La pandemia di Covid-19 sta avendo gravi ripercussioni economiche, e nelle ultime settimane il Consiglio federale ha adottato numerose misure che cercano di mitigarne gli effetti. Ad esempio, sono state messe a disposizione delle imprese, in modo rapido e non-burocratico, ingenti liquidità mentre il ricorso alla disoccupazione parziale è stato facilitato. Ciononostante, sono oggi in tanti – tra i quali parecchi economisti – a chiedere misure e pacchetti di ben più ampio respiro. Così, servirebbero pagamenti a fondo perso per salvare tutte le imprese in difficoltà, garantendo non solo i salari, ma anche il pagamento di interessi o affitti, e addirittura di un minimo di utili aziendali.
Per i fautori del «bailout» generalizzato, le misure coercitive dello stato hanno causato un danno economico alle imprese interessate; pertanto lo stato è tenuto al risarcimento di tutti i danni. Ma la logica dell’argomento è traballante. Se avessimo rinunciato a qualsiasi «lockdown», è molto probabile che la società ne avrebbe patito enormi sofferenze e l’economia ingenti danni. Eppure, secondo il criterio precedente, lo stato non sarebbe stato responsabile di nulla.
Serve quindi ricordare che tra i principi più importanti della nostra democrazia vi è quello che prevede che non si possa dedurre alcun obbligo generale di risarcimento da decisioni politiche – fatta eccezione di quelli definiti nella Costituzione federale, la quale fissa chiari limiti all’esproprio. Se, a mo’ di esempio, questo non fosse il caso, a seguito dell’adozione dell’iniziativa sulle abitazioni secondarie si sarebbe dovuto procedere all’indennizzo generale di tutti i proprietari di terreni nelle regioni turistiche.
Ma vi sono anche solidi motivi economici che ci inducono a guardare con un occhio critico i piani di salvataggio a tappetto accennati poc’anzi. Passata la pandemia, non ritorneremo all’economia di prima. Quei consumatori che negli ultimi mesi hanno imparato ad apprezzare tutti i vantaggi dell’e-commerce non si ripresenteranno nei negozi. Gli entusiasti del smart working difficilmente vorranno riadattarsi ai cubiculi degli «open space». Ebbene, questa grande trasformazione non sarà possibile senza l’impiego di risorse e di investimenti – insomma, senza la mobilizzazione di capitale. Non ha molto senso quindi impegnare una parte ingente di queste risorse scarse per aiuti finanziari statali miranti, che lo si voglia o no, a preservare un mondo oramai già obsoleto.
Questo podcast è stato pubblicato il 04.05.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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Da anni l’attività fiscale delle imprese multinazionali è al centro dell’attenzione delle autorità fiscali di numerosi paesi. Rivelazioni quali i Lux Leaks, i Panama Papers o, più recentemente, i Paradise Papers hanno messo ulteriormente sotto pressione sia multinazionali che governi. In parte dell’opinione pubblica e tra numerosi attori della società civile, quali ONG e chiese, vi è oramai la ferma impressione che nei paesi in via di sviluppo i profitti delle imprese transnazionali sfuggano quasi totalmente al fisco. Tanto che ne basterebbe la corretta imposizione per mobilitare tutte le risorse di cui questi paesi hanno bisogno per raggiungere i principali obiettivi di sviluppo.
Ma, aldilà della legittimità o meno di tali pratiche di ottimizzazione fiscale – nelle quali, fra l’altro, la Svizzera gioca un ruolo di primo piano -, è possibile quantificare con precisione l’impatto reale nei paesi più poveri del cosiddetto BEPS, ovvero delle strategie delle imprese per erodere la base imponibile?
Secondo le analisi ufficiali effettuate dall’OCSE la perdita di gettito annuale si aggirerebbe tra i 100 e i 240 miliardi di dollari a livello mondiale. Certo, si tratta di un bel gruzzolo. Esso rappresenta però solo dal 4% al 10% delle entrate derivanti dalle imposte sui redditi delle società – e nemmeno l’1% dell’insieme delle entrate fiscali statali.
Inoltre, la stragrande maggioranza di queste mancate entrate non incide sui budget dei paesi poveri, ma bensì di quelli ricchi, primi fra tutti su quello cronicamente deficitario degli Stati Uniti. Nuovi studi indicano che ben un quarto di tutte le perdite di gettito dovute al BEPS andrebbero a scapito dell’erario degli Stati Uniti.
La ragione è semplice: la stragrande maggioranza degli scambi commerciali internazionali avviene ancora tra paesi già industrializzati, non tra quelli ricchi e quelli poveri. Così il commercio tra l’Africa e resto del mondo non rappresenta che 3% degli scambi globali. Vi è quindi poco da «ottimizzare». Del resto, secondo stime della Banca Mondiale, nei paesi più poveri le multinazionali generano in media già il 10% del gettito, mentre nei paesi industrializzati solo il 5% delle entrate è dovuto a questo tipo d’imprese. Grosse differenze invece si riscontrano a livello di tassazione dei redditi delle persone fisiche, specie di quelle più ricche e degli indipendenti, che nei paesi poveri o in via di sviluppo spesso riescono ad evadere il fisco in tutta impunità.
Di fronte ai bisogni ingenti dei paesi più poveri, un aumento anche sostanziale delle imposte pagate dalle multinazionali avrebbe un impatto solo marginale sulla capacità di questi paesi a finanziare il loro sviluppo. Ciò non vuol dire che bisogna abbandonare ogni tentativo di riforma della fiscalità transnazionale. Anzi, vanno sostenute iniziative come quelle dell’OCSE, miranti a contrastare le politiche di pianificazione fiscale aggressiva di certe multinazionali. Ma sarebbe un grave errore puntare solo su questa carta per risolvere i problemi urgenti delle nazioni in via di sviluppo. Solo una solida e duratura crescita economica potrà eradicare la povertà.