Plusvalore, Podcast
La Svizzera e l’Unione europea stanno negoziando ormai da cinque anni l’assetto futuro della loro relazione bilaterale. Il motivo di queste trattative, anche se a prima vista astratto, è di grande importanza concreta per il nostro paese. I rapporti stabiliti finora hanno il difetto di essere statici. Non esiste un…
La Svizzera e l’Unione europea stanno negoziando ormai da cinque anni l’assetto futuro della loro relazione bilaterale. Il motivo di queste trattative, anche se a prima vista astratto, è di grande importanza concreta per il nostro paese. I rapporti stabiliti finora hanno il difetto di essere statici. Non esiste un meccanismo che permetta di ridurre le divergenze tra il diritto svizzero e quello europeo; e queste si accumulano con il passare del tempo. Da qualche settimana il risultato dei negoziati è noto: esso prevede un nuovo meccanismo per risolvere le differenze che potrebbero affiorare in cinque accordi, fra i quali quello chiave sulla libera circolazione delle persone.Il principale punto di contesa non riguarda però questo meccanismo. A far parlare in Svizzera sono soprattutto le modifiche previste alle misure di accompagnamento e il loro presunto impatto sul livello dei salari elvetici.
La portata reale delle modifiche
Secondo i sindacati, queste misure sarebbero sacrosante e non vanno ritoccate nemmeno nei loro complessi (e burocratici) dettagli applicativi.Ma qual è la portata reale delle modifiche discusse? Esse riguardando principalmente le norme che regolano i lavoratori distaccati in provenienza dell’UE. Nel 2017 sono stati registrati più di 300’000 soggiorni brevi, un numero a prima vista elevato, che va però subito messo nella giusta prospettiva. Nell’UE infatti, sono consentiti distacchi fino a un anno, in Svizzera solo fino a 90 giorni. Di conseguenza, la durata media di un distacco nell’UE è di circa tre volte più lunga che da noi.
Se si tiene conto della breve durata dei soggiorni in Svizzera, diminuisce fortemente l’importanza complessiva del lavoro distaccato. Nel 2017 i distaccati hanno fornito 9 milioni di ore lavorate, pari a 28’000 posti di lavoro a tempo pieno. Per intendersi: ciò equivale più o meno all’organico delle FFS – ovvero a nemmeno l’un percento degli occupati. Nessuno sostiene seriamente che i salari dei collaboratori delle FFS possano influire sulla struttura salariale a livello nazionale.
Il distacco completa l’offerta di lavoro tradizionale
Allo stesso modo, l’impatto del lavoro distaccato sui salari svizzeri – fatta forse eccezione per qualche settore in Ticino, dove questo tipo di lavoro è concentrato – non può che essere marginale. Del resto, l’evoluzione del numero di distaccati in Svizzera non lascia intravvedere una sostituzione della manodopera autoctona. Al contrario, il maggior numero di distaccati in provenienza dell’UE è sempre stato accompagnato da un aumento significativo dell’occupazione dei residenti svizzeri. A riprova che il lavoro distaccato completa l’offerta di lavoro tradizionale, ma non la sostituisce.
Questo podcast è stato pubblicato il 14.1.2019 nel programma Plusvalore su RSI Rete Due.
Possiamo affermarlo senza temere di esagerare: l’Unione Europea non fa sognare, e ciò non solo in Svizzera ma anche nei paesi membri. Eppure l’opinione pubblica europea – fatta eccezione per quelle italiana e inglese, di gran lunga le più euroscettiche –, quando interrogata al proposito non esita ad indicarne i benefici. Secondo l’ultimo sondaggio dell’Eurobarometro, 57% degli abitanti dell’UE indicava tra i punti più positivi la libera circolazione delle persone e il mercato unico. Altre pietre miliari dell’integrazione europea, come l’euro, raccolgono invece molto meno consensi.
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Effetti spettacolari
Un ambizioso studio appena pubblicato da un team di economisti della Banca centrale francese ci permette di meglio capire le ragioni di tale sentimento. Intitolato «Les coûts de la non-Europe, revisités» il rapporto quantifica i guadagni in benessere generati dalla libera circolazione di merci e servizi, introdotta nel lontano 1993.Ebbene, la creazione del mercato interno, nel quale le merci possono circolare tra i paesi membri con la stessa facilità con cui si muovono all’interno di un singolo paese, ha avuto effetti spettacolari dal punto di vista economico. Grazie al mercato unico, gli scambi sono aumentati del 109 per cento in media per le merci e del 58 per cento per i servizi. Questo effetto è di ben tre volte superiore a quello che si sarebbe registrato se i paesi membri avessero semplicemente instaurato un’area di libero scambio, rinunciando così a dazi doganali, senza però armonizzare in profondità le loro legislazioni.
Grandi vantaggi per le piccole economie
Lo studio stima guadagni in termine di benessere associati all’integrazione dei mercati nazionali equivalenti al 4,4% dei redditi. Ciò può sembrare poco, ma va subito precisato che i vantaggi sono stati ben più grandi per le piccole economie aperte (come l’Olanda, l’Austria e i paesi dell’Est) che per i grandi stati come Francia o Germania. La ragione è presto trovata: questi ultimi disponevano già prima del singolo mercato europeo di mercati interni estesi.
Da ultimo, gli economisti francesi stimano che se i paesi europei dovessero in futuro abbandonare il mercato comune ne risulterebbero perdite notevoli in termine di benessere economico: in Ungheria i redditi diminuirebbero del 17%, in Olanda e in Belgio del 10%, pari quindi a una severissima depressione economica.Queste cifre devono fare riflettere anche gli svizzeri. Il rinuncio eventuale agli accordi bilaterali con l’UE – anche se per tornare a una zona di libero scambio – lascerebbero tracce profonde nei nostri portafogli.
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Non servono comissioni per decidere dell'opportunità di investimenti esteri
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Marco Salvi
Quando sbarcano i cinesi
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È notizia di qualche giorno fa: la Bally, già prestigioso marchio della calzatura svizzera, dopo numerosi travagli e cambiamenti di proprietari, è stata acquistata da investitori cinesi. Non si tratta di un caso isolato: la stessa sorte è toccata di recente a Swissport, Gategroup e Syngenta. Quest’ultima rimane addirittura la più importante acquisizione di una ditta estera da parte di investitori cinesi.
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Che ditte «tipicamente» svizzere passino in controllo estero non è certo una novità. L’82% del capitale delle imprese quotate alla borsa elvetica è in mano straniera. Secondo la Banca Nazionale, gli investimenti esteri nel nostro paese raggiungerebbero oramai i 1000 miliardi di franchi. La parte degli investitori cinesi, benché in crescita, rimane marginale.
Gli investimenti dalla Cina creano però un problema supplementare: gli acquirenti sono spesso ditte controllate in maniera più o meno diretta dallo stato cinese. Lo stesso stato non esita a bloccare investimenti simili in Cina, dichiarando numerosi settori di interesse strategico – e quindi «off limits» per investitori svizzeri. Così viene a mancare un importante elemento di reciprocità.
Per rimediare a questa asimmetria, c’è chi da noi richiede maggiore regolamentazione, con l’introduzione di una commissione che giudicherebbe dell’opportunità di tali acquisizioni, valutando criteri di politica industriale e di difesa nazionale. Meccanismi simili esistono negli Stati Uniti e in vari paesi dell’UE.
Questa idea va però respinta. Infatti, analisi empiriche dei meccanismi in vigore all’estero mostrano che in ambito di investimenti industriali, il primato della politica ha un effetto deleterio sulle valutazioni di tutte le imprese di un settore, anche quelle che non sono target di scalate.
Del resto, paradossalmente, la Svizzera è già tra i paesi più restrittivi in materia. Investimenti in cosiddette infrastrutture di base, dall’acqua potabile all’energia, sono riservati a investitori rossocrociati – o allo stato. Non è oggi il caso di chiuderci a riccio. Meglio fare pressione a livello internazionale su una maggiore apertura del mercato cinese. In fondo, è proprio così che funziona la globalizzazione.