassi preferenziali a imprese internazionali qualora esse decidessero di spostare la creazione di valore nel paese in questione. Da un lato ciò ha indubbiamente stimolato gli investimenti. Dall’altro, il sistema ha incoraggiato pratiche di «profit shifting», ovvero di trasferimento puramente nozionale di profitti da un paese all’altro, senza corrispondenza economica tangibile.
Ciò ha fatto nascere l’idea, presentata al G7, di imporre le imprese non dove i profitti sono creati ma bensì dove l’azienda fa le sue vendite, con il presupposto che questo limiterebbe le capacità di «shifting». Purtroppo, questo cambiamento di paradigma non garantisce per nulla che si eviti la (nefasta) doppia imposizione. Inoltre, esso avvantaggia chiaramente i paesi più grandi, che dispongono di mercati importanti, a scapito di quelli più piccoli.
Difficile invece giudicare l’impatto effettivo sulle entrate fiscali per i paesi che si sentono più lesi dal sistema oggi in vigore, primi fra tutti gli Stati Uniti. A livello globale, il gettito dell’imposta sui benefici delle imprese è rimasto più o meno costante, e non è per niente detto che i nuovi piani del G7 faranno aumentare gli introiti in modo significativo. Poca cosa, comunque, se raffrontata al rischio creato dall’abbandono dei principi centenari fissati nei trattati modello ginevrini, trattati che hanno contribuito fortemente al processo di globalizzazione dell’economia mondiale.
Questo podcast è stato pubblicato il14.06.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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La settimana scorsa è stata lanciata l’iniziativa popolare federale per l’introduzione di una “microtassa” sui pagamenti senza contanti, iniziativa che si propone di rivoluzionare il nostro sistema fiscale. Concretamente, si tratta di tassare allo 0,05 per mille tutti gli addebiti e gli accrediti, dall’e-banking privato alle transazioni borsistiche. Secondo uno…
La settimana scorsa è stata lanciata l’iniziativa popolare federale per l’introduzione di una “microtassa” sui pagamenti senza contanti, iniziativa che si propone di rivoluzionare il nostro sistema fiscale. Concretamente, si tratta di tassare allo 0,05 per mille tutti gli addebiti e gli accrediti, dall’e-banking privato alle transazioni borsistiche.
Secondo uno degli “inventori” dell’iniziativa, il professore di finanza Marc Chesney, il valore totale delle transazioni ammonterebbe ad almeno 100 bilioni di franchi all’anno, ossia circa 150 volte (!) il Prodotto interno lordo (PIL), e il 90% delle transazioni avrebbe origine nel settore bancario. Usando come metodo di stima la semplice regola del tre, gli inizianti calcolano che la microtassa potrebbe generare 50 miliardi di franchi di gettito all’anno.
L’uovo di Colombo della tassazione quindi? No, purtroppo, e ciò dovrebbe essere già ovvio a tutti gli ascoltatori. I 150 bilioni sono di natura “virtuale” e non hanno nulla a che fare con la creazione di valore vera e propria. Il valore aggiunto dell’intero settore bancario è oggi di 33 miliardi di franchi e va da sé che non potrebbe mai sostenere un onere fiscale di 45 miliardi. Le banche modificherebbero drasticamente il loro comportamento poiché, nonostante l’aliquota microscopica, imposte miliardarie rimangono imposte miliardarie. Esse raggrupperebbero quindi le loro transazioni o le effettuerebbero all’estero, come lo dimostra l’esperienza internazionale con strumenti simili.
Del resto, gli inizianti non negano la possibilità di tali manovre di aggiramento. La loro soluzione è semplice, anzi semplicistica: Aumentare l’aliquota, in modo da mantenere i 50 miliardi d’introito. E viene voglia di chiedere: perché non aumentare l’aliquota su queste miracolose operazioni finanziarie allo 0,7% e finanziare così l’intero PIL svizzero?
Certo, ci vuole coraggio per lanciare la raccolta delle firme per un’iniziativa popolare nel bel mezzo di un’epidemia virale. Ma forse ci vuole ancora più coraggio per proporre una tassa che riunisce in un solo testo tutti gli errori che si possono fare in materia fiscale.
Questo podcast è stato pubblicato il 09.03.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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In Svizzera, i costi per l’accoglienza della prima infanzia (vale a dire per bambini fino a tre anni) sono in gran parte a carico dei genitori. Nel confronto internazionale, i nostri asili nido sono cari, anzi carissimi: una famiglia con due bambini in età prescolastica spende tra il 15 e…
In Svizzera, i costi per l’accoglienza della prima infanzia (vale a dire per bambini fino a tre anni) sono in gran parte a carico dei genitori. Nel confronto internazionale, i nostri asili nido sono cari, anzi carissimi: una famiglia con due bambini in età prescolastica spende tra il 15 e il 20 percento del reddito per il collocamento dei figli. In altre paesi europei, famiglie che usufruiscono di un servizio analogo spendono al massimo 6 percento. Secondo alcuni economisti, i costi elevati degli asili nido svizzeri scoraggerebbero le giovani madri a riprendere il lavoro a tempo pieno, con conseguenze nefaste sul loro percorso professionale e sulla carriera. I costi sarebbero direttamente responsabili del fatto che in Svizzera la maggioranza delle madri con figli piccoli o lavora a tempo parziale con percentuali molto basse o non lavora del tutto.
Gli effetti sono trascurabili
Una nuova analisi dello studio di consulenza economica INFRAS svolto per conto della Fondazione Jacobs permette di verificare in modo preciso queste ipotesi. Lo studio conferma che con tariffe più abbordabili le famiglie farebbero maggior ricorso ai nidi per l’infanzia. Ad esempio, se i costi medi diminuissero da 90 a 60 franchi, una famiglia su 10 in più manderebbe il proprio bambino all’asilo nido. Gli effetti sull’impiego dell’abbassamento delle tariffe sarebbero invece trascurabili. A livello svizzero, la diminuzione delle tariffe di 30 franchi al giorno inciterebbe appena 7’500 persone supplementari (in stragrande maggioranza donne) a riprendere un lavoro a tempo pieno. Per finanziare questa misura servirebbero però 600 milioni di franchi. In altre parole, lo stato dovrebbe spendere in media ben 80’000 franchi all’anno per indurre un genitore in più a lavorare a tempo pieno.
Come mai un effetto così debole? Oggi la maggior parte della cura dei bambini viene svolta in modo informale da nonni e altri parenti. Asili nido miglior mercato porterebbero in primo luogo a una sostituzione delle cure private con quelle formali, senza però indurre un aumento globale dei tempi di custodia. Al riguardo di questi risultati deludenti, diventa difficile motivare un aumento ulteriore degli aiuti statali alle strutture di accoglienza con supposti effetti positivi sull’impiego femminile. Sappiamo ora che questo effetto è modesto. Rimane però il fatto che le giovani famiglie, appena fanno ricorso a strutture d’accoglienza, devono sopportare un carico finanziario il quale – a seconda dell’orientamento politico – gli uni giudicheranno sostanziale, gli altri eccessivo.
Tassare di più le multinazionali per alleviare la povertà nel mondo?
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Ma sarebbe un grave errore puntare solo su multinazionali carta per risolvere i problemi urgenti delle nazioni in via di sviluppo. Solo una solida e duratura crescita economica potrà eradicare la povertà.
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Marco Salvi
Tassare di più le multinazionali per alleviare la povertà nel mondo?
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Da anni l’attività fiscale delle imprese multinazionali è al centro dell’attenzione delle autorità fiscali di numerosi paesi. Rivelazioni quali i Lux Leaks, i Panama Papers o, più recentemente, i Paradise Papers hanno messo ulteriormente sotto pressione sia multinazionali che governi. In parte dell’opinione pubblica e tra numerosi attori della società civile, quali ONG e chiese, vi è oramai la ferma impressione che nei paesi in via di sviluppo i profitti delle imprese transnazionali sfuggano quasi totalmente al fisco. Tanto che ne basterebbe la corretta imposizione per mobilitare tutte le risorse di cui questi paesi hanno bisogno per raggiungere i principali obiettivi di sviluppo.
Ma, aldilà della legittimità o meno di tali pratiche di ottimizzazione fiscale – nelle quali, fra l’altro, la Svizzera gioca un ruolo di primo piano -, è possibile quantificare con precisione l’impatto reale nei paesi più poveri del cosiddetto BEPS, ovvero delle strategie delle imprese per erodere la base imponibile?
Secondo le analisi ufficiali effettuate dall’OCSE la perdita di gettito annuale si aggirerebbe tra i 100 e i 240 miliardi di dollari a livello mondiale. Certo, si tratta di un bel gruzzolo. Esso rappresenta però solo dal 4% al 10% delle entrate derivanti dalle imposte sui redditi delle società – e nemmeno l’1% dell’insieme delle entrate fiscali statali.
Inoltre, la stragrande maggioranza di queste mancate entrate non incide sui budget dei paesi poveri, ma bensì di quelli ricchi, primi fra tutti su quello cronicamente deficitario degli Stati Uniti. Nuovi studi indicano che ben un quarto di tutte le perdite di gettito dovute al BEPS andrebbero a scapito dell’erario degli Stati Uniti.
La ragione è semplice: la stragrande maggioranza degli scambi commerciali internazionali avviene ancora tra paesi già industrializzati, non tra quelli ricchi e quelli poveri. Così il commercio tra l’Africa e resto del mondo non rappresenta che 3% degli scambi globali. Vi è quindi poco da «ottimizzare». Del resto, secondo stime della Banca Mondiale, nei paesi più poveri le multinazionali generano in media già il 10% del gettito, mentre nei paesi industrializzati solo il 5% delle entrate è dovuto a questo tipo d’imprese. Grosse differenze invece si riscontrano a livello di tassazione dei redditi delle persone fisiche, specie di quelle più ricche e degli indipendenti, che nei paesi poveri o in via di sviluppo spesso riescono ad evadere il fisco in tutta impunità.
Di fronte ai bisogni ingenti dei paesi più poveri, un aumento anche sostanziale delle imposte pagate dalle multinazionali avrebbe un impatto solo marginale sulla capacità di questi paesi a finanziare il loro sviluppo. Ciò non vuol dire che bisogna abbandonare ogni tentativo di riforma della fiscalità transnazionale. Anzi, vanno sostenute iniziative come quelle dell’OCSE, miranti a contrastare le politiche di pianificazione fiscale aggressiva di certe multinazionali. Ma sarebbe un grave errore puntare solo su questa carta per risolvere i problemi urgenti delle nazioni in via di sviluppo. Solo una solida e duratura crescita economica potrà eradicare la povertà.
Mentre la Svizzera rifiuta la riforma fiscale, gli USA preparano la rivoluzione
Plusvalore
Il podcast bimensile di Marco Salvi per il programma Plusvalore di Rete Due
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Marco Salvi
Mentre la Svizzera rifiuta la riforma fiscale, gli USA preparano la rivoluzione
PlusvaloreIl podcast bimensile di Marco Salvi per il programma Plusvalore di Rete Due
Il successo del referendum contro la terza riforma dell’imposizione delle imprese non è una sorpresa. Vedremo se le Camere federali saranno in grado di elaborare un nuovo compromesso, rinunciando probabilmente alla famigerata deduzione degli interessi sul capitale proprio, un concetto che – ne abbiamo ora la certezza – piace più agli economisti che ai cittadini.
A livello internazionale è però un’altra riforma tributaria a fare notizia queste settimane: quella in gestazione presso il congresso degli Stati Uniti, oramai saldamente in mano al Partito Repubblicano. Più che di una riforma fiscale si tratta in questo caso di una vera rivoluzione che, se attuata, avrebbe ripercussioni anche sulla piazza economica elvetica.
Il piano prevede l’eliminazione pura e semplice dell’imposta sul reddito delle imprese per vendite all’estero, ma tasserebbe le importazioni negli USA, in modo analogo all’IVA europea.
Oggi le pratiche di ottimizzazione fiscale delle imprese multinazionali americane dipendono in gran parte dalla possibilità di concentrare i proventi in paesi che applicano una tassazione moderata, quali l’Irlanda, i Paesi Bassi o appunto la Svizzera. Con il piano dei Repubblicani, questo vantaggio sarebbe caduco poiché verrebbero a mancare gli incentivi strettamente fiscali che giustificano le pratiche attuali.
C’è chi dubita della fattibilità e dell’utilità di una riforma così sostanziale. Esperti ritengono esagerate le stime secondo cui la nuova imposta inietterebbe nelle casse del Tesoro degli Stati Uniti entrate supplementari di 100 miliardi di dollari, pari a un terzo del gettito odierno. Inoltre, la transizione verso un nuovo sistema sarebbe estremamente impegnativa, contravverrebbe alle regole dell’Organizzazione Mondiale sul Commercio (OMC) e probabilmente offrirebbe nuove possibilità di ottimizzazione.
In ogni modo, le conseguenze fiscali di un esodo graduale delle multinazionali Usa dalla Svizzera sarebbero considerevoli. Mancano dati precisi, ma si può supporre che una parte importante dei circa 4 miliardi di franchi incassati ogni anno da Confederazione e Cantoni da holdings e società miste sia da ricondurre a queste imprese.
Un vantaggio significativo della piazza economica svizzera – la tassazione moderata degli utili per i redditi mobili – perderebbe importanza, almeno dal punto di vista di giganti USA presenti in Svizzera, tra i quali Starbucks, Mondelez o Google. Svantaggi strutturali del nostro paese come l’alto costo della vita, l’accesso limitato al mercato interno europeo o la difficoltà di reclutare personale qualificato da paesi non-EU inciderebbero ancora più fortemente. Una conseguenza inattesa del piano di Trump – come del voto di ieri sulla RI imprese 3 – sarà quindi a termine di rendere ancora più necessarie riforme strutturali nel nostro paese.
Cliccando qui è possibile ascoltare direttamente il podcast.
Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 13 febbraio 2017 del programma «Plusvalore».
Per gentile concessione di «RSI Rete due».
Marco Salvi
Svizzera, paradiso fiscale per gli svizzeri?
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Il podcast bimensile di Marco Salvi per il programma Plusvalore di Rete Due
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Marco Salvi
Svizzera, paradiso fiscale per gli svizzeri?
PlusvaloreIl podcast bimensile di Marco Salvi per il programma Plusvalore di Rete Due
Sono in molti a lodare, tra i vantaggi strutturali del nostro paese, «il livello ragionevole delle tasse». Le statistiche ufficiali sembrano in apparenza confermarlo: con una quota complessiva di tassazione in rapporto al PIL del 28 percento, la Svizzera si trova sotto la media dei paesi ricchi membri dell’OCSE – e ben al di sotto del 43 percento dell’Italia. Tutto ok quindi?
Non proprio. Le cifre elvetiche ingannano. Il nostro paese ottiene buoni risultati perché i contributi obbligatori per la previdenza professionale o i premi per l’assicurazione malattia obbligatoria non vengono considerati come contributi versati allo Stato ma bensì come contributi privati.
Invece, in molti paesi le prestazioni legate ad esempio alla salute sono finanziate tramite imposte. Così è anche in Italia, dove il sistema sanitario è in gran parte finanziato dalle Regioni, dall’IVA, nonché da una tassa sulla benzina.
In verità, in Svizzera, l’impatto effettivo dello Stato sul reddito dei cittadini è maggiore di quanto molti credano. Con circa 1900 franchi per adulto e mese, i contributi obbligatori sollecitano il bilancio degli Svizzeri più delle tasse vere e proprie, quali l’imposta sul reddito o l’IVA. Per quest’ultime si sborsano “soltanto” 1500 franchi al mese. Un adulto consegna quindi un po’ meno della metà del reddito lordo sotto forma di imposte varie, contributi alla previdenza sociale e premi delle casse malati. L’impiego della metà del reddito è predeterminato dallo Stato. In ciò la Svizzera si differenzia poco dai suoi vicini europei.
Paradossalmente però, questo non vuole dire che il livello di redistribuzione dei redditi sia da noi molto elevato. Secondo stime dell’Università di San Gallo, ben due terzi dei contributi versati rifluiscono prima o poi a chi li ha pagati, ad esempio sotto forma di rendite dell’AVS o della cassa pensione. Così, solo un terzo dei contributi e delle tasse versate finirebbe con il finanziare il consumo altrui.
Il paradosso quindi è doppio. Se non è vero che gli Svizzeri pagano poche tasse, è altrettanto sbagliato pensare che di queste tasse il cittadino medio non veda nulla: anzi, finirà col ricevere in una tasca gran parte di quello che gli è stato sottratto nell’altra.
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Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 28 novembre 2016 del programma «Plusvalore».
Per gentile concessione di «RSI Rete due».