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Venerdì scorso centinaia di migliaia di persone, in maggioranza donne, hanno manifestato in tutta la Svizzera per la parità. Ma quando sarà raggiunto lo «stadio finale» dell’uguaglianza tra i sessi? Quando le donne potranno dire di avere finalmente ottenuto la tanto agognata parità? L’economista americana Barbara Bergmann, esponente di spicco…
Venerdì scorso centinaia di migliaia di persone, in maggioranza donne, hanno manifestato in tutta la Svizzera per la parità. Ma quando sarà raggiunto lo «stadio finale» dell’uguaglianza tra i sessi? Quando le donne potranno dire di avere finalmente ottenuto la tanto agognata parità? L’economista americana Barbara Bergmann, esponente di spicco dell’economia femminista, scomparsa recentemente, aveva delineato tre modi differenti – e in parte mutualmente esclusivi – di definire il «grande pareggio»; tre approcci che rimandano ad altrettante ideologie femministe distinte.
Il primo consiste nell’esprimere un maggiore apprezzamento per il lavoro domestico e familiare non retribuito. In questo scenario si mantiene l’attuale specializzazione dei sessi, cioè un maggior impegno degli uomini nel lavoro retribuito e delle donne in quello familiare. Tuttavia il riconoscimento per il lavoro non retribuito viene concretizzato tramite cospicue detrazioni fiscali per i figli, un miglioramento sostanziale dell’assicurazione maternità o il versamento di compensazioni finanziarie. Questo approccio corrisponde a una visione conservatrice della parità.
Nel secondo approccio, di stampo social-progressista, il lavoro retribuito e quello non retribuito vengono condivisi equamente tra i sessi, con una perfetta simmetria delle scelte professionali e familiari di uomini e donne. Se necessario, questa simmetria viene imposta con quote di genere nella politica e nell’economia.
Infine, Barbara Bergmann presenta una terza visione di parità, di stampo liberale. Al lavoro familiare e domestico non retribuito si sostituisce quello retribuito. Compiti quali l’accudire i figli, fare la spesa, cucinare sono in gran parte esternalizzati, ad esempio tramite la generalizzazione di strutture d’accoglienza, i servizi di tipo “food delivery” e le imprese di pulizia. Lo Stato garantisce che questo processo avvenga in modo sostenuto e che si eliminino tutti gli ostacoli all’occupazione femminile a tempo pieno.
La scelta di una visione piuttosto che di un’altra è di ordine ideologico. Ma se la storia recente può servire da guida, mi pare sia la visione liberale ad avere raccolto più consensi. Il cambiamento saliente degli ultimi decenni in fatto di parità è stato certamente la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. A questo impegno non ha però corrisposto uno sforzo simile degli uomini nella sfera domestica e familiare. La suddivisione tra i sessi dei lavori domestici e degli impegni familiari non è mutata molto. Segno che sono state più le donne a convergere verso il modello «maschile» che non il contrario. Rimane solo da vedere se così sarà anche in futuro.
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Tra i molti difetti del Prodotto Interno Lordo – il famoso PIL – quale misura del benessere di un paese, ve ne è uno che suscita critiche ricorrenti e giustificate: il PIL ignora il valore della produzione domestica. Questa categoria raggruppa tutte le attività che in teoria potremmo procurarci sul…
Tra i molti difetti del Prodotto Interno Lordo – il famoso PIL – quale misura del benessere di un paese, ve ne è uno che suscita critiche ricorrenti e giustificate: il PIL ignora il valore della produzione domestica.
Questa categoria raggruppa tutte le attività che in teoria potremmo procurarci sul mercato ma che invece svolgiamo noi stessi. Concretamente si va dalla preparazione dei pasti, al bucato e al giardinaggio fino all’educazione dei figli o al tempo passato ad accudire parenti malati
Il lavoro domestico e famigliare viene svolto senza compenso monetario – e quindi non è conteggiato direttamente nel PIL. L’omissione è notevole: secondo dati dell’Ufficio Federale di Statistica, gli Svizzeri passano più di 3 ore al giorno nella produzione domestica. Il 61% di questo lavoro viene svolto dalle donne, il che corrisponde a tre settimane e mezzo di lavoro domestico in più all’anno che gli uomini. Non ha quindi torto chi critica il PIL come una misura che tende a sottovalutare il contributo femminile al benessere.
(Jeremy Banks, unsplash)
Eppure, il trend va chiaramente verso una ripartizione sempre più equa del lavoro domestico fra i sessi. Nello spazio di un solo ventennio, le donne svizzere hanno ridotto il tempo di lavoro casalingo di ben mezz’ora al giorno, mentre gli uomini hanno aumentato il loro apporto di oltre 20 minuti.
Oggi le donne spendono meno tempo per la pulizia della casa, la preparazione dei pasti, il giardinaggio e la cura di animali domestici. Nelle famiglie con figli piccoli, questa riduzione è stata però completamente compensata da un aumento del tempo passato a giocare con loro e ad aiutarli a fare i compiti. Ma anche i papà non sono in resto. Essi passano quasi sei ore alla settimana in queste attività, quasi il doppio di soli vent’anni fa. A sovrapporsi a questi mutamenti della ripartizione del lavoro domestico tra i sessi c’è stato il forte aumento del lavoro femminile remunerato. Cosicché, se sommiamo le ore lavorate a casa con quelle passate sul posto di lavoro, scopriamo che uomini e donne lavorano in totale oramai esattamente lo stesso numero di ore, in media 55 ore alla settimana. È il caso di dirlo: il sesso pigro non esiste.
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«Quando arriveranno i robot, molti dovranno temere per il loro posto di lavoro – gli ultracinquantenni prima degli altri». Così, per dirla in poche parole, la tesi di che considera automazione e rivoluzione digitale alla pari di minacce per l’umanità. La realtà è però un’altra – anzi l’esatto contrario. I…
«Quando arriveranno i robot, molti dovranno temere per il loro posto di lavoro – gli ultracinquantenni prima degli altri». Così, per dirla in poche parole, la tesi di che considera automazione e rivoluzione digitale alla pari di minacce per l’umanità. La realtà è però un’altra – anzi l’esatto contrario. I robot non cacceranno le persone dal loro posto, ma bensì contribuiranno a colmare la lacuna che l’invecchiamento della popolazione sta lasciando sul mercato del lavoro.
Infatti, al più tardi nel 2025, quando i baby-boomer avranno raggiunto l’età del pensionamento, le imprese svizzere saranno confrontate con una forte penuria di manodopera. Penuria rafforzata dal fatto che relativamente pochi giovani faranno allora il loro ingresso sul mercato del lavoro e l’immigrazione è politicamente impopolare. Ben vengano allora robot, soprattutto se intelligenti, che ci permettano di mantenere livello di produzione e di benessere.
Come recentemente illustrato dagli economisti americani Daron Acemoglu e Pasqual Restrepo, già oggi vi è una forte correlazione tra invecchiamento della popolazione e uso di robot industriali. Non è un caso del resto se Corea, Giappone o Germania, paesi la cui popolazione sta rapidamente invecchiando, hanno la più alta densità di robot industriali al mondo.
Nel frattempo, però, la partecipazione al mercato del lavoro delle persone di mezza età è in forte aumento in tutto il mondo. Mentre i media danno spesso l’impressione che cinquanta e sessantenni abbiano particolari difficoltà a rimanere inseriti nel mercato del lavoro, i dati mostrano un quadro ben diverso. In Svizzera ad esempio, il tasso di partecipazione al lavoro dei 60-64enni è passato dal 64% nel 1996 al 75% di oggi. Nel vecchio Giappone esso sfiora gli 80%. Ma anche in Germania o nei Paesi Bassi, dove fino alla metà degli anni ’90 si mandava in pensionamento anticipato due terzi dei sessantenni, il quadro è cambiato radicalmente. Del resto, uno svizzero su sette lavora oramai oltre l’età legale di pensionamento.
Tutti questi dati servono a chiarire una cosa: i timori di un’imminente “robocalisse” sul mercato del lavoro vanno fondamentalmente rivisti, non da ultimo nell’ottica di una riforma strutturale durevole dell’AVS. Non stiamo assistendo alla fine del lavoro, ma – semmai – all’inizio della grande carenza di manodopera.
Questo podcast è stato pubblicato il 11.3.2019 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Abbassare i costi dell’asilo nido per aumentare l’occupazione femminile?
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In Svizzera, negli ultimi vent’anni la partecipazione femminile al mercato del lavoro è fortemente aumentata anche tra le madri con figli piccoli. Eppure, come mostra un nuovo studio dell’Università di Neuchâtel, la conciliazione tra carriera e famiglia rimane difficile nel nostro paese. Benché solamente una madre su sette abbandoni definitivamente…
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Marco Salvi
Abbassare i costi dell’asilo nido per aumentare l’occupazione femminile?
In Svizzera, negli ultimi vent’anni la partecipazione femminile al mercato del lavoro è fortemente aumentata anche tra le madri con figli piccoli. Eppure, come mostra un nuovo studio dell’Università di Neuchâtel, la conciliazione tra carriera e famiglia rimane difficile nel nostro paese. Benché solamente una madre su sette abbandoni definitivamente il mercato del lavoro dopo la maternità, per la metà delle donne la nascita del primo figlio è accompagnata da un’interruzione della carriera. Questa pausa è sorprendentemente lunga: dura in media poco meno di 5 anni per figlio. Essa esercita un forte impatto sui redditi futuri visto che gli aumenti salariali in genere dipendono dall’avanzamento della carriera.
Secondo alcuni la causa di queste lunghe interruzioni sarebbe da ricercare nei costi elevati per l’accoglienza della prima infanzia, costi che in Svizzera sono spesso a carico diretto delle famiglie. Tanto che da noi una famiglia con due bambini in età prescolastica spende il 20 percento del reddito per il collocamento dei figli, mentre la media europea è del 6 percento.
Eppure, il nuovo studio dell’Università di Neuchâtel mette in dubbio la relazione tra costi dell’asilo nido e impiego femminile. Sulla base dei dati dell’Indagine sui redditi e sulle condizioni di vita (SILC) dell’Ufficio federale di statistica, lo studio stima che gli effetti sull’impiego dell’abbassamento delle tariffe sarebbero trascurabili. A livello svizzero, un dimezzamento delle tariffe dell’asilo nido indurrebbe un aumento dell’occupazione di soli 17’000 posti. Per finanziare questa misura la Confederazione dovrebbe però versare più di un miliardo di franchi. In altre parole, lo stato dovrebbe spendere in media 60’000 franchi all’anno per indurre una donna in più a lavorare a tempo pieno – l’equivalente di quasi un salario medio.
Come mai un effetto così debole? Da una parte il risultato rispecchia un atteggiamento sorprendentemente conservatore degli Svizzeri rispetto alle forme di custodia istituzionale. (Un altro studio recente stimava che la metà delle famiglie non manderebbe i figli all’asilo nido nemmeno se fosse completamente gratuito). Dall’altra esso si spiega con il fatto che la maggior parte della cura dei bambini viene svolta in modo informale da nonni e altri parenti. Asili nido miglior mercato porterebbero in primo luogo a una sostituzione delle cure private con quelle formali, senza però indurre un aumento globale dei tempi di custodia, e quindi senza effetti sull’occupazione femminile.
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La qualità della vita sarà anche soggettiva, ma la si può ciononostante esprimere in cifre, anzi addirittura in franchi. Un ragionamento – semplicistico lo ammetto – è il seguente: sottraiamo dal reddito medio delle economie domestiche in un comune l’affitto e le tasse locali; quello che rimane può essere…
La qualità della vita sarà anche soggettiva, ma la si può ciononostante esprimere in cifre, anzi addirittura in franchi. Un ragionamento – semplicistico lo ammetto – è il seguente: sottraiamo dal reddito medio delle economie domestiche in un comune l’affitto e le tasse locali; quello che rimane può essere interpretato come un’indicazione (molto approssimativa) della qualità della vita nel comune o città di residenza.
Come mai? Affitti e tasse variano in Svizzera molto da un comune all’altro. Più la località è attraente (o più le tasse sono basse) e più i prezzi dei terreni – e di conseguenza anche gli affitti – saranno elevati. Se non lo fossero, basterebbe traslocare per approfittare di un’alta qualità di vita a un prezzo stracciato. La maggiore domanda a termine farebbe però salire i prezzi, e con essi svanirebbe l’incentivo al trasloco. In altre parole, gli affitti elevati sono il prezzo d’entrata da pagare per godere dell’alta qualità della vita in quella situazione.
Per esempio, è vero che il salario medio a Zurigo è elevatissimo. La metà degli occupati vi guadagna più di 7’800 franchi al mese – 1’300 franchi in più della media svizzera. Un quarto porta a casa più di 10’000 franchi al mese. Ma gli affitti lo sono ancora di più: difficile trovare un quattro locali al di sotto dei 3’000 franchi al mese. E se togliamo dal reddito anche le imposte, salta fuori che il reddito residuo è più basso che nel Canton Uri. Ciò a riprova del fatto che lago, offerta culturale e le luci della città hanno un valore concreto per gli abitanti. Valore che si esprime appunto in un reddito residuo inferiore a quello di Altdorf.
Ovviamente, il ragionamento ha i suoi limiti. Gli alti salari di Zurigo magari sono anche un compenso per lo stress cittadino, e forse non è sufficiente considerare solo gli affitti e le tasse per misurare precisamente la qualità della vita. Ma il ragionamento di base rimane. Quindi, la prossima volta che sentirete un sindaco vantarsi del fatto che nel suo comune alla fine del mese rimangono più soldi in tasca che nel comune vicino, non esitate a fare una smorfia. È solo un segno che l’erba dei vicini è davvero più verde.
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Halloween, la notte delle streghe celebrata la scorsa settimana, è un'usanza che affonda le sue radici soprattutto nei paesi anglosassoni. In Svizzera, tuttavia, la vera e propria caccia alle streghe tra la fine del XVI e la metà del XVII secolo fu più violenta che nei paesi anglosassoni. Gli economisti americani hanno trovato una nuova spiegazione razionale per questo fenomeno: La caccia alle streghe, secondo la sua analisi, può essere spiegata dalla competizione tra la Chiesa protestante e quella cattolica.
Halloween, la notte delle streghe, celebrata la settimana passata, è un’usanza radicata soprattutto nei paesi anglosassoni. Eppure, è in Svizzera che la caccia alle streghe vera e propria imperversò in modo più violento tra la fine del XVI e la metà del XVII secolo. Nell’Europa occidentale ebbero luogo 110’000 processi per stregoneria, di cui 10’000 entro i confini attuali del nostro paese. Altissimo anche il numero delle condanne a morte emesse in Svizzera: ben 6’000, due terzi delle quali contro donne. Nella penisola italiana invece, le streghe giustiziate furono in tutto e per tutto cinque. In Spagna una sola.
Differenze geografiche
Come spiegare queste notevoli differenze geografiche? Una recente analisi degli economisti americani Peter Leeson e Jacob Russ, pubblicata nel prestigioso «Economic Journal», offre una nuova spiegazione interamente razionale di questo inquietante momento della nostra storia. Una rigorosa e dettagliata analisi statistica permette ai ricercatori di escludere spiegazioni alternative, accettate fino ad ora da molti storici. Non sarebbe stato quindi il raffreddamento climatico, e la conseguente diminuzione dei raccolti, ad avere innescato una ricerca di capri espiatori, anche se, effettivamente, la credenza popolare riteneva le streghe capaci di controllare il tempo.
C’erano grandi differenze geografiche nella caccia alle streghe. (Wikimedia Commons)
Una nuova spiegazione interamente razionale
Secondo Leeson e Russ, i processi alle streghe in Europa rispecchierebbero invece direttamente la concorrenza tra Chiesa cattolica e Chiese protestanti, e la loro lotta per conquistare quote di mercato in regioni confessionalmente contestate. Facendo leva sulle credenze popolari, gli inquisitori di entrambe le confessioni avrebbero così pubblicizzato la loro capacità di proteggere i cittadini dalle manifestazioni terrene di Satana. In un modo assai simile a quello dei partiti politici odierni (i quali concentrano le loro campagne durante le elezioni per attirare gli elettori indecisi), funzionari cattolici e protestanti del tempo avrebbero focalizzato l’attività processuale laddove imperversava maggiormente il conflitto tra Riforma e Controriforma.
Così si spiega l’intensa caccia alle streghe sul territorio svizzero, diventato a partire del XVI secolo una delle principali zone di conflitto religioso. Solo la pace confessionale e la rivoluzione scientifica, erodendo la credenza popolare nella stregoneria, fecero crollare la domanda popolare per i processi alle streghe. Per molte, era già troppo tardi.
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A 100 anni dallo sciopero generale, l'arma di guerra dei sindacati è diventata sempre più obsoleta
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Marco Salvi
Gli scioperi hanno scontato il loro tempo?
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Il 12 novembre di 100 anni fa, 250’000 ferrovieri e operai attuavano il primo e, fino ad oggi, unico sciopero generale svizzero. Al di là della reale portata storica dell’evento, ancora dibattuta dagli specialisti, la ricorrenza si presta a una riflessione sull’importanza odierna di questo particolare strumento di lotta.
Meno giorni di sciopero
Ebbene, basta un’occhiata alle statistiche per convincersi che – con qualche eccezione notevole e molto mediatizzata – lo sciopero sia praticamente scomparso dal repertorio sindacale internazionale. Non solo in Svizzera, ma anche in Austria, Germania, nel Regno Unito, in Danimarca o in Olanda si contavano nel 2015 meno di 5 giorni scioperati all’anno per mille impiegati, il che corrisponde a una giornata di sciopero per 100’000 giornate lavorate. Persino in Francia, il campione d’Europa dello sciopero, le astensioni dal lavoro sono in forte diminuzione; le perdite economiche che esse generano sono quasi trascurabili.
Non solo è diminuita la frequenza degli scioperi, ma sono cambiate anche le «regole del gioco». In Svizzera come in molti altri paesi, l’astensione dal lavoro è diventata una forma di protesta fortemente regolamentata. Da noi ne hanno il monopolio i sindacati, obbligati a consultare le loro basi. Non è così in Italia dove si tratta ancora di un diritto individuale e sono consentiti anche scioperi politici, indetti per sostenere un partito o per protestare contro il governo.
Mezzi alternativi
La ragione per questa profonda evoluzione è presto trovata. In molti paesi i partner sociali hanno oramai da tempo elaborato e codificato alternative migliori per risolvere i conflitti: negoziazioni salariali, trattative per il rinnovo di contratti collettivi, mediazioni ecc. Tanto meglio perché in uno sciopero entrambe le parti sono perdenti: le aziende perché si interrompe la produzione, i lavoratori perché non vengono pagati. I vantaggi della pace del lavoro sono quindi ampiamente distribuiti.
Ma stiamo attenti, in questi giorni di commemorazione e di nostalgia, a non elevare questo nuovo equilibrio a livello di mito. La pace del lavoro non è né necessaria né sufficiente per garantire un mercato del lavoro prospero. Non va infatti dimenticato che essa è negoziata da organizzazioni (sindacati e rappresentanza padronale) le quali hanno dapprima a cuore gli interessi dei propri membri, non sempre quelli dell’intero paese. E così, gli accordi rischiano a volte di andare a scapito degli outsiders: ad esempio di nuove aziende, limitate nella loro libertà imprenditoriale, o di chi un lavoro ancora non ce l’ha.
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In Svizzera, i costi per l’accoglienza della prima infanzia (vale a dire per bambini fino a tre anni) sono in gran parte a carico dei genitori. Nel confronto internazionale, i nostri asili nido sono cari, anzi carissimi: una famiglia con due bambini in età prescolastica spende tra il 15 e…
In Svizzera, i costi per l’accoglienza della prima infanzia (vale a dire per bambini fino a tre anni) sono in gran parte a carico dei genitori. Nel confronto internazionale, i nostri asili nido sono cari, anzi carissimi: una famiglia con due bambini in età prescolastica spende tra il 15 e il 20 percento del reddito per il collocamento dei figli. In altre paesi europei, famiglie che usufruiscono di un servizio analogo spendono al massimo 6 percento. Secondo alcuni economisti, i costi elevati degli asili nido svizzeri scoraggerebbero le giovani madri a riprendere il lavoro a tempo pieno, con conseguenze nefaste sul loro percorso professionale e sulla carriera. I costi sarebbero direttamente responsabili del fatto che in Svizzera la maggioranza delle madri con figli piccoli o lavora a tempo parziale con percentuali molto basse o non lavora del tutto.
Gli effetti sono trascurabili
Una nuova analisi dello studio di consulenza economica INFRAS svolto per conto della Fondazione Jacobs permette di verificare in modo preciso queste ipotesi. Lo studio conferma che con tariffe più abbordabili le famiglie farebbero maggior ricorso ai nidi per l’infanzia. Ad esempio, se i costi medi diminuissero da 90 a 60 franchi, una famiglia su 10 in più manderebbe il proprio bambino all’asilo nido. Gli effetti sull’impiego dell’abbassamento delle tariffe sarebbero invece trascurabili. A livello svizzero, la diminuzione delle tariffe di 30 franchi al giorno inciterebbe appena 7’500 persone supplementari (in stragrande maggioranza donne) a riprendere un lavoro a tempo pieno. Per finanziare questa misura servirebbero però 600 milioni di franchi. In altre parole, lo stato dovrebbe spendere in media ben 80’000 franchi all’anno per indurre un genitore in più a lavorare a tempo pieno.
Come mai un effetto così debole? Oggi la maggior parte della cura dei bambini viene svolta in modo informale da nonni e altri parenti. Asili nido miglior mercato porterebbero in primo luogo a una sostituzione delle cure private con quelle formali, senza però indurre un aumento globale dei tempi di custodia. Al riguardo di questi risultati deludenti, diventa difficile motivare un aumento ulteriore degli aiuti statali alle strutture di accoglienza con supposti effetti positivi sull’impiego femminile. Sappiamo ora che questo effetto è modesto. Rimane però il fatto che le giovani famiglie, appena fanno ricorso a strutture d’accoglienza, devono sopportare un carico finanziario il quale – a seconda dell’orientamento politico – gli uni giudicheranno sostanziale, gli altri eccessivo.