Plusvalore
Per molti ricercatori e ricercatrici, rimanere esclusi dal principale «mercato» europeo della ricerca non è un’opzione
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Marco Salvi
«Horizon Europe»: non è solo questione di soldi
PlusvalorePer molti ricercatori e ricercatrici, rimanere esclusi dal principale «mercato» europeo della ricerca non è un’opzione
«Horizon Europe», il programma quadro dell’Unione europea per la ricerca e l’innovazione, è uno dei grandi successi dell’UE. Non c’è programma al mondo che promuova la cooperazione transnazionale nella ricerca su una scala altrettanto ampia. Horizon dispone di stanziamenti sostanziali (quasi 100 miliardi di euro su un periodo di 6 anni), e i suoi numerosi programmi coprono l’intera catena dell’innovazione; dall’idea iniziale per la ricerca di base ai nuovi prodotti e servizi.
Così, quando il 22 giugno 2021 l’UE ha informato la Svizzera che non sarebbe più considerata quale partecipante pienamente associato all’attuale programma, ma solo come paese terzo, l’apprensione nel settore della ricerca è stata subito grande. Queste inquietudini non si sono ancora placate.
Tra il 2014 e il 2020, le partecipazioni svizzere a Horizon sono state più di cinquemila. Spesso gli istituti svizzeri vi hanno assunto un ruolo leader: i Politecnici federali, ad esempio, nel 45 percento dei casi. Il Consiglio federale ha promesso di compensare i finanziamenti europei con fondi interni. Ma un recente sondaggio rivelava che l’88% degli istituti universitari svizzeri non considera queste soluzioni di ripiego come equivalenti.
Infatti, l’importanza di Horizon va ormai ben oltre la capacità di mobilizzare finanziamenti. La partecipazione a un programma è diventata un segnale ambito dai ricercatori – un sigillo di approvazione della comunità scientifica. Studi empirici mostrano che chi riceve il sostegno del Consiglio Europeo della Ricerca (ERC), o meglio ancora ne dirige un progetto di ricerca, ne ricava spesso una spinta importante alla carriera.
I ricercatori sono una categoria professionale molto mobile a livello internazionale. La «caccia» ai talenti scientifici si è intensificata. Inoltre, nella ricerca diventa sempre più importante potere fare rete. Lo sottolinea il fatto che la proporzione di pubblicazioni scientifiche con più co-autori è aumentata notevolmente negli ultimi anni. Le collaborazioni di ricerca contribuiscono all’attrattiva di un’università per ricercatori altamente qualificati e mobili. Non sorprende quindi che ben il 75% degli istituti universitari svizzeri intervistati ha dichiarato di non essere più ugualmente attraente come datore di lavoro senza la partecipazione a Horizon Europe.
Insomma, bisogna riconoscerlo: con Horizon l’UE è riuscita a creare un «mercato» internazionale della ricerca altamente competitivo. Non sarà facile per le università svizzere trovare sostituti adeguati. Per molti ricercatori, soprattutto per i migliori, rimanerne esclusi non è un’opzione.
Questo podcast è stato pubblicato il 7.2.2022 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Benché la Svizzera non sia membro dell’UE, la nostra economia è molto integrata a quella dell’Unione. Secondo uno studio del Centro di ricerca congiunturale del Politecnico di Zurigo di qualche anno fa, la Svizzera sarebbe più integrata al mercato interno UE della maggioranza degli stati membri stessi, Italia, Francia e Germania comprese. Se si considerano gli scambi commerciali, il movimento di capitali e la migrazione, solo Belgio e Irlanda avrebbero un grado di interconnessione ancora maggiore.
La decisione del Consiglio Federale a fine maggio di interrompere i negoziati sull’Accordo quadro istituzionale – preferendo puntare sullo status quo – potrebbe portare a un allentamento significativo di questi rapporti? Considerato che in termini di regolamentazione il mercato interno europeo continua ad evolvere e che, secondo l’attuale dottrina di Bruxelles, senza un Accordo quadro istituzionale gli accordi bilaterali attuali non saranno aggiornati, il pericolo sembra più che reale.
Le prime crepe si sono già prontamente manifestate durante l’estate. Da fine giugno la Svizzera viene considerata come paese terzo a livello di ricerca scientifica, con conseguenze dirette per le collaborazioni più prestigiose che non saranno più finanziate da fondi europei. Altro effetto immediato: l’accesso dei prodotti medtech svizzeri al mercato interno dell’unione è diventato più difficile e più costoso, mentre rimane irrisolto il contenzioso riguardo alla riconoscenza borsistica.
Altre gatte da pelare sono dietro all’angolo. L’UE può decidere se le leggi sulla protezione dei dati all’estero sono riconosciute come equivalenti e se quindi non siano necessarie ulteriori misure di protezione per i flussi di dati transfrontalieri. La legge svizzera sulla protezione dei dati è stata classificata come adeguata dall’UE nel lontano 2000. Resta tutto da vedere se l’UE continuerà a riconoscere la legge svizzera come equivalente. Nel caso contrario, le imprese svizzere potrebbero vedersi vietata l’elaborazione dei dati relativi ai clienti residenti nell’Unione.
Incertezze aleggiano pure sul rinnovo di accordi sugli ostacoli tecnici al commercio, sui trasporti aerei e terrestri e sulla cooperazione in materia di facilitazione e sicurezza doganali. Nessuno di questi contenziosi ha di per sé la capacità di rimettere in questione in modo fondamentale le relazioni economiche tra la Svizzera e l’UE. Ma si sa, si può anche morire di mille piccole ferite.
Questo podcast è stato pubblicato il 06.09.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
L’abbandono repentino dei negoziati per un accordo quadro con l’UE, annunciato la settimana scorsa dal Consiglio Federale, è stato già ampiamento commentato. Per gli uni si tratta di una decisione storica, di portata simile a quella del Brexit per il Regno Unito. Secondo gli altri invece le conseguenze di un non-accordo rimarranno impercettibili alla stragrande maggioranza dei cittadini svizzeri.
Difficile oggi dire chi abbia ragione, anche se temo che la verità sia più vicina ai primi che ai secondi. Mi pare però chiaro che questa decisione si possa inserire in una tendenza isolazionistica risentita anche altrove, tendenza che paradossalmente trova le sue origini nel paese che spesso viene rappresentato (a torto) come il motore della globalizzazione: ovvero gli Stati Uniti.
O questa perlomeno è la tesi dell’economista americano Adam Posen, esposta con brio in un recente articolo nella prestigiosa rivista «Foreign Affairs». A riprova della sua tesi, Posen sottolinea come il rapporto commercio estero/PIL sia cresciuto negli USA più lentamente che in molti altri paesi – passando dal 20% nel 1990 al 30% nel 2008 – rimanendo però sempre ben al di sotto della media globale. Questo rapporto è poi sceso a partire dalla crisi finanziaria, e non si è ancora ripreso.
Il revival del protezionismo precede anche lo «shock cinese» conseguente all’ingresso nel 2001 della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Secondo una tesi sostenuta sia da Trump che dal suo successore Biden, i lavoratori americani ne avrebbero sofferto gravemente gli effetti, soprattutto nell’industria. Gli economisti stimano invece che la concorrenza cinese abbia causato la perdita di 130 000 posti di lavoro nell’industria all’anno: una bazzecola se paragonata al turnover del mercato del lavoro USA, dove si contano annualmente 60 milioni di disdette di contratto di lavoro.
Anche qui i paralleli con la situazione svizzera sono manifesti. Da noi lo shock non è stato quello cinese, ma piuttosto quello legato alla libera circolazione e maggiore integrazione istituzionale con l’UE. E se negli USA lo scetticismo rispetto al commercio e agli investimenti internazionali è stato accompagnato all’interno da una politica di stampo neoliberista, tra gli oppositori più accaniti all’accordo quadro con l’UE si trovano parecchi fautori del meno Stato.
Per Posen le tendenze protezionistiche ancora non sono maggioritarie a livello internazionale. In Asia o buona parte dell’Europa, la globalizzazione degli scambi e l’integrazione dei mercati proseguono senza troppi inghippi. Esse sono accompagnate da un rafforzamento dello stato sociale, non dal suo smantellamento. Ma la nostalgia per un’economia che non c’è più – e per le politiche che la sostenevano – oramai non si può più ignorare.
Questo podcast è stato pubblicato il 31.05.2021 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Plusvalore, Podcast
La Svizzera e l’Unione europea stanno negoziando ormai da cinque anni l’assetto futuro della loro relazione bilaterale. Il motivo di queste trattative, anche se a prima vista astratto, è di grande importanza concreta per il nostro paese. I rapporti stabiliti finora hanno il difetto di essere statici. Non esiste un…
La Svizzera e l’Unione europea stanno negoziando ormai da cinque anni l’assetto futuro della loro relazione bilaterale. Il motivo di queste trattative, anche se a prima vista astratto, è di grande importanza concreta per il nostro paese. I rapporti stabiliti finora hanno il difetto di essere statici. Non esiste un meccanismo che permetta di ridurre le divergenze tra il diritto svizzero e quello europeo; e queste si accumulano con il passare del tempo. Da qualche settimana il risultato dei negoziati è noto: esso prevede un nuovo meccanismo per risolvere le differenze che potrebbero affiorare in cinque accordi, fra i quali quello chiave sulla libera circolazione delle persone.Il principale punto di contesa non riguarda però questo meccanismo. A far parlare in Svizzera sono soprattutto le modifiche previste alle misure di accompagnamento e il loro presunto impatto sul livello dei salari elvetici.
La portata reale delle modifiche
Secondo i sindacati, queste misure sarebbero sacrosante e non vanno ritoccate nemmeno nei loro complessi (e burocratici) dettagli applicativi.Ma qual è la portata reale delle modifiche discusse? Esse riguardando principalmente le norme che regolano i lavoratori distaccati in provenienza dell’UE. Nel 2017 sono stati registrati più di 300’000 soggiorni brevi, un numero a prima vista elevato, che va però subito messo nella giusta prospettiva. Nell’UE infatti, sono consentiti distacchi fino a un anno, in Svizzera solo fino a 90 giorni. Di conseguenza, la durata media di un distacco nell’UE è di circa tre volte più lunga che da noi.
Se si tiene conto della breve durata dei soggiorni in Svizzera, diminuisce fortemente l’importanza complessiva del lavoro distaccato. Nel 2017 i distaccati hanno fornito 9 milioni di ore lavorate, pari a 28’000 posti di lavoro a tempo pieno. Per intendersi: ciò equivale più o meno all’organico delle FFS – ovvero a nemmeno l’un percento degli occupati. Nessuno sostiene seriamente che i salari dei collaboratori delle FFS possano influire sulla struttura salariale a livello nazionale.
Il distacco completa l’offerta di lavoro tradizionale
Allo stesso modo, l’impatto del lavoro distaccato sui salari svizzeri – fatta forse eccezione per qualche settore in Ticino, dove questo tipo di lavoro è concentrato – non può che essere marginale. Del resto, l’evoluzione del numero di distaccati in Svizzera non lascia intravvedere una sostituzione della manodopera autoctona. Al contrario, il maggior numero di distaccati in provenienza dell’UE è sempre stato accompagnato da un aumento significativo dell’occupazione dei residenti svizzeri. A riprova che il lavoro distaccato completa l’offerta di lavoro tradizionale, ma non la sostituisce.
Questo podcast è stato pubblicato il 14.1.2019 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.