Plusvalore, Podcast
Il valore del digitale supera di gran lunga il suo contributo alla produzione
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Marco Salvi
2’000 franchi al mese per rinunciare ad Internet
Plusvalore, PodcastIl valore del digitale supera di gran lunga il suo contributo alla produzione
Ce lo sentiamo ripetere quotidianamente: la digitalizzazione porta nuovi modi di produrre, investire, consumare e interagire. Ma al di là del baccano mediatico, qual è l’importanza concreta del settore digitale rispetto ai settori tradizionali dell’economia? E quale il suo valore per la nostra vita quotidiana?
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Saturati con la digitalizzazione
Prima di rispondere a queste domande è importante distinguere tra «settore digitale» e «economia digitale». Quest’ultima ingloba oramai l’insieme dell’economia perché non vi è un’attività – dall’agricoltura all’insegnamento – che faccia oggi a meno di tecnologie digitali. Un recente studio olandese mostrava ad esempio che ben l’86% delle imprese ha una presenza online. Il settore digitale invece è più ristretto. Comprende le attività basilari della digitalizzazione, i prodotti e i servizi delle TIC (le tecnologie dell’informatica e della comunicazione), le piattaforme online e le attività ad esse legate, quali l’economia partecipativa.
Ebbene, secondo una nuova pubblicazione del Fondo Monetario Internazionale, il settore digitale ammonterebbe a solo il 5% delle economie avanzate, se misurato in termini di valore aggiunto, reddito o occupazione. La Svizzera sarebbe tra i paesi più digitalizzati, con un contributo al PIL del settore digitale pari all’8%, simile quindi a quello di banche e assicurazioni.
Gratuito, ma di valore
Queste misure dell’impronta produttiva della digitalizzazione ne sottovalutano però il valore per i consumatori poiché molte delle transazioni digitali – da Facebook a Google – sono gratuite e quindi non contribuiscono direttamente all’aumento del PIL.
In una serie di esperimenti, studiosi del MIT di Boston hanno valutato il risarcimento necessario per indurre i consumatori a rinunciare ai servizi online. Stimano che ci vorrebbero in media ben 14’000 dollari per indurre gli utenti a rinunciare per un solo anno ai servizi dei motori di ricerca. L’email è la seconda categoria di beni digitali più apprezzati, con un «valore di rinuncio» pari a 8’400 dollari, seguita dalle mappe digitali. In tutto, servirebbero ben 25’000 dollari – pari a duemila franchi al mese – per farci rinunciare a tutti i servizi di Internet, a riprova del fatto che il benessere procurato dal mondo virtuale è ormai enorme, e va ben al di là del plusvalore di produzione.
Marco Salvi
Tirocinio: i rischi di un sistema vincente
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Fornire incentivi per garantire una formazione lungo tutto l'arco della carriera
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Marco Salvi
Tirocinio: i rischi di un sistema vincente
Plusvalore, PodcastFornire incentivi per garantire una formazione lungo tutto l'arco della carriera
Già lo si è detto e ridetto in questa sede: il mercato del lavoro è la vera «success story» della nostra economia. Lo dimostrano non solo il livello, ragguardevole, dei salari, ma anche l’alto tasso di occupazione e la bassa percentuale di disoccupati, persino tra i giovani.
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Quale è la ragione di questo successo? Le particolarità del nostro sistema sono molte, una spiegazione unica non c’è. All’estero cresce però l’interesse per il modello elvetico di formazione duale. In nessun altro paese la formazione professionale è tanto diffusa quanto in Svizzera, con quasi due terzi dei giovani che, dopo la scuola dell’obbligo, svolge un tirocinio.
Il tirocinio facilita la transizione tra scuola e lavoro perché è incentrato sull’insegnamento pratico. Si stima che gli apprendisti svizzeri dedichino l’80% del loro tempo a mansioni operative. Se nel primo anno di tirocinio la produttività degli apprendisti è ancora bassa, nel terzo anno essa raggiunge il 75% di quella di un dipendente medio. Ciò illustra bene la rapidità con cui i giovani acquisiscono conoscenze specifiche, utili alle imprese.
Rischi reale
Il sistema però comporta anche rischi. Se è vero che le qualifiche fornite dalla formazione professionale facilitano l’ingresso sul mercato del lavoro, esse possono diventare rapidamente obsolete, proprio perché specialistiche. Per esempio, fino ai primi anni ’90 si trovavano ancora posti d’apprendistato per riparatori di macchine da scrivere.
Al di là dell’aneddoto, analisi empiriche rivelano come il rischio sia ben reale. In uno studio recente, Eric Hanushek, grande specialista dell’economia dell’educazione, mostra come chi completa una formazione professionale abbia sì maggiori probabilità di essere occupato da giovane; il vantaggio occupazionale diminuisce però gradualmente con l’età. Hanushek stima che a partire di 50 anni le persone che completano un’istruzione secondaria generale hanno maggiori probabilità di occupazione rispetto a chi ha completato un tirocinio.
Ed è proprio in tempi di rapidi cambiamenti tecnologici che la conoscenza generale va favorita rispetto a quella specialistica. La formazione professionale dovrebbe pertanto essere orientata il più possibile verso il lungo termine, limitandone eccessive specializzazioni. Sarà inoltre essenziale fornire in futuro incentivi sia ai singoli che ai datori di lavoro per garantire una formazione lungo tutto l’arco della carriera.
Marco Salvi
Il passato della musica ci svela il futuro del lavoro
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Come organizzeremo il lavoro in futuro?
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Marco Salvi
Il passato della musica ci svela il futuro del lavoro
In un momento di transizione tecnologica come quello attuale, sono in molti a chiedersi quali saranno le forme future del lavoro. Fino ad ora, intelligenze artificiali, robot e economia digitale non hanno sconvolto l’organizzazione del lavoro. La figura tradizionale del dipendente a tempo pieno, alla ricerca di una carriera lineare, con regolari promozioni e aumenti salariali, è ancora molto diffusa.
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Eppure, per molte persone, e in modo particolare per i giovani, il modello standard sta perdendo attrattività. Cresce l’interesse per modalità più flessibili; interesse che va di pari passo con le esigenze di una migliore conciliazione della vita professionale e di quella familiare, nonché con il desiderio di far fruttare le proprie competenze in ambiti di lavoro variegati.
Per intravvedere il futuro del lavoro conviene allora guardare al presente di un settore che da sempre è stato all’avanguardia: parliamo del settore artistico. La musica ad esempio, è stata una delle prime attività economiche globalizzate. Si stima ad esempio che ben 30% dei compositori dell’epoca classica (attivi cioè dalla metà del 17° alla metà del 19° secolo) siano deceduti in un paese diverso da quello in cui erano nati, e che il 45% di essi abbia passato almeno due anni della propria vita lavorativa all’estero – una caratteristica questa oggi comune a molti percorsi professionali, non solo a quelli degli artisti.
Così possiamo speculare che il lavoro futuro in parte ricalcherà l’odierna organizzazione del settore artistico, ad esempio:
una produzione non legata a un posto fisso (fabbrica o ufficio), ma spesso in movimento
l’assenza di un singolo datore di lavoro, sostituito da più committenti
la diversificazione delle forme di reddito, dalla vendita della propria produzione, all’insegnamento, agli incontri (pagati) con mecenati
il lavoro in teams, formati per un progetto dato e per un periodo limitato.
L’aspetto più distintivo del settore artistico risiede però nell’importanza data all’essere autori. Confidiamo quindi che, in futuro, non solo gli artisti ma anche «normali dipendenti» vorranno sempre più definire autonomamente i contenuti del proprio lavoro – rinunciando magari a parte del salario per perseguire il sogno dell’«autoralità».
Marco Salvi
Mercato del lavoro in forma olimpica… ma solo per gli uomini?
Plusvalore, Podcast
Alle Olimpiadi del lavoro, la Svizzera farebbe incetta di medaglie
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Marco Salvi
Mercato del lavoro in forma olimpica… ma solo per gli uomini?
Plusvalore, PodcastAlle Olimpiadi del lavoro, la Svizzera farebbe incetta di medaglie
Se ci fossero le Olimpiadi del mercato del lavoro, la Svizzera si classificherebbe ai primi posti del medagliere. Fra i 35 membri dell’OCSE, il club delle economie più avanzate, il nostro paese si piazza al secondo posto per il tasso di occupazione, la qualità dell’ambiente di lavoro e la bassa percentuale di «working poors». Siamo medaglia di bronzo nelle categorie salari, sicurezza del posto di lavoro e capacità a integrare lavoratori con handicap.
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Le differenze salariali tra uomini e donne sono invece una delle poche categorie dove ci ritroviamo lontani dai primi. La Svizzera registra infatti un divario di circa 15 percento, maggiore di quanto non si rincontri nei paesi scandinavi e, più sorprendentemente, anche in quelli dell’Europa Meridionale, Italia compresa. Un mercato svizzero del lavoro in forma olimpica quindi, ma solo per gli uomini?
No, perché se presa isolatamente questa differenza salariale non è un indicatore affidabile. Anzi, proprio il fatto che il nostro mercato del lavoro sia molto integrativo, con altissimi tassi d’occupazione sia maschili che femminili, spiega in gran parte questo modesto piazzamento. In effetti, il divario salariale medio tra i sessi tende ad essere minore laddove relativamente poche donne svolgono un lavoro retribuito.
In Italia, Grecia o Portogallo, l’eccesso di regolamentazione del mercato del lavoro ha portato alla creazione di barriere all’impiego. A queste barriere reagiscono più le donne che gli uomini. Una parte importante della forza lavoro femminile, che da noi è impiegata a tempo parziale, non è affatto attiva professionalmente. A rimanere sul mercato del lavoro sono quindi soprattutto le donne meglio istruite, con un posto a tempo pieno, il che spiega le minori differenze salariali tra i sessi osservate a sud.
Ciononostante la Svizzera può migliorare. Bisogna rimuovere il più possibile gli ostacoli che ancora impediscono di conciliare pienamente carriera e famiglia. Un ruolo decisivo lo giocheranno tecnologia e organizzazione del lavoro, quale le possibilità di telelavoro. Ma non vanno dimenticate diverse misure di politica sociale che faciliterebbero ulteriormente le carriere femminili: dal congedo parentale all’accoglienza della prima infanzia.
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Una convergenza si nota anche a livello mondiale, anche se – è quasi inutile ricordarlo – sussistono ancora profondi divari tra le nazioni.
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Marco Salvi
La Grande Convergenza
Plusvalore, PodcastUna convergenza si nota anche a livello mondiale, anche se – è quasi inutile ricordarlo – sussistono ancora profondi divari tra le nazioni.
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I primi esseri umani anatomicamente moderni sono apparsi 200’000 anni fa; il linguaggio articolato risale a 50’000 anni fa, l’agricoltura a 10’000. A confronto con queste pietre miliari dello sviluppo umano, il processo di crescita economica è invece recentissimo: esso si è innescato solo 200 anni fa in alcune regioni dell’Europa occidentale e in Nord America. Prima del XIX secolo la stragrande maggioranza della popolazione mondiale viveva al minimo livello di sussistenza.
Benché la crescita economica sia un fenomeno recente, profonde divergenze tra i paesi sono apparse ben prima che gli uffici di statistica iniziassero a monitorare sistematicamente l’evoluzione dei redditi. Utilizzando stime desunte da svariate fonti storiche, economisti stanno però ricostruendo a poco a poco quest’aspetto importante del passato dell’umanità. Nuove misure pubblicate la settimana scorsa dall’Università di Groningen in Olanda, forniscono un quadro affidabile, risalente fino al 1870.
Da questi dati risulta che 150 anni fa Regno Unito e Stati Uniti erano chiaramente le due nazioni più ricche, con un reddito pari a circa 2700 dollari all’anno per persona. Con un distacco di circa 30% seguivano paesi dell’Europa nordoccidentale, tra i quali Germania, Francia e Svizzera – a riprova che già allora il nostro paese era tra i più benestanti al mondo. Livelli di reddito comparabili si registravano pure in Argentina e Uruguay.
I nuovi dati mostrano anche come gli Stati Uniti siano sempre riusciti a rimanere in vetta alla classifica del reddito. Dal 1870 a oggi il reddito dell’americano medio è stato moltiplicato per 18 in termini reali. Il distacco con la seconda regione più ricca, l’Europa occidentale, ha raggiunto un picco nel 1950, subito dopo la Seconda guerra mondiale. Da allora le differenze di reddito vanno calando.
Una convergenza si nota anche a livello mondiale, anche se – è quasi inutile ricordarlo – sussistono ancora profondi divari tra le nazioni. In media però, i paesi poveri crescono più rapidamente di quelli ricchi. Se la globalizzazione non rallenterà, si stima che ci vorranno ancora 35 anni per che si dimezzino le differenze di reddito a livello planetario. A voi decidere se la bottiglia è mezza vuota o mezza piena.
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Per misurare le differenze di benessere tra paesi spesso viene consultato il PIL per abitante (Prodotto interno lordo), una statistica che misura il valore della produzione creata durante un anno. Da qualche tempo il PIL per abitante viene calcolato regolarmente per tutti i cantoni svizzeri. Ebbene, con 80’000 Franchi all’anno, quello ticinese è fra i più alti: nel 2014 solo sei cantoni facevano meglio. Certo, gli 80’000 Franchi del Ticino sono sempre poca cosa rispetto ai 163’000 del capolista Basilea Città, ma è pur sempre molto di più del fanalino di coda Uri, a quota 51’000 Franchi.
Sarebbe tuttavia affrettato dedurre da questi dati che il Ticino è un cantone più «produttivo» o più ricco della media svizzera. Il PIL per abitante ticinese non può fungere da indicatore della produttività e del benessere dei ticinesi per il semplice motivo che il mercato del lavoro vi è costituito per più di un quarto da frontalieri non-residenti. Poiché questi trasferiscono le rispettive entrate in Italia, vi è in Ticino una differenza notevole fra il valore della produzione attestato dal PIL e il reddito dei residenti.
Meglio quindi prendere il valore aggiunto per ora effettiva di lavoro.
Con 79 Franchi all’ora il Ticino si colloca nella metà inferiore delle principali regioni. Peggio ancora: la crescita marcia sul posto: dal 2008 al 2014 la produttività è cresciuta di un esiguo 0,5 %. La Svizzera orientale, al contrario, nello stesso lasso di tempo ha registrato un incremento della produttività dieci volte superiore.
Non stupisce quindi se, a contrario del PIL, il reddito a disposizione delle famiglie ticinesi sia inferiore alle altre regioni della Svizzera. Rispetto a Zurigo, la regione più ricca, il gap raggiunge un buon 15 Percento. Ma anche questa differenza negativa va interpretata con cautela: secondo uno studio dell’USI, quasi due terzi del divario spariscono se si tiene conto delle differenze di prezzo esistenti. Ad esempio, a sud delle Alpi il livello medio degli affitti è notevolmente inferiore.
Ricapitoliamo. Rispetto alla media nazionale, in Ticino il livello della produttività è minore, cosi come lo sono i redditi – ma non lo è necessariamente quello del benessere perché i consumi costano meno. E se si tenesse conto anche del valore del bel tempo, rimarrebbero poche ragioni per invidiare il livello di vita dei cari zurighesi.
Marco Salvi
I robot sono dappertutto, fuorché nelle statistiche
Plusvalore, Podcast
L’andamento recente delle diverse misure di produttività non segnala cambiamenti…
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Marco Salvi
I robot sono dappertutto, fuorché nelle statistiche
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L’uscita roboante – è il caso di dirlo – di «Blade Runner 2049» nei cinema di mezzo mondo mi sembra un pretesto sufficiente per riparlare di tecnologia. Motivo centrale del film è la somiglianza tra umani e macchine, quest’ultime oramai in grado anche di procreare. Ad appena 32 anni da questa data fatidica, è forse già possibile rilevare l’impatto di robot, intelligenza artificiale o digitalizzazione che dir si voglia sulla nostra realtà economica?
Per gli economisti, la produttività è la misura statistica più adatta per rispondere a questa domanda. Essa valuta il rapporto tra il valore dei beni creati e le quantità di lavoro o capitale impiegate nella loro produzione. Un’accelerazione del progresso tecnologico alla «Blade Runner» dovrebbe necessariamente essere accompagnata da un forte aumento della produttività del lavoro, con un numero minore di impiegati umani in grado di generare il valore aggiunto attuale. In fondo, è proprio per questo che si costruiscono macchine.
Ebbene, l’andamento recente delle diverse misure di produttività non segnala cambiamenti repentini delle strutture produttive. Anzi, in Svizzera la produttività del lavoro ristagna. Secondo dati del Seco, essa è aumentata fra il 2007 e il 2015 soltanto dello 0,2 percento all’anno, ben al di sotto dei 1,5 percento dei due decenni precedenti. Questo pattern si osserva in tutte le economie più avanzate. Il rallentamento è particolarmente forte se paragonato ai tassi di crescita del XIX secolo o delle «Trente Glorieuses» (1946-1975). In termini di produttività, la Rivoluzione industriale 4.0 sarebbe quindi molto meno rivoluzionaria di quelle precedenti.
Questo fenomeno interroga gli economisti. Per gli uni, esso si spiegherebbe con i costi sempre più elevati dell’innovazione. Se negli anni Settanta erano bastati a Steve Jobs un garage e un tocco di genio per rivoluzionare il settore dei personal computers, oggi cambiamenti di simile levatura richiedono un esercito di costosi ricercatori, avvocati e specialisti del marketing. Secondo altri esperti invece, innovazioni fondamentali come Internet o i Big data non avrebbero ancora permeato in profondità tutti i settori dell’economia. Non sarebbe quindi che una questione di tempo per vederne l’effetto anche sulla produttività. Ma vi è anche chi – alla luce delle statistiche – mette in dubbio la portata effettiva di queste innovazioni tecnologiche che tanto nuove non sarebbero. Per intenderci: Se rapportate a invenzioni come il telefono o il computer, i Big data somigliano un po’ al sequel di un film di successo.
Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 6 novembre 2017 del programma «Plusvalore».
Per gentile concessione di «RSI Rete due».
Marco Salvi
Tutti capi grazie alla digitalizzazione
Plusvalore
A venticinque anni dall’arrivo di Internet, come è cambiato il…
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A venticinque anni dall’arrivo di Internet, come è cambiato il mercato del lavoro in Svizzera?
Per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, i mutamenti sono stati tutto sommato minori. La temuta «precarizzazione digitale» non è avvenuta. Secondo dati dell’Ufficio federale di statistica, in Svizzera il telelavoro marcia sul posto, al pari della quota di indipendenti o di persone con contratti a durata determinata.
Si nota invece una polarizzazione del mercato del lavoro, vale a dire una forte diminuzione percentuale delle persone con qualifiche medie, ad esempio con solo un tirocinio. Oggi rappresentano il 23% degli occupati, rispetto al 38% nel 1995. Il numero di persone con qualifiche superiori (università o scuole universitarie professionali) è invece in forte aumento. Vi è stata quindi una riqualifica del ceto medio svizzero che ha permesso di far fronte con bravura ai mutamenti tecnologici.
Tra le categorie in forte crescita spicca quella delle persone con responsabilità dirigenziali. In Svizzera, un impiegato su dieci svolge funzioni di questo tipo, il triplo di 25 anni fa. Le imprese somigliano insomma sempre più a quegli eserciti messicani dove tutti erano colonnelli o generali.
A ben guardare però, questa evoluzione è una logica conseguenza del cambiamento tecnologico. Le fabbriche d’una volta, con decine di operai alle macchine e qualche caposquadra che controlla, sono in via d’estinzione. Le aziende moderne sono organizzate in piccoli teams. La gestione, l’organizzazione, la pianificazione, la comunicazione – insomma tutte quelle attività volte alla creazione di «capitale organizzativo» – sono diventate sempre più importanti, a scapito della produzione vera propria. C’è chi lo deplora, ma è un dato di fatto.
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Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 9 ottobre 2017 del programma «Plusvalore». Per gentile concessione di «RSI Rete due».
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In occasione del primo maggio non sono mancate le profezie sulla fine prossima del lavoro. Secondo alcuni oratori – e persino secondo qualche cronista di Plusvalore – presto non resterà più nulla da celebrare poiché robot e intelligenza artificiale avranno fatto la festa al lavoro umano. Nel migliore dei casi questa Grande Sostituzione manderà molti di noi in pensione anticipata, liberandoci dall’obbligo di guadagnare il pane con il sudore della fronte. Alla peggio, toccherà ritirarci ai margini del mondo, appena tollerati dalle intelligenze digitali, un po’ come quelle tribù di cacciatori-raccoglitori che oggi ancora sussistono ai confini della nostra civiltà. Così, sostengono alcuni, “sarebbe venuto il momento di ripensare l’intero sistema economico”.
Davvero? Si giustifica una visione talmente pessimistica del futuro del lavoro? Scendiamo un attimo dalle pedane imbandierate per dare un’occhiata alle statistiche. Nel 2016 un’impresa svizzera su cinque faticava a trovare personale qualificato, mentre attualmente il tasso di disoccupazione non raggiunge il 4%. Più del 96% degli svizzeri e delle svizzere che desiderano lavorare, può farlo. Ma c’è di più: chi si preoccupa di venire rimpiazzato presto o tardi dai robot, a maggior ragione dovrebbe temere coloro che già oggi sono perfettamente in grado di sostituirci: ovvero, altri umani.
Vent’anni fa vi erano in Svizzera quattro milioni di attivi. Nel frattempo più di un milione di persone hanno fatto il loro ingresso nel mercato del lavoro. Tra questi troviamo giovani, stranieri e molte donne. Ma non per questo chi era attivo vent’anni fa ha perso il posto, travolto da un’ondata di lavoro femminile. Anzi, chi era attivo nel 1997 (e non è ancora andato in pensione) molto probabilmente ha beneficiato di discreti aumenti salariali, a ulteriore riprova del fatto che il lavoro non è diventato più scarso.
Certo, questa evoluzione positiva non ha nulla di scontato. Servono continui investimenti nella formazione e capacità di adattamento. Non ha senso però presupporre una quantità fissa, e quindi esauribile, di compiti da svolgere. È invece giocoforza constatare che la Grande Sostituzione non c’è stata e che, in tutta logica, non ci sarà – nonostante l’introduzione di centinaia di migliaia di sofisticatissime macchine umane dell’ultima generazione.
Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 8 maggio 2017 del programma «Plusvalore». Per gentile concessione di «RSI Rete due».
Marco Salvi
Il valore di un orario di lavoro flessibile
Plusvalore
Uber è una delle ditte più discusse, ammirate e allo…
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Uber è una delle ditte più discusse, ammirate e allo stesso tempo odiate del pianeta. Fornisce un servizio taxi tramite un’app che mette in collegamento diretto passeggeri e autisti, questi ultimi spesso non professionisti. Presente oramai a livello mondiale, opera anche in quattro città svizzere. Qui come altrove, Uber viene contestata per l’impiego di lavoro flessibile. Un autista può decidere infatti in ogni momento se accettare o meno la richiesta di un cliente. Inoltre, la remunerazione di una corsa può variare a dipendenza della domanda.
Questa flessibilità preoccupa i sindacati che la considerano sintomo di nuova forma di precariato. Ma come la valutano gli autisti stessi? A ben guardare, la possibilità di scegliere i propri orari sembrerebbe andare a tutto vantaggio degli impiegati piuttosto che dei datori di lavoro. Le aziende preferiscono di regola presenze fisse, sia perché possono così meglio monitorare il lavoro dei propri dipendenti, sia perché spesso i clienti vanno serviti a orari determinati.
In un nuovo studio, quattro economisti californiani analizzano il comportamento in tempo reale di ben un milione di autisti Uber negli Stati Uniti. La versatilità della piattaforma tecnologica di Uber permette ai ricercatori di stimare il cosiddetto «salario di riserva», cioè il salario minimo necessario a indurre l’autista a uscire dal garage.
La ricerca mostra che gli autisti Uber preferiscono lavorare a tempo parziale per poche ore alla settimana, in prevalenza di sera o il sabato pomeriggio. La possibilità di fornire prestazioni in modo flessibile riveste per loro un notevole valore economico. I ricercatori stimano che se gli autisti Uber dovessero fornire le stesse prestazioni ad orari predeterminati, essi richiederebbero un indennizzo supplementare pari in media al 40% del reddito attuale. Senza la possibilità di decidere in maniera autonoma quando e quanto guidare, due terzi di loro preferirebbero rimanere a casa, rinunciando a questa fonte ausiliare di reddito.
Gli economisti americani documentano così il valore per i dipendenti di un orario di lavoro adattabile ai propri bisogni, con possibilità di reagire in modo immediato a imprevisti. Certo, Uber e le altre piattaforme della sharing economy non offrono prospettive di carriera solide a lungo termine. Ciononostante esse potrebbero rappresentare un importante complemento di reddito, specie per i giovani e le persone meno abbienti. A condizione però di preservarne la flessibilità.
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Questo contributo è apparso nell'edizione di lunedì 10 aprile 2017 del programma «Plusvalore».
Per gentile concessione di «RSI Rete due».