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La domanda di alloggi dipende in modo fondamentale dal livello dei redditi
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Marco Salvi
Prezzi immobiliari: un problema fatto in casa
PlusvaloreLa domanda di alloggi dipende in modo fondamentale dal livello dei redditi
È tempo di vendemmie e votazioni – e si torna a discuteredell’impatto dell’immigrazione sul mercato immobiliare svizzero.A prima vista, il rapporto tra i due sembrerebbe facile da stabilire: dall’entrata in vigore della libera circolazione delle persone tra Svizzera e UEnel 2002, i prezzi delle case sono cresciutiin media del 56%, mentre allo stesso tempo la popolazione residente è aumentata del 17%.
Tuttavia, demografia e immigrazionenon sono i soli fattori a determinare prezzi e affitti. Anzi, l’economia urbana ci insegna che non è tanto il numero di abitanti quanto quello delle famiglie a influenzare la domanda di alloggi –essendo ogni appartamento occupato da una sola economia domestica. E da decenni oramai la crescitadel numero delle famiglie supera quella della popolazione. Dal 2000 ad oggi la dimensione media delle economie domestiche in Svizzera è diminuita del 7% ed è ora inferiore a 2 persone.
La domanda di alloggi dipende anchein modo fondamentale dal livello dei redditi. Studi nazionali e internazionali mostrano che la superficie abitata cresce proporzionalmente al reddito.Insomma, l’immigrazione ha avuto sì un effetto sui prezzi, mal’aumento dei redditi e la diminuzione dei tassi d’interesse hanno avuto un impatto ben più determinante. Secondo una nostra stima recente, se la libera circolazione con l’UE non ci fosse stata,il rincaro dal 2002 dei prezzi delle case in Svizzera sarebbero stato del 49% invece che del 56%:
E gli affitti? Contrariamente ai prezzi delle case, determinati da domanda e offerta, essi sono fortemente regolamentati. Secondo il nostro diritto di locazione, l‘aumento della domanda a cui accennavo prima, non è un motivo valido per rivalutare i canoni locativi. Concretamente, ciò significa che la stragrande maggioranza degli inquilini svizzeri –tutti coloro che negli ultimi anni non hanno traslocato –non ha subito pressioni supplementaria causa dall’immigrazione.
Anzi, parecchi locatarihanno approfittato di riduzioni dell’affitto, compliceil tonfo dei tassi ipotecari. Nel complesso,il peso delle spese abitativenei budget delle famiglie è diminuito dall’introduzione della libera circolazione. Secondo dati dell’Ufficio federale di statistica, mai prima d’ora in questo secolo le famiglie hannodevolutouna parte minore del loro reddito all’alloggio: appena il 14% del reddito lordo in media.
Certamente, nelle grandi cittàla carenza di alloggi si fa sempre sentire. Non è però un fenomeno nuovo: da decenni si fatica a trovare un appartamento al centro di Zurigo o di Ginevra. Questa carenzahapiù a che fare con la politica edilizia delle città (che spesso ostacola la costruzione) che con l’immigrazione dall’UE.
In conclusione, un effetto dell’immigrazione sul mercato immobiliare c’è stato, ma di portata ben più limitata di quanto avanzino i critici della libera circolazione. Nei centri invece, la carenza di alloggi rimane un problema «fatto in casa».
Questo podcast è stato pubblicato il 31.08.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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Mentre in Italia e forse anche in Ticino si sta raggiugendo – lentamente e a costo di enormi sacrifici e sofferenze – l’apice dell’epidemia, si fa più pressante la domanda «come ne usciremo?». Una minoranza di economisti, ma un numero ragguardevole di rappresentanti dell’economia, insistono sempre più sul fatto che…
Mentre in Italia e forse anche in Ticino si sta raggiugendo – lentamente e a costo di enormi sacrifici e sofferenze – l’apice dell’epidemia, si fa più pressante la domanda «come ne usciremo?».
Una minoranza di economisti, ma un numero ragguardevole di rappresentanti dell’economia, insistono sempre più sul fatto che vi sia un trade-off – ovvero una scelta inevitabile – tra salute pubblica ed economia; insomma, tra vite e lavoro. Certo, l’idea del trade-off, della scelta tra alternative, è fondamentale nel ragionamento economico. Ma essa è davvero applicabile al momento attuale? Non lo penso.
Non c’è dubbio che i costi del lockdown siano ingentissimi. In Francia per esempio, i primi rilievi statistici ufficiali confermano le stime più nere. Il livello dei consumi è sceso del 30%. Un terzo della popolazione attiva non lavora più, mentre un terzo fatica a rimanere produttivo da casa. Anche in Svizzera un lockdown della durata di un anno farebbe crollare i redditi dal 30 al 40%. Ciò non solo ridurrebbe il nostro benessere, ovviamente, ma potrebbe addirittura mettere in serie difficoltà alcune delle istituzioni in cui abbiamo più fiducia, dall’AVS all’Assicurazione contro la disoccupazione.
Eppure, nonostante questi costi e rischi giganteschi, un vero dilemma non c’è. Se consideriamo i prossimi 18 mesi, e non soltanto le prossime settimane, rinunciare di botto al lockdown sarebbe probabilmente molto più costoso per la società, sia in termini economici che umani. Attraverso il lockdown è possibile prevenire il sovraccarico dell’ospedale e prepararsi a un’ulteriore gestione delle crisi (più ventilatori, più test, una app per rintracciare le persone infette). Questo, a sua volta, permetterà un’apertura graduale dell’economia. La domanda chiave è un’altra: I governi stanno davvero facendo tutto il possibile per mettere in atto le strutture nec essarie?
Il trade-off tra vite e lavoro, invece, non esiste. Salviamo le vite per salvare il lavoro.
Questo podcast è stato pubblicato il 06.04.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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La settimana scorsa è stata lanciata l’iniziativa popolare federale per l’introduzione di una “microtassa” sui pagamenti senza contanti, iniziativa che si propone di rivoluzionare il nostro sistema fiscale. Concretamente, si tratta di tassare allo 0,05 per mille tutti gli addebiti e gli accrediti, dall’e-banking privato alle transazioni borsistiche. Secondo uno…
La settimana scorsa è stata lanciata l’iniziativa popolare federale per l’introduzione di una “microtassa” sui pagamenti senza contanti, iniziativa che si propone di rivoluzionare il nostro sistema fiscale. Concretamente, si tratta di tassare allo 0,05 per mille tutti gli addebiti e gli accrediti, dall’e-banking privato alle transazioni borsistiche.
Secondo uno degli “inventori” dell’iniziativa, il professore di finanza Marc Chesney, il valore totale delle transazioni ammonterebbe ad almeno 100 bilioni di franchi all’anno, ossia circa 150 volte (!) il Prodotto interno lordo (PIL), e il 90% delle transazioni avrebbe origine nel settore bancario. Usando come metodo di stima la semplice regola del tre, gli inizianti calcolano che la microtassa potrebbe generare 50 miliardi di franchi di gettito all’anno.
L’uovo di Colombo della tassazione quindi? No, purtroppo, e ciò dovrebbe essere già ovvio a tutti gli ascoltatori. I 150 bilioni sono di natura “virtuale” e non hanno nulla a che fare con la creazione di valore vera e propria. Il valore aggiunto dell’intero settore bancario è oggi di 33 miliardi di franchi e va da sé che non potrebbe mai sostenere un onere fiscale di 45 miliardi. Le banche modificherebbero drasticamente il loro comportamento poiché, nonostante l’aliquota microscopica, imposte miliardarie rimangono imposte miliardarie. Esse raggrupperebbero quindi le loro transazioni o le effettuerebbero all’estero, come lo dimostra l’esperienza internazionale con strumenti simili.
Del resto, gli inizianti non negano la possibilità di tali manovre di aggiramento. La loro soluzione è semplice, anzi semplicistica: Aumentare l’aliquota, in modo da mantenere i 50 miliardi d’introito. E viene voglia di chiedere: perché non aumentare l’aliquota su queste miracolose operazioni finanziarie allo 0,7% e finanziare così l’intero PIL svizzero?
Certo, ci vuole coraggio per lanciare la raccolta delle firme per un’iniziativa popolare nel bel mezzo di un’epidemia virale. Ma forse ci vuole ancora più coraggio per proporre una tassa che riunisce in un solo testo tutti gli errori che si possono fare in materia fiscale.
Questo podcast è stato pubblicato il 09.03.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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La settimana scorsa, il governo inglese ha annunciato la sua intenzione di introdurre un sistema a punti per regolare l’immigrazione. L’obbiettivo è quello di attirare lavoratori qualificati o, in altre parole, di limitare l’entrata di attivi meno qualificati. In futuro, i lavoratori provenienti dall’estero che parlano un buon inglese e…
La settimana scorsa, il governo inglese ha annunciato la sua intenzione di introdurre un sistema a punti per regolare l’immigrazione. L’obbiettivo è quello di attirare lavoratori qualificati o, in altre parole, di limitare l’entrata di attivi meno qualificati. In futuro, i lavoratori provenienti dall’estero che parlano un buon inglese e possono dimostrare di avere un’offerta per un posto ben retribuito riceveranno 50 dei necessari 70 punti. Altri punti verranno assegnati a seconda delle competenze e della carenza di manodopera nel settore d’attività. Attualmente, nel Regno Unito vi sarebbe scarsità di ingegneri civili, medici generalisti, psicologi e ballerine.
Se verrà introdotto, il Regno Unito non sarà il solo paese con un sistema a punti. Già il Canada, l’Australia o la Nuova Zelanda conoscono sistemi simili, e parecchi economisti ne hanno analizzato le conseguenze. Il loro giudizio è globalmente negativo. Come mai?
Di primo acchito, un sistema a punti potrebbe sembrare un metodo razionale e obbiettivo per selezionare i migranti adatti – con tutta l’apparenza razionale e obbiettiva di una tabella Excel. Il problema è che il mercato del lavoro è ben più complesso di quanto si possa riassumere in una formuletta. Il lavoro degli attivi meno qualificati in genere è complementare a quello dei maggiormente qualificati. Regolare il numero degli uni ha un effetto sull’impiego degli altri, rischiando di frenare l’intera economia, con un impatto sul benessere di tutti.
Anche requisiti in apparenza incontestabili, come la conoscenza della lingua, non sono garanti di un esito positivo a lungo termine. Il successo della seconda e terza generazione di immigranti asiatici negli Stati Uniti è stato possibile malgrado la padronanza limitata della lingua da parte della prima generazione. Senza parlare delle pressioni politiche e del lobbying di questo o quel settore per ricevere trattamenti di favore; lobbying che avvantaggia chi dispone di più agganci politici, ad esempio gli agricoltori, ma non necessariamente chi è più produttivo. Tanto più che il sistema inglese non prevede un limite quantitativo alla migrazione, e così rischia di non soddisfare nemmeno l’elettorato «esterofobo». Insomma, meglio lasciare la scelta di chi impiegare nelle imprese alle imprese stesse – e non alle tabelle dei funzionari.
Questo podcast è stato pubblicato il 24.02.2020 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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Il Consiglio federale si è pronunciato mercoledì scorso a favore dell’introduzione di nuove prestazioni per i disoccupati di lunga durata ultrasessantenni. In pratica la decisione del governo apre la via a pensionamenti a partire già di 58 anni, ben 7 anni prima dell’età ordinaria prevista oggi. Secondo il Consiglio federale…
Il Consiglio federale si è pronunciato mercoledì scorso a favore dell’introduzione di nuove prestazioni per i disoccupati di lunga durata ultrasessantenni. In pratica la decisione del governo apre la via a pensionamenti a partire già di 58 anni, ben 7 anni prima dell’età ordinaria prevista oggi. Secondo il Consiglio federale si tratterebbe così di ammortizzare gli effetti della libera circolazione sull’impiego dei lavoratori più anziani.
I fatti però sono contestabili. In Svizzera, il tasso di occupazione dei lavoratori più anziani è uno dei più alti al mondo. Con l’introduzione della libera circolazione nel 2002, esso non è diminuito – anzi, è in forte progressione. Difficile quindi sostenere che le difficoltà dei disoccupati più anziani siano da ricondurre direttamente all’immigrazione.
Il numero di lavoratori stranieri immigrati dal 2002 è comunque inferiore a quello delle donne svizzere che nello stesso periodo sono entrate nel mercato del lavoro. Eppure, nessuno sostiene seriamente che esse abbiano ridotto le opportunità degli uomini anziani.
Ciò non significa che gli ultrasessantenni non debbano affrontare sfide sul mercato del lavoro. La percentuale dei disoccupati di lunga durata aumenta con l’età. Tuttavia, chi è più in là con gli anni più raramente è senza lavoro. Così, secondo i dati ufficiali, il rischio dei 55-64enni di finire in assistenza dopo avere esaurito le prestazioni di disoccupazione è addirittura leggermente inferiore alla media.
Forse, prima di prendere una decisione, il nostro governo avrebbe fatto bene a dare un’occhiata all’esperienza della Germania. A partire degli anni ’70, i tedeschi facilitarono sempre più il pensionamento anticipato per disoccupati di lunga durata. Le conseguenze furono drammatiche: nello spazio di due decenni, il tasso di occupazione dei lavoratori di più di 60 anni si dimezzò. Solo quando, a partire della seconda metà degli anni novanta, l’età di prepensionamento fu gradualmente rialzata, il tasso di partecipazione degli ultrasessantenni tornò ai livelli precedenti.
Oggi, le stime dei costi per le nuove prestazioni transitorie decise dal Consiglio federale sono ancora abbastanza contenute. Tuttavia, poiché sono prevedibili cambiamenti nel comportamento dei lavoratori, c’è da attendersi che esse aumenteranno rapidamente. L’esempio tedesco lo dimostra: chi apre nuove vie verso il pensionamento, non si sorprenda poi se verranno imboccate.
È inarrestabile la dispersione degli insediamenti?
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C’era da aspettarselo: l’iniziativa «contro la dispersione degli insediamenti», la quale in sostanza mirava a limitare le aree costruibili a quelle già oggi definite come tali, era troppo radicale. Ieri è stata bocciata da quasi due terzi dei votanti; un rifiuto che nelle regioni periurbane – dove l’espansione degli insediamenti…
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Marco Salvi
È inarrestabile la dispersione degli insediamenti?
C’era da aspettarselo: l’iniziativa «contro la dispersione degli insediamenti», la quale in sostanza mirava a limitare le aree costruibili a quelle già oggi definite come tali, era troppo radicale. Ieri è stata bocciata da quasi due terzi dei votanti; un rifiuto che nelle regioni periurbane – dove l’espansione degli insediamenti è maggiormente percettibile – è stato ancora più netto.
I fattori sono di natura economica
Ora, secondo i politici, sia quelli favorevoli che quelli contrari all’iniziativa, bisognerà applicare in modo diligente l’attuale legge sulla pianificazione del territorio, ancora in fase di rodaggio; una legge che si propone di «densificare» le zone già costruite. È una posizione comprensibile. I fattori che però più incidono sull’espansione degli insediamenti sono di tipo economico, e non facilmente domabili dalla politica.
Diminuzione dell’agricoltura
E di che fattori si tratta? Il primo riguarda l’inesorabile declino dell’agricoltura. Se un secolo fa non si poteva fare a meno di coltivare ogni appezzamento disponibile, la meccanizzazione, l’aumento della produttività e la scomparsa di gran parte delle aziende agricole hanno fatto crollare la domanda di terreno agricolo, liberando molte superfici per l’edificazione. Difficile immaginare un cambiamento repentino di questa dinamica secolare.
La crescita demografica
Il secondo fattore ad incidere sull’edificazione del territorio è, ovviamente, la crescita demografica. L’aumento della popolazione ha un effetto direttamente proporzionale sulla domanda residenziale e – fino ad ora – anche su quella di terreni. Lo stesso vale per la crescita economica: si stima che la domanda residenziale delle famiglie cresce di pari passo con il reddito. In Svizzera, un aumento del reddito di due percento si traduce in un aumento della superfice delle abitazioni di un metro quadro per occupante.
Ma è stato soprattutto la riduzione dei costi della mobilità, sia quella pubblica che privata, ha favorire la progressiva espansione delle aree di insediamento, promuovendo l’attrattivà relativa della periferia rispetto ai centri. Oggi, né i trasporti pubblici, fortemente sovvenzionati, né il traffico automobilistico coprono i propri costi. Se si vorrà limitare a lungo termine una dispersione eccessiva degli insediamenti, evitando però interventi drastici come quelli proposti dall’iniziativa (e senza cadere nella trappola della decrescita e dalla riduzione «volontaria» dei redditi), converrà agire in modo prioritario sulla leva della mobilità.
Questo podcast è stato pubblicato il 11.2.2019 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
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Se le stime dell’Ufficio Federale di Statistica sono corrette, nel 2018 il livello dei salari è cresciuto in media del 0,5 percento in Svizzera – quindi meno dell’inflazione, la quale si è attestata l’anno scorso al 0,9 percento. Lo stesso fenomeno si era già verificato nel 2017. Detto in parole…
Se le stime dell’Ufficio Federale di Statistica sono corrette, nel 2018 il livello dei salari è cresciuto in media del 0,5 percento in Svizzera – quindi meno dell’inflazione, la quale si è attestata l’anno scorso al 0,9 percento. Lo stesso fenomeno si era già verificato nel 2017. Detto in parole povere (è il caso dirlo?), i salari in Svizzera sono diminuiti per la seconda volta consecutiva. Per l’Unione Sindacale Svizzera (USS) si tratta di un’evoluzione preoccupante. Dal canto loro, i rappresentanti padronali fanno valere l’obbligo di aumentare gli investimenti, da tempo posposti.
L’andamento della produttività
Ma come giudicare in modo oggettivo l’evoluzione degli stipendi a livello di un paese? Prima di tutto serve mantenere una visione d’insieme. Contingenze (come ad esempio il rialzo repentino dei prezzi del petrolio) possono incidere a corto termine sull’inflazione e quindi sul potere d’acquisto dei salari. Se consideriamo il periodo dal 2009 a questa parte, notiamo invece che i salari reali in Svizzera sono cresciuti in media dell’uno percento all’anno; una crescita tutto sommato robusta se si considera che questo periodo include sia la crisi finanziaria che gli anni del franco forte.
Ancora più pertinente è però il raffronto con l’andamento della produttività. A lungo termine gli aumenti salariali dovrebbero corrispondere a quelli della produttività del lavoro. Infatti, se i salari crescono più velocemente, la parte del reddito totale che va a i lavoratori cresce a scapito dei margini delle imprese, diminuendone la capacità di investimento. Ciò, prima o poi, avrà ripercussioni anche sull’impiego.
Ebbene, negli ultimi dieci anni gli aumenti salariali in Svizzera sono stati quasi sempre superiori a quelli della produttività, a tal punto che la parte dei salari nel PIL da noi è in aumento, mentre negli Stati Uniti e in molti altri paesi ricchi essa ha perso terreno rispetto ai redditi del capitale. Difficile individuare le cause esatte di questa anomalia elvetica. Il rafforzamento repentino del franco ha causato una certa perdita di competitività della nostra industria di esportazione, obbligando molte imprese a rosicare sui profitti.
Comunque sia, alla luce dell’evoluzione molto modesta della produttività, quella dei salari è stata a lungo ragguardevole. A conti fatti, una correzione era inevitabile.
Produttività del lavoro
Nel 2018 i salari salari reali sono scesi quest’anno in Svizzera nei comparti coperti da contratti collettivi di lavoro (CCL): colpa dell’inflazione, che ha divorato gli aumenti concordati dalle parti sociali. Stando ai dati diffusi stamane dall’Ufficio federale di statistica (UST), i rappresentati degli stipendiati e dei datori di lavoro si sono intesi per il 2018 su aumenti nominali dello 0,9% per i salari effettivi e dello 0,5% per quelli minimi negli ambiti dei principali CCL, ovvero quelli che interessano almeno 1500 persone. La previsione per il rincaro è però del +1%: questo significa che gli stipendi reali nei comparti convenzionali dovrebbero diminuire dello 0,1%.
Questo podcast è stato pubblicato il 28.1.2019 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.